Mariafernanda Casciano - Poesie e Racconti

È tutto scritto”…

 

L’azzurro del mare in uno sguardo …

il luogo ideale in cui specchiarsi!

La freschezza di un vento rigeneratore, in un abbraccio …

il porto sicuro in cui rifugiarsi!

La forza rinnovatrice della bella stagione, in un semplice gesto …

confine velato di un ingresso  inaspettato!

 

I tuoi occhi,

quello specchio in cui la mia immagine è riaffiorata …

La tua presenza,

il richiamo di un lido inesplorato che all’immensità si apre …

Il tuo singolare temperamento,

il frutto di ferite tuttora evidenti …

 

Non c’è piaga, tuttavia,

in grado di arrestare la tua stravolgente energia!

 

In ogni alba un nuovo inizio,

in ogni astro il senso del “domani”,

in ogni attimo trascorso l’emozione di un ricordo che non sarà mai rimosso …

 

Tante terre calcherai,

il profondo degli Oceani attraverserai,

surreali civiltà scoprirai …,

fino a quando realizzerai che ogni “arrivo”

è il primo passo verso il prossimo traguardo!

 

“È tutto scritto” sulle pagine di quel libro mai visto …

anche il nostro incontro era già stato previsto …

“È tutto prestabilito” da quella oscura potenza chiamata Destino …

 

Ho ormai scolpito, in questo mio animo smarrito,

la bellezza del tuo spirito!


 

 

… Eco, monco di suono

 

Irresistibile e perverso torna:

eco, monco di suono, che nel capo tuona!

Passa svelto un ammonimento,

ma la brama di possesso ha vanificato anche l’ultima parvenza di buonsenso:

ruggine sull’armatura diviene l’intenzione assoggettata alla tentazione!

 

Avverto intenso il tono dell’ossessione:

richiamo molesto all’esercizio della scommessa,

sfida irriverente alle tenebre della sorte avversa,

appello viziato ad un fato spietato!

 

Ordigni infernali,

nei meandri della psiche,

i rumori delle monete …

 

Meccanismi spersonalizzanti,

nelle cavità della coscienza,

i colori artificiali delle slot spettrali …

 

Lama tagliente,

nella notte della ragione,

la percossa inferta dal gioco

ingannatore …

 

Logorato dal tarlo del guadagno,

da seriali tentativi di rivincita consumato,

noncurante del ruolo di figlio o di padre o di marito,

tra i condannati già ardo,

sconfitto dalla violenza della dipendenza!

 

Sospeso sulla soglia di una realtà ultraterrena

ora attendo,

spettatore di una corrente visione:

 

non un lamento da quel corteo affranto,

né un accenno di rabbia nel laico atteggiamento,

resta solo impressa,

nella memoria comune,

la macabra apparizione di quel corpo,

dall’alto, penzolante …

 

Rifiutato dal cielo,

rinnegato dalla vita,

affetto da un male oscuro,

questo mi resta:

 

una delicata ma,

frale,

corona funebre,

ossequio dovuto in segno di ultimo saluto…


 

Madre …

 

Mi hai insegnato a camminare lungo il sentiero imprevedibile delle esperienze:

un panorama variegato,

da monti e pianure attraversato!

 

Mi hai svelato il segreto celato dal fiabesco mondo incantato:

una dimensione surreale ai confini con l’Ideale!

 

Mi hai protetta dal buio delle notti insonni:

un labirintico percorso,

intervallato da luci ed ombre!

 

Mi hai mostrato lo spazio illimitato, dal suono svelato:

un altrove inatteso,

da creature alate ed esseri inanimati popolato!

 

Ad ogni salita incontrata,

quella voce sapiente mi ha sempre supportata …

Ad ogni caduta sperimentata,

quelle braccia affaticate mi hanno sollevata …

 

Ad ogni fantasma dell’anima,

unico rimedio:

il suo sguardo tenero …,

uno sguardo che, da lontano,

osservava il mio corpo cambiare,

uno sguardo che, saggiamente,

riusciva a leggere nella mia mente,

uno sguardo, mai improvvisato,

in grado di oltrepassare qualsiasi effetto scontato …

 

È lo sguardo di chi genera la Vita …

una sola parola:

 

“Madre”,

fonte d’amore incondizionato!


