Marianna Lebosi - Poesie e Racconti

Mareggiate.

 

I campi di girasoli – non mi dicono nulla.

Non c’entra molto: era solo perché tu sapessi

qualcosa di me – che di me non so nulla.

o forse

perché tu capissi che i mazzi di rose

son cose scontate.

e non c’entra! nemmeno questo:

era solo per farti sapere, che ho amato

una rosa.

Ed era una sola, appoggiata

al mio scomodissimo

corpo.

Un cammino d’oleandri pare portarmi oggi

verso un altare: sarà che son stanca

ma solo lo voglio raggiungere

il mare.

Ed è sempre costante, nello sfondo

adagiato ad onde alterne sulla mia pelle:

si sbriciola in sale.

Oggi, c’erano le onde (alte) e gli scogli (scomodi)

e non c’entra molto: è solo che lui c’era

un po’ dappertutto e tu

non l’hai conosciuto.

Perciò ti parlo di me:

sono una fedele descrizione

lo riconoscerai, un giorno.

Io lo so, sai, come si vive in un’isola

o come si scrive poesia, come si vive di niente!

No, non c’entra molto, era solo perché

volevo tu sapessi che lo so:

come si cambia una vita.

Ma non so nemmeno se ti amo: forse ti amo un poco

come quando baravo da bambina!

Era solo un gioco dell’oca.

Non c’entra: ma ti amo leggermente come un tempo

amavo esser la prima a finire quel gioco.

Quella bambina: io non la conosco, ora

corro per nulla, cammino un po’ a caso

e se fosse un percorso a caselle sarei quella che fa vincere:

non voglio finisca.

Nulla.

E’ solo che ho vinto io, troppo spesso, quel gioco:

non amavo arrabbiarmi.

Ora, lo so: sono un ottimo baro ma son cambiate le pedine

e non c’entra assolutamente nulla

era solo per dire: guarda adesso, la mia paura del gioco – la fine.


Alba grave.

 

Stamattina ho avuto le vertigini e le allucinazioni mi han tenuto sveglia e pensavo
d’aver sentito la sveglia, d’averti sentito muovere al suono, d’averti sentito dire
Buongiorno, ti amo.
Ma è tanto presto: non ti sei mosso, la sveglia non ha suonato, il tuo
buongiornotiamo. Non c’è stato.
Sono qui in cucina che scrivo un amore disperso finemente nel sonno. Quando sei stanco (sai?) mi si preme un poco il cuore. Quand’è stanco, io, non so che dire, è un po’ come dire: è finita.
Sonstanco. Sonstanco.
La storia nostra, mi pare talvolta: scrivere con una penna ormai finita, aspettare qualche parola in un binario morto. Treno in transito.
Allontanarsi dalla linea gialla.
Non effettua servizio viaggiatori.
È finita.
La sera: sparisce senza buonanotte lui e pare ieri che la fretta ci consumava e io mi fondevo col suo corpo e il lenzuolo
stretto
sapeva d’un groppo in gola sciolto, il profumo.
Sembrava ieri, ma son passati
groppi, tanto, insulti, promesse,
tante
scommesse di notti fredde
e questi giorni non so: si saran presi una vacanza, saran là a guardare il mare e stendersi nel suo lenzuolo e parlano alle onde di noi, noi
che siamo diventati passato.
Sonstanco. Sonstanco: un mattino di cera, oggi, ti svegli piano e impili i biscotti e sorridi: ed io ti guardo e tu dici
comestainonmale
Non male? Normale
Io muoio, ho lezione, tu parti, ho freddo ma hai freddo anche tu e che è successo?
Stai non male.
Cosa succede? Tutto normale.
La sera scende? A volte, ma fa freddo ora, tu ti scansi, non vuoi toccarmi, saran spasmi,
ricordi.
E muori, nel sonno. Ed io muoio, nel contatto sempre più angusto del tuo corpo: stai sparendo pian piano, lo vedi? Una volta eravamo solo uniti e i groppi si scioglievano.
Ora è una mano appoggiata, un silenzio,
una scopata: passata.


 

Danza di noia.

Ti amo, ti amo: ma dopo il primo amore

non è che una menzogna. Ti amo, ti amo!

è la danza della fiera annoiata

che le ossa del pasto rifugge vile

s’appropria della carne del ricordo.

 

Tra lecci e ligustri ed erbe di prato

le sue rose gli paiono sbiadite

non sono valse la pena, le cure

e nemmeno son grate, le codarde!

curare un fiore, cosa deludente.

