Maria Teresa Coppola
Poesie
Stanotte
l’Universo guarda il giardino.
Notte dialoga con Erebo
sciorinando gioielli,
Arturo, Sirio, forse Vega,
più in là Cassiopea.
Hypnos ritarda.
Ma so che la luce,
anche lontana,
allontana la paura.
Posso stare nella notte,
semplificarmi, fermarmi,
lasciare le cose
alla loro sapiente perfezione.
Amore oblativo mi investe,
riveste di pace
quest’ora che non cerca,
che accetta di non cercare
pensieri che non ha
finito di pensare.
E se ho venduto l’anima,
un’altra me ne farà.
Stanotte.
Andare a capo non posso
dacché
oggi mi lasci un quaderno,
solo un taccuino,
rettangolo di finestra su giorni
da cui farmi trovare.
Ci scriverò di te,
mio fantasma costante,
ma solo per te,
come solo tu sei,
come oggi, come ieri,
come sempre,
nel quadernino nero
dai bordi rossi
e la tavola pitagorica.
Tu sai parlare alle ombre,
richiamare uccelli
nella musica di Mozart,
anche quello azzurro
che se altri lo afferra
perde il suo colore,
conservi ciglia rosate
alle pratoline che cogli
e scopri luoghi
dove il cuore può germogliare.
Tu che, quieto,
consenti alle parole di trovarti,
trattienimi,
che nella fretta di andare
ho scordato l’ultimo miraggio.
Contano i salvati.
I dispersi li presumono.
La conta assolve.
I morti sono numeri.
Spariti occhi, braccia
– neppure quelle
hanno chiesto aiuto –
speranze, sorrisi
nel borderò delle notizie
diventano relitti,
neanche di pregio, derelitti,
lasciati nel fondo
di un mare non più nostro,
provvida sottrazione a una somma
che è orda di invasori.
Restano ai margini
della nostra indifferente
vita che abiura il dolore,
massa uniforme, informe,
naufragio senza gloria
né bandiere, senza addii,
senza omaggio di sirene,
senza volto, senza nome,
senza una mano che gli passi
una carezza tra i capelli.
In questo tempo autunnale,
in questo viso autunnale
chiamo a raccolta
le cose, le case, le voci e i volti,
le partenze e gli abbandoni,
i libri, le canzoni intonate nei piedi,
le chimere, le lettere e i postini,
le caramelle mou e gli amaryllis,
le coccinelle in livrea rossa,
le rose di Josephine,
il coreografo iracheno,
Elegie duinesi e Metamorfosi,
la donna volante in casa di Raffaele,
I gatti che mi guardano
e negli occhi pronunciano il mio nome,
il clarinetto che entra nell’anima
ogni volta che scrivo un addio.
Primo lavoro
La vita ti disegna
e te ne accorgi quando
non sei più che scarabocchio.
Non sei tu che decidi.
O forse sì, e non lo sai.
Sono le cose che ti attraversano,
se non ci passi sopra,
se non le lasci scivolare via,
indifferente, senza cura.
Tu che ascolti e leggi anche i silenzi,
ti fa male un fiore caduto,
un sorriso triste,
mani non strette,
pensieri che non si incontrano.
Ti si incastrano tra gli occhi
e non si schiodano,
A lungo, troppo a lungo
per non diventare te,
e non farti paura,
non stupirti di straniamento,
se nelle tasche ti trovi
solo frutti autunnali,
colori addormentati.
Si può naufragare, nel non sapersi.
Come guardarsi
in uno specchio sconosciuto,
come violare il segreto
di una lettera rubata.
Secondo lavoro
Mattina presto.
Naufragio di sogni svegliati.
Non c’è bisogno
di coscienza né di guida.
Respirare basta.
Belli gli incontri,
solitari,
silenziosi o a bassa voce,
cani grati,
anch’essi muti.
Il profumo dei tigli ti veste,
ci cammini sopra.
La coda dell’occhio cattura
cielo di cicoria selvatica
e sole di verbasco.
Il mondo ti assomiglia.
Terzo lavoro
In un angolo del mio cuore c’è un posto sacro, che sa di timo e di origano, di fico e di mortella. Il sole e il vento non lo abitano più, disconosciuto, potato via come un ramo, ancora vivo, che fa troppa ombra. Che punta il dito dove non puoi, non sai più stare.
C’è ancora un treno che ci va – binario unico – Ci sono aerei che non sanno.
Ma tu non hai più gambe buone né fiato per sostenere l’oggi che non è più tuo.
Né più sono tuoi i vecchi aranci e la cisterna, il noce grande, i grilli e le cicale, i grembiuli delle vecchie in cui nasconderti da “Nanniorco”, dal lupo in agguato tra i corbezzoli delle “serre”.
Non viaggiano più lettere coi gelsomini nella busta.
Non c’è la casa, che ancora è là, ma nessuno ti aspetta sotto il portico. Non c’è più Momo né la Tina, la Concetta con le tette grandi, la Peppi che sa di ricotta e di cannella, la Cesira maestra di telaio, né le gatte di Filomena, che tutte si chiamavano Musetta, la fisarmonica di Emilio e Agnese che ricama sulla scala di calce, San Michele che pesa le anime, la spada d’argento nel cuore dell’Addolorata, né Giuseppe da Copertino in volo sui prati di camomilla, l’odore dolce di carrube vista mare.
L’almanacco di figure, affetti, odori e filastrocche si apre, si squaderna da solo, all’improvviso, e acceca con la gloria della luce, la luce levantina, bianca, assoluta, che ci ha resi antichi dalla nascita.
“Lasciateci soli – diceva Raffaele Carrieri – dobbiamo parlare tra noi. Noi siamo antichi “.