 

L’indebito trattamento …

 

Uno sguardo assente che la luce non riflette,

un viso dall’aspetto scolorito che il pianto

ha ormai reso inespressivo,

un corpo assai provato che la fatica ha deformato …

 

Isolato dagli affetti, quello sguardo,

ha smarrito il proprio lume …

Ignorato dalle genti, quel viso,

ha rinunciato per sempre al suo sorriso …

accantonato dai potenti, quel corpo,

la speranza del futuro ha perduto …

 

Uno sguardo che più non guarda,

un viso che più non parla,

un corpo che più non sente …

 

Non più una personalità in quegli occhi si ravvisa …

Non più un’identità distingue quel sembiante …

Non più un’anima si cela all’ombra di quel fisico spossato …

 

… È l’indifferenza riservata a chi appartiene alle remote generazioni!

È  la freddezza dimostrata a chi ha segnato il nostro passato!

È l’indebito trattamento destinato a chi ci ha generato …


 

La farsa delle apparenze

 

Frasi fatte, giudizi artefatti:

merce di scambio contraffatta …

Quale la fonte di siffatto negozio?

Il ronzio fastidioso di un alveare velenoso!

 

… come api sfasate, dal vento spostate,

il mormorio infetto, muta orientamento …

come muffa fetente su pareti levigate

si spande il frastuono, della mormorazione …

come fango viscoso lungo un viale alberato,

la maldicenza,  pece che infesta diventa …

 

Spine pungenti sulla pelle,

le parole taglienti restano nella mente,

innesti nocivi nelle vene,

le maniere simulate alterano la morale,

raduno di vipere sul corpo,

le lusinghe ordite raggirano l’individuo …

 

Il ritratto del rancore, alle spalle di cerimoniose espressioni;

dietro a sorrisi fittizi, il profilo dei vizi;

al di qua di maschere cangianti, il volto dell’inganno …

 

Alla luce, lo scenario duttile prende forma:

 

è il cominciamento di una rappresentazione plateale,

dal sapore quotidiano,

una recita arbitrariamente allestita,

di convenzioni, convenienze ed ambiguità rivestita,

uno spettacolo deformante la sostanza,

a favore di una “facciata”, il vuoto adombrante …

 

Confezioni d’esteriorità, involucri di superficialità:

le barriere innalzate per nascondere il deserto di nature condizionate,

di personaggi tipizzati, di un’identità spogliati …

 

Ornati, acconciati, imbellettati al sole,

la notte tornano nudi gli animati figuranti …

svestiti, nel buio di una prigione senza grate,

depongono l’abito di scena gli anonimi commedianti,

riconoscendo nell’oscurità riflessa su di una vetrata,

la debolezza di quella finta “facciata”,

la povertà della consueta farsa, d’apparenza fregiata,

la miseria insita nella parte recitata …

 

Eppure,

passata è con la notte l’asfissiante riflessione:

con l’aurora che avanza il sipario si rialza …



… Il più bello dei misteri

 

È come quando l’alba si staglia all’orizzonte:
… nessuna notte potrà eclissarla in eterno …,

Risorgerà!

È come quando le stelle del firmamento illuminano il cielo:
nessuna nube potrà oscurarle per sempre …,

Torneranno a brillare!

È come quando i prati fioriscono a primavera:
non c’è orma che possa calpestarli all’infinito …,

Rifioriranno!

È la VITA: … il più bello dei misteri,
… il più prezioso bene,
… la più sorprendente opportunità che,
tra lacrime e sorrisi, fulmini e schiarite,
ci condurrà al di là della realtà!”


Come un Fiore nel deserto

 

Tutto è iniziato in un gelido mattino d’inverno: sola, alla fermata del solito autobus che mi avrebbe condotta in città, aspettavo. Non riuscivo a sopportare quel freddo insostenibile, provavo a riscaldarmi con il mio stesso respiro, mi coprivo con quella sciarpa di lana colorata,  ma tutto sembrava inutile: continuavo a tremare, cercando di nascondere in tutti i modi il mio viso quasi assiderato. Ogni mattina mi si presentava la stessa situazione: attese interminabili, pioggia, vento e soprattutto tanto freddo! I giorni della settimana si differenziavano solo per via del nome, non esisteva alcuna particolarità che li distinguesse, eccezion fatta per l’attesa domenica, unico momento capace di interrompere la monotona routine settimanale. Tuttavia quel gelido mattino d’inverno accadde qualcosa che avrebbe portato cambiamenti inaspettati nel grigiore della mia statica quotidianità.