Un ti amo, ti amo, per farle contente,

un commiato d’uso spiccio, banale.

 

Nulla di difficoltoso dovrebbe impegnare questo mondo: se fosse governatore dell’universo, toglierebbe qualche promessa, molte illusioni. Crescerebbe solo ammirazione, i giardini tesseranno lodi e vi cammineranno sopra ragni bruni apprezzanti!

 

Ti amo, ti amo: ma due volte son troppe

e tre son perfette, non sono le sue.

La scoperta della fiera tediata

gli istanti prelibati son finiti

le ossa rese non le vuole nessuno.

Compiti del secondo commensale

nessuno ne vuole, il primo gioisce

l’ultimo scompare: nel vuoto triste

del gravoso pensiero rifuggito.

Le ossa rimaste nessuno le vuole

il cuore difatti non ne possiede.

 

Ti penso, ti penso! quando perisce

la speranza, scende svelta la sera

e quel colpo di grazia è un canto

il cigno nero, ali bianche d’Icaro

un volo che ha l’eleganza lieve

la grazia dell’ultimo colpo greve

all’aorta.

 

Ma la fiera annoiata non sa, non pensa, non dice che  “ti amo, ti amo!” a ciò che rimane, a ciò che ha lasciato. Ti penso, ti penso! Ad un fuoco morente, solo il freddo delle ore della notte è un buon metro, il resto è fastidio da poco.

 

La fiera adagiata, con quella morte

repentina e orgogliosa, riconosce

che non ha fatto altro che deperire

mentre era già morta, e così: ti amo

ti amo.


 

Fiori di strade.

E’ una sera angusta e affollata,

oggi: una vita stretta. Tutti noi

ci troviamo di fronte l’evidenza,

lapalissiana, manifesta

 

Della difficoltà che giunge talvolta, nelle ore silenziose e gremite, di dover condurre cautamente un fiore delicato.

 

Noi che ponderiamo, analizziamo, ma

lentamente! a ritmo di passi svelti

come questo vivaio sì minuto

(ed appare perspicuo)

sia foce stretta di molecole

troppo indiscrete, troppo legate.

 

Ché romper legami non è compito di strade, ma di gorghi! Piuttosto di bivi, i binari ne san qualcosa, ad oggi, un groppo nell’aorta sostentato dalle sue tre, contate, diramazioni.

Come pare logico pensare, un papavero:

 

quattro (forse cinque?) ingenui petali,

ingenui e sfacciati come dipinti

d’orgoglio e stretti sul centro: l’amore.

 

Così è: ed è stretto! Cade un petalo

                                                           e scivola nel dorso,

mulinello di sentimento impavido e schietto,

scarlatto.

Non passa un secondo: ché un altro

                                                                 scivola

nel polso sottile della sua passione inesperta

 

questa vita sì stretta e fragile! Ne sente il tormento, ne annusa il vento

E’ un giardino affollato: strappato è un terzo

                                                                        sospiro rosso

che vortica nell’etere stupito.

Ed una quarta

                       lacrima

che segue precipitosa l’arrivo dell’ultimo giorno che calca il palmo alla ricerca di un qualcosa: una certezza, sarà un senso di vivere, sarà che solo quel vento ora pare freddo e quel gorgo chiamato.

Ed è notte, un papavero solo con la disillusione del buio e del nero

quel bottone, nel cuore, è cupo: l’ora sua di paura.

Noi tutti, prima o poi, vi giungiamo: cogliere un papavero!

La morte d’un fiore: una vita stretta, il trasporto, i pensieri affollati.

Son quattro,

                  forse cinque!

                                        Desideri

                                                      caduti

d’inverno.


Il Paese dei Ranuncoli Appesi.

 

Quel giorno, quando giunsi nel paese dei Ranuncoli Appesi, una foschia persistente m’aveva accompagnato per ore durante il viaggio. L’umidità saliva a banchi dai prati di anemoni gialle e la luce del sole filtrava pallida scaldando un poco qualche roseto nel sentiero, qualche leccio scuro che trovai nel cammino, facendo apparire tutto più lugubre e silenzioso, ovattando i colori e le forme in un tango di vapori che s’inabissavano e si alzavano come spiriti in gioco.