Non mi sono ancora presentata! Sono Aurora, una ragazza di diciotto anni dall’aspetto tutt’altro che  piacente: mediamente alta, dal fisico esile, miope da sempre e, pertanto, costretta a indossare lenti spesse e fuori moda. In molti, considerando questa scarna descrizione, vedranno in me lo stereotipo della studentessa sì, studiosa e ben educata, ma bersaglio dei coetanei per i suoi modi un po’ impacciati e per la sua smania di primeggiare nelle valutazioni degli insegnanti. Ahimè, sono costretta a deludere le previsioni dei più! Purtroppo non frequento nessuna scuola, pur avendo un’età in cui lo studio dovrebbe ricoprire un ruolo determinante, in cui primaria dovrebbe essere la formazione e l’istruzione in vista di un futuro il più possibile gratificante. La mia vita conosce poco dei banchi di scuola, delle litigate o delle risate con i compagni di classe, delle giovanili bravate compiute in larghe comitive di ragazzi, attraversati da sensazioni e stati d’animo contrastanti. Io sono diversa da tutti gli altri … non per scelta tuttavia, ma per un complesso di circostanze che il caso ha voluto destinarmi prima ancora che venissi al mondo, imprevisto risultato di un atto indesiderato, di una violenza consumata sotto gli occhi indifferenti di un branco di inqualificabili belve. È proprio così: sono il frutto di un abuso, di una brutalità immeritata, generata da quel mondo borghese abituato a pavoneggiarsi con l’abito del perbenismo e dell’ipocrisia, da quel mondo che nasconde la perversione dei propri figli sotto il manto dell’ingenuità e della giovinezza. Non ho un padre, ma ho una madre, una donna assai provata dalla stanchezza di un’esistenza vissuta nella misera periferia della Città Eterna, della Roma dei Papi che oggi – più che mai –  purtroppo, appare inevitabilmente alla maniera di una bolgia infernale, percorsa dalla corruzione e dalla perdizione. E, di quella perdizione ho esperienza diretta …

Raccontare del mio passato potrebbe essere edificante, mi aiuterebbe a sentirmi simile a tanti altri, parte di una categoria accomunata dall’appartenenza ad un contesto affettivo, ma – come ho già detto – io sono diversa …, non ho radici, la mia origine è oscura, immersa nella nebbia di una tetra sera di novembre, quando quel famelico branco di presenze tenebrose, con ferocia, dilaniò l’indifesa preda, condannandola ad una condizione di esclusione ed emarginazione.

Come può l’uomo divorare l’uomo? Come può il mondo non vedere o accettare inerme la vittoria dell’ingiustizia? Come può il compromesso prevalere sulla coscienza? Interrogativi questi insolubili, ossessioni della mente che mi perseguitano dal giorno in cui la verità ha squarciato il velo delle illusioni …

Ricordo ancora quando, piccola e indifesa, chiedevo di mio padre a quella donna che, con fatica riusciva a sfamarmi; a quella donna che, un tempo raggiante e brillante, nel silenzio stava sfiorendo, logorata dal peso del pregiudizio, dalla delusione dell’abbandono ad opera di chi avrebbe dovuto difenderla e sostenerla anziché schiaffeggiarla a colpi di disprezzo: ebbene, mia madre è figlia di quella realtà borghese doppia e impostata, pronta a rinnegare il proprio sangue pur di preservare titoli e posizioni.

Pertanto, la donna che mi ha generato, violata prima nel corpo e nello spirito, schernita e bandita poi da una vile cerchia di consanguinei – servi di un sistema malato e viziato – ha pagato con l’onta del disonore, la scelta di rendermi alla vita.

Tu non sei mai nata … vergognoso male”,

le ultime parole pronunciate da suo padre – con tono pacato – nel chiuso di una sala opprimente, alla presenza di una madre impassibile e risoluta nel proposito di infliggere, con il silenzio, l’ennesima umiliazione alla giovane innocente, vittima di strategie occulte; di piani da rispettare in vista dell’appropriazione pilotata di appalti, finalizzati alla ristrutturazione di infrastrutture e opere pubbliche della città pontificia: il silenzio in cambio del possesso, la legge alla mercé del clientelismo, la dignità di una figlia svenduta all’avvilente prezzo di un accordo fangoso.

Un fiore nel deserto: questo è stata la mia mamma all’epoca della gravidanza … Isolata, privata d’ogni forma di considerazione come avrebbe potuto schierarsi contro i suoi aguzzini, prole malsana di quelle mani invisibili ma imbrattate di marciume, con cui suo padre quotidianamente scendeva a patti? Additata alla stregua di una misera meretrice, come avrebbe potuto denunciare i rampolli di quell’alta società a cui i suoi parenti ricorrevano per favori e concessioni?