Quando finalmente la nebbia iniziò a diradarsi, mi apparve in lontananza quella che pareva una città cintata da alte mura che si estendeva per gran parte dell’orizzonte visibile. Doveva essere una grande città, ampia e con mura pallide e qualche guglia di chiesa e punta di edificio che spuntava da oltre il bordo merlato della cinta muraria Avvicinandomi ne vidi le porte marmoree e le colonne doriche e imponenti con capitelli fioriti e glicini che vi si arrampicavano tutt’intorno, stagliando fieri sul bianco limpido del marmo alabastrino. Un ampio portone aperto invogliava l’entrata ed io, che ero ben stanco di girovagare per lande, decisi di entrare seguendo il viavai di persone e di mezzi, attratto da quella vitalità: dopo ore nella nebbia, era un sollievo e una panacea vedere sì tanto movimento e brulichio di vita in un solo posto, tanto che mi trasmetteva una qual certa gioia dentro, quei visi sorridenti o sereni e i bambini in gioco mi fecero propendere per la decisione, in quel momento pressoché irrevocabile, di fermarmi e restare qualche giorno.

Mi fermai in un ristorante, seduto fuori nel cortiletto pieno d’iris e api pigre che vi ronzavano attorno, ordinai un lauto pranzo per ristorarmi e pensai che era un posto assai amabile, nel mentre che mi guardavo attorno. Notai l’ordine che vi regnava, il chiacchiericcio dei passanti allegri, la cura con cui le aiole erano state predisposte con gigli candidi in alcune, hamamelis in altre: le siepi con bacche rosse di passione languivano floride al sole e pure io mi beai del tepore alla luce mentre aspettavo le mie ordinazioni. Di fronte avevo quella che sembrava essere la via principale, dritta e severa che tagliava in due gli edifici e molto affollata: la seguii intrepido una volta finito il pasto e scattai anche qualche foto, certi scorci prendevano il cuore e li trovavo talmente pittoreschi e curati, con quelle edere che vi correvano e le ginestre nei vasi alle finestre e le euforbie che placide tappezzavano qualche prato, qualche giardinetto: mi sembrava semplicemente perfetta, pensai che non avrei potuto far scelta più giusta, nel decidere di entrarvi.

Le persone mi colpirono, anch’esse positivamente: di volti lividi non ne vidi alcuno, parevan tutti sereni, se non felici almeno pacifici, tranquilli. Non c’era tristezza nelle loro espressioni, né dolore o angoscia e molti di essi, anzi oserei dire la maggior parte, passeggiava a fianco del compagno o compagna. Le coppie di ogni età si potevano scorgere nei parchi, tra le vie a guardare vetrine di negozi sfarzosi, sedere placidi nei gradini di una chiesa ed erano tutti di una bellezza sconvolgente: avevano i lineamenti sottili ed eleganti, la pelle chiara ed erano tutti vestiti incredibilmente bene. Se le donne apparivano come creature eteree dai corpi scolpiti nel marmo e le movenze agili ed eleganti, gli uomini che vi passeggiavano accanto avevano un portamento fiero e completi sobri di colori pastello, con cravatte stirate e fiori all’occhiello e corpi snelli ed eleganti. Se le signore indossavano cappelli a larghe tese con fiori legati sopra e vestiti di organza con dettagli ricamati, gli uomini, eleganti, vestivano bombette di raso e scarpe lucide, tenendo galantemente a braccetto le loro compagne. Ma quel che mi colpì maggiormente furono gli sguardi d’amore e passione che si rivolgevano l’un l’altro, incuranti dei passanti, la passione li avvolgeva: qualche ardito bacio nascosto in giardinetti, su altalene, all’ombra di qualche magnolia lo vidi e mi parve così dolce e pieno d’amore quel tutto che stentavo a credere che fosse reale. Era la città più bella che avessi mai visto.

Dopo essermi riposato su una panchina al sole, mi decisi a trovare un alloggio: mi alzai da quel posto circondato da cespugli di ranuncoli e mi incamminai verso una zona in cui non ero ancora passato, curioso di scoprire di più su quel paese e sicuro del fatto che prima o poi vi avrei trovato un ostello o un albergo, dove avrei potuto pernottare.