Consapevole dell’esito infelice di eventuali accuse e denunzie, la fanciulla dai lunghi capelli color corvino, un tempo spensierata e protetta dallo schermo delle apparenze, abbandonò assieme al travestimento da ragazza “perbene”, ogni proposito di rivalsa, condannando quel “fiore nel deserto” a sfiorire lentamente, ad invecchiare precocemente, sino a perdere completamente la ragione e finire internata in una clinica psichiatrica.

Ed è proprio in quello squallido posto che ogni mattina – da circa otto mesi –  mi recavo, prima di affrontare la consueta giornata lavorativa all’interno di un immenso hotel stellato, costretta a sostenere ogni sorta di incombenza e, non in ultimo, lo sguardo – carico di sdegno – di mogli e di figlie superbe e frivole, fanatiche solamente delle mode del momento. Le camere – ad un ritmo serrato –  ripulivo al mio arrivo in albergo, per poi passare nelle ampie cucine a sistemare quello che, cuochi, camerieri ed altro personale, avevano trasformato in un animato campo di battaglia, percorso da speciali condimenti e vivande invitanti. Le ore sembravano interminabili, le faccende da svolgere incalcolabili, il desiderio di fuggire da quel contesto soffocante restava onnipresente, ma non potevo scappare, non esisteva alcuna via alternativa, capace di garantirmi la sopravvivenza: ero davvero sola, a quel punto …, neanche la mia debole mamma più ad attendermi quando, la sera, varcavo la soglia di quel logoro e freddo monolocale.

Ma quel gelido mattino d’inverno, tremante alla solita fermata, avvolta dall’unico indumento che assegnava un po’ di colore al mio aspetto sbiadito, ovvero la vecchia ma variopinta sciarpa di lana che mia madre aveva realizzato in attesa che vedessi la luce, ricamando ad una delle sue estremità il mio nome, una voce vibrante mi passò attraverso

Mostrami il tuo volto …

Come una freccia scagliata da un arco, trapassa le foglie che incontra nel suo tragitto, prima di fissarsi nella corteccia di un albero, così quel verso secco penetrò nel mio animo, divenendo monumento nella memoria. Senza indugio alzai il capo – come d’abitudine chino, nel tentativo di ripararlo dal freddo – e un’altra me scrutai sul viso scoperto di una creatura dai tratti familiari, di semplicità rivestita: era la mia figura riflessa allo specchio …

L’impressione fu tale che per un istante il fiato si arrestò; non riuscivo a parlare, sospesa tra una realtà nota e una dimensione ignota, tra un corpo sensibile e un’immagine dalla provenienza indefinita; unico raccordo tra le due condizioni quella sciarpa colorata, annodata alla tracolla della sconosciuta che, esposta al vento, sventolava a mo’ di uno sgargiante acchiappasogni, teso a trattenere e, conseguentemente, allontanare l’ingerenza del negativo.

Stessa sciarpa, stessi occhi, stesso sembiante: solo un curioso concorso di casuali circostanze o, al di là del nostro aspetto, si profilava uno scenario tutt’altro che previsto?

Non ti conosco, non sapevo esistessi, eppure ti cercavo, … percepivo la tua essenza … La mia identità è stata impressa, dalle mani di qualcuno, su questa sciarpa, “sorella” a quella che ti scalda il viso, un viso nel quale mi ritrovo … Sono Alba, figlia di un corpo smembrato …

Dopo aver udito quel nome e quelle parole – pronunciate dalla ragazza con debordante emotività – un brivido mi percosse, raggelandomi le vene: l’alba e l’aurora, due momenti inseparabili la cui differenza è quasi impercettibile – sebbene la prima preceda la seconda –, una corrispondenza imprescindibile in cui il sole si manifesta, sorge e la notte rischiara;  Alba e Aurora, non solo una questione d’anagrafe bensì il simbolo di una condizione umana, il rinvio a uno scenario mortificante, pregno di sofferenza, segnato dal silenzio delle lacrime di una madre costretta a separare due destini complementari, rinunciando – come corpo smembrato  – ad uno dei suoi arti.

Ora tutto prendeva forma: il progressivo consumarsi della donna che mi aveva svelato l’esistenza, la sua precoce demenza, l’insistente invocazione di quell’Alba che credevo rimandasse al desiderio di luce, al timore per il buio della notte, al fugace sollievo da lei provato alla vista del sole che nasce e giunge anche all’interno di un tetro e asfittico ospizio. E invece mi sbagliavo: mia madre gridava un nome, implorando l’apparizione non di un astro ma di quell’arto mancante a cui costantemente volava con la mente; eppure, tutto ciò che restava granitico nella sua memoria era il pianto di una neonata in fasce, da lei contemplato – per l’ultima volta – attraverso l’opaca vetrata di un affollato nido d’ospedale. Ma, quella bambina ormai cresciuta, maturata all’ombra di doppie verità era proprio lì, innanzi a me, ci specchiavamo l’una negli occhi dell’altra: due trame intricate dalla medesima origine accomunate; due anime perse, inaspettatamente, ritrovatesi lungo quel sentiero orientato dal caso; due sorelle, per necessità separate, dallo stesso sangue  indissolubilmente legate. Alba era la mia gemella …; era quella creatura indifesa abbandonata alla nascita …;  era l’immane dispiacere che aveva seppellito lo spirito di quel Fiore nel deserto, ora completamente sfiorito.

Non esiste circonlocuzione in grado di trasmettere l’emozione che ho provato quando mia sorella mi ha abbracciato, né metafora appropriata capace di trasferire in un oggetto il livello d’empatia che fondeva le nostre essenze: amavo ed ero amata …

Benché figlie senza un passato, rinnegate o – per motivi inconoscibili – rifiutate, il nostro incontro casuale ci aveva salvate dalla piaga dell’esclusione, da quel malessere che aveva già colpito chi alla vita ci donò, una donna che, tuttavia, non era riuscita a godere della visione salvifica della sua Alba, costantemente invocata: mia madre si spegneva, infatti, quel gelido mattino d’inverno, inerme, in una desolante casa di cura, avvinghiata dal rimpianto per quella figlia che aveva abbandonato, per quelle creature che aveva separato.

Così, pur non avendo goduto dell’ultima apparizione dei colori e della luminosità dell’Alba e dell’Aurora che, sfiorandosi e confondendosi, preparano la venuta del sole, quel fragile fiore nel deserto si è congedato dalla vita restituendo al suo corpo, un tempo smembrato, l’arto mancante:

libera la sua anima si innalza e trapassa il visibile, assistendo – da un altrove insondato – allo spettacolo mortale di due voci vibranti che all’unisono avanzano …



… È il coronamento di una folle traversata

 

Dalle nebbie di una sfera di cristallo ha inizio la narrazione di un destino, dall’enigmaticità di carte figurate prende forma la combinazione della sorte, dalla visione di sogni offuscati si manifesta la scalata animata di un rilievo intricato, la sommità del quale preserva l’ultimo traguardo, in dote serbato a quel mortale eletto dal fato: un mito imperituro è stato edificato …

Nella penombra di una stanza avvolta dall’aroma dell’incenso, sprovvista di vetri o fessure in grado di concedere all’osservatore la vista di un panorama dipinto di cielo e natura, animata tuttavia, da candele profumate – su tappeti orientali sparse -, da amuleti pendenti da specchi e tendaggi ondeggianti, all’interno di simile scenario, da un’aurea misteriosa permeato, calcarono il pavimento dei passi lenti, preceduti inspiegabilmente – in luogo privo di aperture verso l’esterno – da un fugace ma intenso baleno. Repentina una voce vibrò e il palmo di una mano affiorò:

“Cerco me stesso …”

Seduto, al centro dello spazio – ad un tavolo circolare – sobbalzai e incapace di replicare all’insolita ed oscura affermazione, quella mano afferrai, guardando “oltre”, catturato da una straordinaria esplorazione, da una traversata intensa dalla quale è bandita ogni minima distrazione: vidi, sentii, tornai alla vita attraverso la mediazione, immergendomi in un fondale marino attraente, camaleontico, suggestivo benché percorso dall’imprevisto e dal rischio; un fondale marino capace tanto d’affascinare quanto d’ingannare, spingendo l’essere ad “oltrepassare” i limiti dell’umano; un fondale marino eletto a raffigurare l’imprevedibilità di una vicenda esistenziale.

Il protagonista di questo viaggio avventuroso, un Ulisse dall’aspetto seducente, non conosceva barriere al di qua delle quali arrestarsi, pur preservando la freschezza e la spontaneità di un “fanciullino”; profondamente desiderava quel “viso d’angelo” che le anime catturava, servendosi semplicemente dell’innata grazia di un temperamento complesso, in conflitto con se stesso, diviso fra l’intenzione di restare fedele all’“essere” e l’opportunità insita nel rispetto delle “apparenze”. Eppure, al cospetto dell’amletico dilemma il giovane dai lineamenti raffinati ha scelto di “essere”, giurando innanzi alla propria figura riflessa in uno specchio impenetrabile, di amarsi ripudiando il volto del pregiudizio, di conoscersi piuttosto che ignorarsi, di “sentire”, esperire, inseguendo mete ed esperienze insondate, anziché eclissare sogni e ideali all’ombra di una insignificante normalità: all’indifferenza ha risposto vivendo autenticamente, libero di inseguire la voce mai sopita di quel “fanciullino” incontaminato, preservato nelle profondità del proprio “fondale” umano.