Giunto ad un viale di frassini, vidi che costeggiava un alto muro solido, di cemento stuccato di bianco candido, senza orlature: riconobbi che non potevano essere le mura, viste le differenze palesi, ma controllai ugualmente nelle mappe per esserne certo. Constatai che quel muro non era segnato in alcuna mappa, anzi dall’altra parte sembrava dovessero esserci ulteriori strade o vicoli e mi stupii della loro clausura dietro a quel muro. Seguii il viale, all’ombra delle foglie che si muovevano, ma non ne vidi la fine, né alcuna porta, né passaggio fino a che, in lontananza, non scorsi nuovamente le mura orlate di marmo. Mi parve ben strano, doveva essere un errore sostanziale nelle mie mappe o doveva essere ben recente la costruzione di quel limite, e avrei pure chiesto a qualche passante, ma lì attorno non c’era nessuno e i più vicini li scorgevo passare in fondo a qualche laterale del viale, lontani: ma mi dissi che non era importante né urgente, che potevo proseguire tranquillamente il mio cammino.

Fortuna volle che trovai un albergo dai prezzi modici giusto poco distante e dalla mia finestra potevo vedere il bordo delle mura scarne, con in lontananza il paragone di quelle fastose che delimitavano la città. La curiosità mi attanagliava a momenti, anche se per qualche giorno mi concentrai nel visitare ogni luogo della città che mi era accessibile, ignorando il più possibile l’ignoto che si nascondeva dietro a quel muro apparentemente senza varchi.

La sera crollavo esausto poco prima del tramonto: era estate ed io ero in viaggio da molto e non reggevo la stanchezza una volta che scendeva la sera. Mi coricavo supino e aspettavo il sonno, con nella macchina fotografica un insieme di foto bellissime di parti della città che mi parevano così amene: stavo bene, mi stavo riposando, la stavo amando come i passanti si amavano l’un l’altro.

Tutto questo durò qualche giorno, finché finalmente ristorato non decisi di cenare fuori una sera e attardarmi in qualche caffè o locale, magari conoscere qualcuno degli abitanti, scambiare due parole. La visione che mi si presentò una volta che scese la sera fu inizialmente serena e tranquilla come me la aspettavo: dopo essere giunto nella via principale che avevo visto all’inizio del soggiorno, mi sedetti allo stesso posto dello stesso ristorante che mi aveva accolto e non vidi che sguardi complici, tutt’attorno, amore e passione e cercis nei vialetti che parevano d’oro con la luce ambrata del tramonto.

Ma non appena il sole fu calato ed io mi fui appostato in un bancone di un caffè con un forte liquore locale nel bicchiere, vidi la scena cambiare e tutte, davvero tutte le coppie che prima si stavano amando placidamente davanti ai miei occhi, si separarono e salutandosi con ampi gesti e sorrisi si allontanavano con la fretta nei passi e le borsette o i cappelli stretti tra le mani bianche.

Decisi che due incognite erano fin troppe da tollerare per una sì bella città e, trangugiato l’alcolico, mi avviai col bruciore ancora in gola e cercai di seguire una ragazza che avevo appena visto salutare il suo amato, serena. La seguii da distante per non destare sospetti e dopo aver percorso qualche via, la vidi entrare in una villetta tra altre variopinte case a schiera con passiflore nei vialetti.

Risentendo forse anche del finto coraggio dato dall’alcol, mi appostai per sbirciare ad una finestra e vidi quella ragazza abbracciare e baciare un uomo alto e aitante con trasporto e passione, come se si ricongiungessero dopo molto tempo passato distante. Inizialmente pensai fosse il compagno appena lasciato, anche se mi sembrava ben bizzarro, ma notai che invece non vi era somiglianza tra i due uomini. Dedussi quindi, controllando anche nel campanello in un accesso di incoscienza, che fossero coniugi. Mi parve un poco riprovevole, saper fingere così bene la passione: si vedeva pure che avevano un figlio e questo lo si sentiva ridere e scherzare sguaiatamente da dentro le mura della casa. Non approvavo la scelta ma riconobbi che il tradimento è cosa assai comune e non mi stupii più di tanto: del resto, capita ovunque e capita a tutti.

Quel che mi sconcertò fu vedere che, sera dopo sera, quella scena capitava davvero, davvero a tutti.