Così, il ragazzino dagli occhi color del mare, abbandonò il luogo natale – una realtà provinciale dell’Italia settentrionale – imprimendo nella memoria, come segno indelebile, il ricordo di quell’uscio di casa lasciatosi alle spalle, di quella porta che, chiudendosi, nascondeva il pianto e le speranze di un padre ed una madre dalle vedute allargate, di quella soglia atta a sigillare e custodire le memorie trascorse per aprire ad un orizzonte imprevisto, di numerose sfumature tinto: bussola della ricerca sarebbero diventate le tracce lasciate da sogni e premonizioni, faro che rischiara, il soffio spirato da quel “fanciullino” ostinato che, costantemente ardente, prendeva alimento dalla sfera creativa, dall’ideazione di fantasiose collezioni d’abiti ed accessori, dall’ammirata contemplazione delle lussuose vetrine allestite lungo le più celebri strade dello shopping. Da Via Montenapoleone – a Milano – a Via Condotti – a Roma -, da Via Roma – a Torino – al Quartiere di Chiaia – a Napoli -, sino ad arrivare all’affollata Oxford Street della capitale del Regno Unito: tutti luoghi questi non solo conosciuti indirettamente, ma visitati personalmente – alla maniera di inestimabili monumenti – da quel bambino che perdeva il fiato davanti all’originalità di singolari capi griffati; da quel bambino incantato innanzi ad una versatile dimensione, di tessuti e policromie, rivestita; da quel bambino incompreso dal senso comune, supportato invece dal tatto di due genitori esemplari, pronti a sollevarlo dalle angosce e dai tormenti insiti nel conflitto tra identità e natura.

La distinzione, la singolarità, il trionfo della personalità: il risultato della lotta con se stesso; l’esito di un’adolescenza, da alte e basse maree attraversata; il sentiero intrapreso al bivio tra la negazione delle proprie inclinazione e l’immersione nelle impenetrabili profondità dell’universo umano, un’immensità contenuta inspiegabilmente in ogni essere, debordante invece in poche creature prescelte.  

Fu così che il giovane dall’aspetto raffinato, senza certezza alcuna, forte però della propria individualità e del trasporto per quel mondo in continuo divenire, per quella dimensione sfuggente ma affascinante, per quella realtà – banalmente – semplificata con la generica denominazione di “moda”,  si inoltrò per vie tutt’altro che agevoli, inaugurando ad ogni traguardo “oltrepassato”, il lancio in una nuova peregrinazione, il decollo verso la prossima destinazione, esaminando con tenacia la vastità della propria interiorità e, soprattutto, scorgendo lentamente l’inganno tradito dall’ennesimo desiderio esaudito, l’infelicità riservata a chi impara a saziarsi dell’ordine e del ritmo quotidiani.

La città della contraddizione, degli eccessi, della bizzarria, – al di là di ogni circonlocuzione – Londra, la sua prima meta, confine varcato che lo avrebbe stregato, travolgendolo nel vortice delle passioni sfrenate, delle esperienze estreme, del dolore che esplode convertendosi in fuoco che arde, brucia e, in ultimo, consuma. Al pari di un dandy decadente, elegante e raffinato nel portamento, ribelle e disobbediente al cospetto di vuoti moralismi e ipocrisie, il ragazzo dall’aspetto ricercato, a seguito di difficoltà e ostacoli affrontati con tenacia, soddisfò la promessa fatta a se stesso, muovendo i propri passi oltre l’entrata imponente e maestosa di quell’edificio dalle pareti vetrate: era l’ingresso in una dimensione scintillante, fastosa, sontuosa; erano gli Harrods, la dimora del lusso e degli spropositi, i grandi magazzini di fronte ai quali un “fanciullino”, assetato di bellezza e distinzione, aveva lanciato una sfida rischiosa, privandosi della conoscenza di quel mondo patinato, nel ruolo di curioso visitatore, prescrivendosi invece l’esperienza diretta e quotidiana di simile realtà dirompente, nei panni di membro attivo e disinvolto della squadra complessa e articolata operante al di qua del luccichio delle vetrine apparecchiate.