Vidi col passare dei giorni che tutti non erano che amanti e che tutti tradivano: le bellissime coppie che si vedevano passeggiare non erano altro che illecite, nascoste come l’amore che provavano. Nascoste come ciclamini in bulbo e quei loro giorni non erano che il frutto d’una passione segreta, il continuo di una storia accessoria: illegittima e votata al distruggere promesse. Iniziai a vederli con altri occhi, quando lo capii, e fu come se avessero perso un po’ di bellezza, un po’ di eleganza: mi parevano tutti impegnati in goffi tentativi atti a riparare una vita poco completa e li biasimavo per questa scelta poco coraggiosa e anche perché, così mi parve, si stavano tradendo tutti reciprocamente e indiscriminatamente. Ognuno di essi era un amante che aveva a sua volta un amante e così via, in un intreccio che si ricomponeva all’alba per poi sbrigliarsi in corse affannate la sera, al tramonto. Tutto ciò, nel giro di un paio di giorni mi diede un senso di nausea, tanto che non riuscivo a passeggiare più vedendo in ogni dove quelle coppiette felici, quelle finte storie perfette, quel tradimento nei loro occhi. Infine, colto da un accesso di fastidio, decisi di passare dall’altra parte del muro, attraverso una porta minuscola che avevo intravisto in una delle mie passeggiate solitarie durante un’alba particolarmente bella. Mi ci recai di notte: la luna era piena e le margherite un po’ chiuse rilucevano, mentre le betulle che si muovevano piano alla brezza proiettavano dietro di loro ombre lunghe e spettrali. Fu un gran stupore per me il notare che la porta, sebbene arrugginita e ardua da aprire, non era chiusa a chiave né sbarrata, anzi con un poco di spinte riuscii ad aprirla del tutto, e ciò che mi attese dall’altra parte, davvero io mi chiedo tutt’ora come descriverlo.

L’aria scura e densa di fuliggine di falò spenti sembrava permeata di lamenti, sussurri e bisbigli; i miei occhi ci misero un poco ad abituarsi all’oscurità di quel luogo: sembrava che neanche la luna ci volesse arrivare né alcuna luce. Tutto era grigio e cupo e le case non erano che accozzaglie di mattoni e lamiere secce e nere di ruggine che rilucevano un poco, macabre e malsane alla luce di qualche lampione sfocato e sporco a tal punto che la luce a malapena vi filtrava attraverso. Con passi tentennanti mi inoltrai nelle stradine strette e maleodoranti di umidità ed escrementi di uccelli, un vago sentore acre di piscio che pugnalava le narici e si spostava con il mio corpo attraverso quel limbo, che era la città nascosta dal muro. Così ad un punto vidi un’ombra muoversi e mi prese un accesso di paura folle per quella macchia nera sul nero che ripetutamente si muoveva, per terra, s’allungava e non era che una persona: prona per terra che bisbigliava a mani congiunte in un rosario sporco, formule di perdono e atti di dolore desueti in lingue antiche dalle sonorità di pietra. Accanto vi era sdraiata supina una donna vecchia e canuta che fissava il cielo vuoto e parlava tra sé ripetendo parole di scuse, di perdoni, di giustificazioni dal suono lamentoso, con le mani secche che a tratti si prendevano una ciocca di capelli ispidi e la tiravano ad ogni scusa finché non le si staccava e ripetendo scusa, scusa se la rigirava tra le mani e poi ne prendeva un’altra, e un’altra.

Seduto su una panchina senza un’asse stava un bambino magro e brutto con i piedi storti e le gambe corte e fissava il vuoto con le orecchie a sventola e i capelli spettinati, non diceva nulla. E passò un uomo per di lì appoggiandosi ad un bastone e d’un tratto lo alzò talmente vicino al bambino che fui a poco dal gettarmici addosso per fermarlo, ma prima che potessi fare qualsiasi cosa si accanì su sé stesso picchiandosi una vergata negli stinchi e urlando di dolore, poi continuò la sua strada. Mi parve di sentirlo dire, ma non ne sono affatto certo, chiedo perdono, chiedo perdono. Una ragazza, o quel che rimaneva di quella persona, batteva i pugni a terra e sollevava manciate di sabbia piangendo e infangandosi il volto con il pantano salato del proprio pianto, singhiozzando e urlando talvolta mea culpa, mea culpa! Ed io scappai da lei e dalla sua disperazione, vedendo tutt’intorno colpe espiate, disperazione e rimpianto: i figli delle scelte sbagliate erano reclusi qui e si martoriavano per le colpe che li avevano generati, chiedendo perdono ad un cielo che solo qualche metro più distante assisteva all’incontro passionale del tradimento e del benessere dell’amore, l’ardore della passione indiscreta e scellerata e senza responsabilità. E quello stesso cielo li puniva, loro che non avevano colpe se non quella di essere nati da un fiore così bello che è l’innamorarsi! Ma loro non conoscevano amore, loro erano gli attimi di rimorso di chi tornava a casa e si rendeva conto di ciò che aveva fatto, erano i figli illegittimi di un divertimento insensato, i frutti illeciti di un amore acerbo e perfetto ma dannatamente sbagliato: loro, erano gli sbagliati. Loro, che recitavano Deus meus, ex toto corde penitet me ómnium meórum peccatórum e e si battevano con verghe le mani e i piedi, e le gambe secche e sporche di fango che non li reggevano e crollavano, sotto il peso d’una colpa che non avevano mai avuto. E offéndi te, summum bonum in ogni angolo e via e davvero, davvero: io la colpa la ebbi, la colpa! e fuggii, lontano, ma era ovunque: non riuscii ad andare, a correre, a camminare e mi tormentai in rimpianto. La porta era chiusa, non c’erano stelle: avevo peccato.