Fu così che il giovane dalla personalità ammaliante debuttò nell’ambiente da sempre mitizzato, sperimentando il fascino della mondanità che si confonde con la frivolezza, la seduzione dell’alta società stordita dal capriccio del momento, la fame della fama barattata con l’anima. Incontri fortuiti, graffiati dalle lusinghe della promiscuità; oceani valicati all’insegna dell’inquietante assillo della conoscenza; terre segrete calcate alla ricerca di un infinito da colmare; palcoscenici e riflettori padroneggiati, in vista dell’ambito – benché illusorio – capolinea chiamato notorietà: ecco enumerate solo alcune delle orme lasciate dall’uomo che, dalla propria esistenza, edificò una leggenda, da quell’uomo che, dotato di talento straordinario, incise con lo pseudonimo di “Controcorrente” la propria firma all’interno del variegato universo della passerella, investendo il regno dorato dell’alta moda di una tendenza singolare e raffinata, benché alternativa e in costante divenire. Stile, eleganza, distinzione i tratti caratterizzanti un nuovo brand, un marchio traboccante di freschezza e leggerezza, rivelativo di una personalità tormentata, da genialità e sregolatezza compenetrata, un carisma ineguagliabile finalizzato a manifestarsi in collezioni di capi ricercati, sottratti all’effetto corrosivo del tempo che avanza e scade. Nessuna moda del momento alle spalle di quella marca identitaria, “Controcorrente” incarnava tanto una linea d’abiti ed accessori, in grado di stregare generazioni presenti e passate – senza differenze di genere – quanto uno stile di vita attraente ed intrigante, perfettamente impersonato da quel volto maturo che, tuttavia, custodiva la fisionomia di un delicato “viso d’angelo”.

Amato, invidiato, desiderato, osteggiato da molti, il “fanciullino” che da bambino prendeva alimento dalla contemplazione di boutique e atelier rinomati, si era ormai innalzato al ruolo di modello da imitare e, celebrato e idolatrato, aveva fatto della propria essenza una tendenza, della propria esistenza un’aspirazione, della propria condizione una vocazione. Eppure, l’uomo dall’eleganza innata, loquace e brillante alla luce dei riflettori, mutava atteggiamento nel chiuso dei suoi silenzi; nel buio di sontuose suite d’albergo – solo con se stesso – provava sulla pelle il freddo dell’isolamento: era la solitudine il prezzo da lui pagato per quel successo smodato; era il perpetuo senso di insoddisfazione la condizione approvata innanzi al negoziato con le sensazioni amplificate; era la disillusione il lato adombrato dalla medaglia del trionfo riportato.

Gli uomini che popolano questa terra affermano di conoscermi … la mia fama ha ormai travolto il mondo … Ciononostante, Io ancora ignoro me stesso!  Quale fonte potrà placare definitivamente la mia sete?”

Queste le riflessioni che la notte – in attesa che il sole sorgesse – assediavano la coscienza del protagonista di un esistenza che profumava di leggenda, dilemmi che avrebbero trovato soluzione nell’attraversamento proibito di quella linea immaginaria, atta a separare l’orizzonte dal mare. “Controcorrente” sino all’ultimo, dopo innumerabili e inenarrabili peregrinazioni e traversate avventurose, l’Ulisse dalla bellezza inestinguibile, intraprese un’esplorazione dal carattere istintivo e, guidato da emozioni smisurate, affrontò – in compagnia della propria inesauribile sete di conoscenza – su di una imbarcazione di piccole dimensioni, le onde spumeggianti di un’incantevole e magnetica distesa marina. Fine dell’odissea improvvisata sarebbe stato il traguardo dall’orizzonte impersonato, una soglia motivata a separare la concretezza dall’aspirazione, il fatto dall’idea, la luce dello spazio esplorato dalle tenebre di una dimensione sconosciuta: una chimera al di là della realtà.