 

L’isola delle Brionie.


Esiste un luogo il cui nome si perde nella leggenda: un’isola dispersa in un mare profondo e burrascoso del colore del metallo fuso, temprato da venti incerti che cambiano al virare delle vite; soffiano costanti sopra quelle onde lucide che s’infrangono sulle coste, scabre e spinose, dell’Isola delle Brionie.
Nulla di segreto in realtà sussiste in quel luogo tanto mangiato dal mare, nulla d’inconfessato: l’esistenza dell’isola è anzi paventata in ogni dove, per la sua eccezionale caratteristica, per la sua illogica e surreale peculiarità. In ogni dove s’incontra prima o poi un qualche individuo con lo sguardo corroso dalla brama di sapere, allora si capisce immediatamente, senza alcun dubbio, che esso è diretto all’Isola. Che esso non può più indugiare: deve sapere cosa aspettare.

Vi si giunge esclusivamente per nave, con un viaggio che, nonostante le intemperie e le avversità delle acque, non dura di certo troppo e nemmeno i costi, solitamente, sono proibitivi.
Anzi, d’imbarcazioni che fanno spola tra la terraferma e la costa mangiata dalla salsedine dell’isola ve ne sono numerose e quasi sempre viaggiano cariche, zeppe di persone e di volti tesi e corrugati in linee fedeli a quelle del mare tutt’attorno.
Non appena la prua varca il golfo del porto, si vedono maggiociondoli spuntare e arrampicarsi ovunque: pare un’isola deserta e intoccata, le onde color amianto che si fanno più chiare man mano che si avvicinano alla riva sono una bellezza intoccata, s’infrangono sole tra gli scogli.

Nessun bagnante, nessun bambino gioca tra i ciottoli e le conchiglie, nessun innamorato guarda il mare né nessuna coppia prova a reggersi tra le onde alte. Ma le meduse, seppur presenti, non giustificano di certo questa desolazione: l’isola delle Brionie è bella, anche se non perfetta, ma non c’è vita in lei. Il profumo dei calicanti pare svanire, anch’esso, per non dare forse l’illusione di un qualche battito, tra un petalo e l’altro.
Il porto deserto dà su un giardino di passiflore silenziose, senza alcun frutto. Le stradine sterrate giacciono supine nella polvere di scille appassite e anemoni verdi: la vita, in quel luogo, pare fermata, pare silenziata dall’attesa di un secondo bacio, forse di una seconda nave.
Ma vi è un unico grande edificio di vetro liscio che si scorge, nel mezzo dell’isola, dove tutte le strade vi ci portano. Da dove nessuna strada vi ci porta via.

Ah! L’Isola delle Brionie, il posto degli arrivi, non dei commiati.
Quest’enorme costruzione fredda, che non si scalda al sole, né si gela con la neve, né si sporca con la sabbia, resta costantemente uguale a sé stessa: pare ferma in mezzo ad ogni tempo, immobile fra ogni vita, esiste.
Questa, si scopre, è meta di ogni viaggio e motivo di ogni visita all’isola: vi si vedono all’interno decine e decine di persone sedute su scomode sedie, in questi atri enormi e freddi, in queste sale d’attesa illuminate; tutti tacciono, nessuno parla. Alcuni si guardano in giro, altri si sistemano le borse, altri ancora dormono sonni agitati. Qualcuno legge, qualcun altro studia le persone attorno: di giorno illuminati dal sole impietoso, di notte da cigolanti lampade ad olio e da qualche lumino acceso in preghiera.
Nessuno, di notte, guarda più se il cielo è sereno e non ammanta le stelle: tutti sanno ormai quante esse siano e di quante di esse non rimane che luce in viaggio: quelle son spente, morte inosservate, ché guardarle oramai non ha più senso alcuno.
Nessuno si bea delle onde calme delle rare giornate serene: ché tutti lì sanno già quante si infrangono, quante muoiono con uno scontro al ritorno di quelle prima. Non c’è risacca, c’è un dato, un numero, una quantità precisa di gocce d’acqua senza magia alcuna che cozzano con un numero preciso di granelli di sabbia, di ciottoli smussati.
Tutti sanno, nessuno più vuol scoprire.

L’Isola così si scopre nella sua caratteristica, forse maledetta, forse come una salvezza: una schiera di uomini attenti presiedono quell’edificio sterile compiendo il loro lavoro ogni giorno, ogni notte: essi contano.

Contano qualsiasi cosa si chieda loro di contare, qualsiasi dato numerico, stima, quantità, essi non appena verrà loro formulata la domanda si metteranno a contare, segnando una crocetta per volta, un numero per volta, una risposta dopo l’altra.
Chi formula i quesiti lì non può che aspettare: così si siede, cammina avanti e indietro lungo l’atrio affollato e silenzioso, forse si ricorda l’espressione della moglie o del marito alla sua partenza e forse si chiede quanto dovrà aspettare.

Ci sono quesiti, infatti, che hanno tempi di risposta relativamente costanti: per chi chiede il numero di petali di fiore nel mondo, la quantità di stelle visibili in cielo o il numero di gocce d’acqua nell’oceano, la risposta arriverà in un tempo lungo, ma finito. Di certo l’attesa non sarà strenuante e non farà sentire alcun groppo in gola, né palpitazione: si tratta solo di attendere, facendo passare il tempo in un qualche modo, contrando qualche abitudine, qualche noia.

Ma come ben si sa, la curiosità umana è di certo un buon cappio: uno che si vuol provare personalmente per capirne il funzionamento. Così, se la vita ha un’essenza impalpabile, fatta di sorprese, incognite e imprevisti, questo non piace. Nessuno ama l’ignoto, se applicato alla propria vita, un po’ tutti si ama la certezza, l’ordine, si ama sapere quando aspettare il colpo di grazia, persino! Come se ci fosse una qualche paura, una qualche indecisione nel scegliere l’ultimo volto a cui pensare: così, chi viene nell’Isola delle Brionie, sceglie di togliere ogni incognita, di aspettare la certezza.

Ma gli occhi di chi seduto, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, con addosso i vestiti e la barba di mille giorni, quelli fanno paura: sono quelli che aspettano, non sanno quanto aspettare, non sanno nemmeno più, forse, perché hanno fatto quella domanda. Perché chi chiede quanti giorni mancano alla loro morte, poi viene mangiato dal dubbio. Essi nemmeno si siedono, talvolta, perché non sanno se verranno richiamati subito: rimangono fermi, immobili, incapaci di fare qualsiasi cosa, di compiere qualsiasi azione.

Chi chiede i giorni mancanti all’incontro del vero amore, nemmeno essi sanno quanto aspettare! Qualcuno si dice sia morto aspettando, qualcuno ancora trema al sol pensiero di formulare una domanda simile: chi ha già trovato marito o moglie, vorrebbe sapere che mancano solo pochi giorni all’arrivo dell’unico vero amore?

C’è chi piange in silenzio, chi si ferma a scrivere una lettera, chi brama di ripartire, ma molti, troppi, dopo aver avuto una risposta anelano ad averne un’altra, poi un’altra ancora.

Si vedono poi gli occhi, finalmente con riflessi di stelle, di chi si deve aspettare solo tre giorni prima di morire: allora tasterà l’acqua chiara, si pungerà un poco con una medusa, si lascerà inebriare da ricordi e da profumi di calendule in fiore, guardando il firmamento.

Si sa, gli uomini che contano nell’Isola delle Brionie non sbagliano mai: è l’umana specie a sbagliare, ché vuole sapere di che morte morirà un fiore, strappandolo dal terreno.

L’unico risultato del sapere quando dovranno morire, quindi, è che moriranno un poco ogni giorno, infinitesimamente, così cercando disperatamente di renderlo reversibile. S’instilla morte in ogni giorno vivente, sapendo, come s’infonde tradimento in ogni frase in attesa della menzogna.