Fu così che il ricercatore di se stesso, sulle tracce di quella fonte che la sete estingue, si inoltrò lungo la superficie sinuosa di un mare dai flutti mosso, confondendosi con il vento che le acque spostava, più simile ad un indomabile pirata che, con gli occhi infiammati da tentazione e curiosità, sfida il profondo abisso che, ad un saggio marinaio che, con le spalle rivolte al tramonto, anela alla terraferma. Per due giorni navigò ininterrottamente il corsaro dall’incarnato costantemente chiaro – inalterato – nonostante la potenza dei raggi solari dal cielo scagliati, sino a quando giunse al cospetto di un firmamento tappezzato da affreschi abbaglianti ed astri incandescenti, dai contorni evidenti. D’un tratto l’uomo dalle inesauribili sfumature udì un canto ammaliante, avvertendo l’alito vitale degli abitanti di quel regno incantato e, avvolto da un aura alata, gli parve di sollevarsi lentamente, abbracciato dal calore emanato dal fiato di creature, nate dalle profondità insondate: l’arsura era svanita, ogni istinto placato, il desiderio quietato alla presenza di quella multiforme e segreta distesa marina, determinata a riappropriarsi della voce di quel “fanciullino” incompreso, del “viso d’angelo” di quel giovane disobbediente, del corpo esile di quell’dandy decadente. Repentino dall’alto un tuono vibrò, un turbine si levò e la tempesta infuriò travolgendo il debole legno della fatale traversata: era il seducente benché ingannevole mare, insorto nella rivendicazione di un suo figlio; era l’abisso in rivolta, sollevatosi nella pretesa di ricongiungersi al proprio erede; erano le acque gelide di quell’attraente ma ingovernabile fondale marino a chiudersi sulla salma di quell’indomito guerriero, trattenendone gelosamente le spoglie, sottratte all’universo mortale, al logorio del tempo, all’invecchiamento dell’età che avanza, consegnate invece all’eternità della memoria, all’incorruttibilità di un sepolcro svincolato dal deterioramento di una stabile tomba.

“È l’ombra della morte che turba il tuo volto?”

Come un imprevisto boato nell’aria densa preannuncia l’arrivo della pioggia rinfrescante, svegliando da un sonno intenso il pastore disteso sull’erba, così la voce penetrante della creatura di cui trattenevo energicamente la mano, mi scosse, destandomi dalla visione premonitrice, dall’eroico finale riservato al predestinato eletto dal fato, dall’epilogo agghiacciante di un’immersione sinistra nel recondito e travagliato fondale umano di quel giovane dalla sorte tracciata. Da comune cartomante avevo subito un’evoluzione, convertendomi in oracolo che l’avvenire profetizza, mediatore investito del privilegio di annunciare la venuta di qualcuno che all’ombra della morte, alla scomparsa corporale avrebbe replicato risonando tra i mortali, erigendo un mito imperituro alla luce dell’ultimo traguardo raggiunto:

è la vetta di un’altura scalata, è il coronamento di una folle traversata, è l’immortalità a pochi destinata …

Non un nome, né un cognome lascerò: sarà la fama, mista al tempo, a svelare l’anagrafe di quel prescelto “Controcorrente”



Nascere per poi morire: dov’è il senso?

 

Incontrai, tempo fa, un vecchio dall’aspetto imponente, benché la sua età non fosse più verde …

Mi trovavo in compagnia della natura, lungo un pascolo erboso: osservavo assorto e meditavo, sommerso da interrogativi e dubbi dal carattere esistenziale, dal responso inaccessibile a qualsiasi mortale.

Smarrimento e paura trasparivano dal mio aspetto, stati d’animo immotivati al cospetto di quel luogo perfetto, da amenità e purezza eletto.

Ciononostante, mi sentivo un disperso alla presenza di quel creato incontaminato!

Non riuscivo a dare un senso alla condizione dei viventi, alla ciclicità degli inverni, alla fugacità dei tempi …

 

“Troppi “perché” tormentano il tuo intelletto, ragazzo!”,

 

- così esordì l’uomo canuto, deciso a distogliermi dalla straziante riflessione –

 

“Non esiste spiegazione razionale atta a motivare la vita che alla morte tende …

Gli alberi – come gli uomini – fioriscono, producono frutti, ciononostante perdono le foglie, restando spogli nella fredda stagione e, pur, tornado a prosperare nel ciclo avvenire, saranno diversi dal germoglio originario …

Il tempo, come fuoco spietato innanzi ad un ramo seccato, diventa polvere su di una soglia dimenticata, tarlo logorante su di un arredo trascurato, solco tracciato su di un volto provato …

I colori dell’arcobaleno, come ponti che congiungono due estremi, sebbene allontanino il grigiore ereditato dalla tempesta, tradiscono la corrispondenza tra cielo e terra, svelandone una fatale alleanza …

Il filosofo ricerca, il poeta verseggia, il saggio sentenzia …

L’uomo si interroga …

Nascere per poi morire: dov’è il senso?

 

Ragazzo dai troppi “perché”, fai tesoro del mio motto:

a ciascuna domanda risponderai quando tutte le stelle del firmamento conterai …

 

Fu questo l’ammonimento lasciatomi da quel Veglio:

una bevanda che al momento disseta, una vivanda che per poco appaga, una portata che in apparenza l’appetito placa …

 

Ma, ahimè! … ancora oggi, non riesco a fasciare con le bende della rassegnazione i tagli inflitti dalla meditazione …