L’Isola delle Brionie continuerà ad esistere, a contare, a far ammalare di morte esseri ancora giovani e acerbi, a far contrarre malattie e morbi come lo sono la fretta, l’impellenza, l’urgenza di vivere nell’illusione di non dover morire soli. Ché si sa, al colpo di grazia nessuno sa mai veramente a quale volto pensare, così da chinare la testa, in un ultimo bacio.


 

La Città degli Elianti.

 

Esiste un luogo, perso tra colline verdi e campi di girasole, in cui sorgeva un tempo una città leggendaria, avvolta da un alone di mistero e di cui sovente si parla tutt’ora ai bambini, un po’ per farli addormentare, un po’ per far capire loro cos’è il vero amore.

Questa città era pervasa da un sentore di magia: essa sorgeva al centro di un grande campo di colza per cui da lontano, arrivando da nord dopo aver superato le pendici dei monti contigui alla pianura, si scorgeva come un grande cerchio dorato con al centro questo agglomerato di case e palazzine, di villette con giardini fioriti e aiole colorate.

Oltre questo grande anello di fiori spartani, il paesaggio circostante pareva come diviso a metà da una linea immaginaria, che si concretizzava, a saper guardare meglio, in un rivolo che fluiva esattamente a metà della cittadina e divideva in due il grande cerchio che era la Città degli Elianti.

Da un lato, oltre il campo di colza, si stendevano campi e campi di altri fiori, tantissimi! Di tanti tipi quanti non può immaginare l’umana mente e di talmente tanti colori che pareva un carnevale steso a riposare tra coltri di terra smossa, api e coccinelle.

Dall’altra parte, in egual misura, c’era quello che s’intendeva da distante essere un bosco fitto di alberi di ogni tipo. Latifoglie, conifere, castagneti: c’era una varietà di esemplari di piante che avrebbe fatto invidia a qualsiasi bosco di qualsiasi latitudine, in qualsiasi posto del mondo. La città degli Elianti per questo era magica: era piccola, bellissima e unica.

Una volta entrati tra le vie strette del paese, si potevano lasciare gli occhi bearsi di tanta bellezza e di tanto incanto, sembrava l’unico posto al mondo in cui fosse possibile la perfezione, di quelle divine che tanto cantano quadri e poemi.

Illustri pittori a loro tempo erano soliti tornare periodicamente nella Città degli Elianti perché la sua bellezza era di tale soddisfazione che diventava necessario farle visita ad intervalli non troppo lunghi: la bellezza e la relativa dipendenza lì erano tangibili come l’acqua limpida che tagliava in due la città.

Osservando attentamente, però, si poteva notare che i suoi abitanti erano anch’essi divisi a metà: certi individui, donne, uomini e bambini, pur avendo la pelle bianca come il latte avevano capelli scuri come legno antico e occhi color del carbone. Si muovevano silenziosi e parlavano solo tra di loro, ignorando completamente gli altri abitanti della Città degli Elianti: quelli con i capelli tanto chiari da sembrare bianchi e gli occhi grigi e lucenti, quelli che camminavano sorridenti e parevano volteggiare tra le vie, i negozi e le case. Queste erano le differenze che si potevano notare a primo acchito non appena si giungeva nella città: le due fazioni di abitanti non si parlavano, si ignoravano a vicenda e vivevano le loro vite relazionandosi solo con i propri simili.

Ovviamente, non si è mai sentito dire che uno dei due gruppi fosse stato scortese con un viaggiatore in passaggio: erano tutti estremamente cortesi anche se divisi. Non successe mai nulla, né in tempi remoti né negli ultimi anni, per motivare questo reciproco ignorarsi, cosicché qualche intrepido viaggiatore pensò di interrogare a riguardo di questo presunto livore uno dei vecchi saggi del villaggio.

Allora si capì: nella Città degli Elianti vivevano in comunione da millenni le creature del Bosco e le creature del Prato.

Essi non potevano parlarsi, né vivere assieme, né relazionarsi, ma nessuno oramai si ricordava il motivo di questo grande veto: semplicemente nessuno lo faceva più e così doveva restare. La minaccia di una terribile sciagura li impauriva a tal punto che nessuno avrebbe mai osato trasgredire questa imposizione: vi si adattarono per secoli e secoli senza sapere cosa si stavano perdendo, né cosa stavano guadagnando.

La cosa più bella di questi abitanti, sia delle creature boschive che di quelle del prato, era che fin dalla nascita portavano un segno della loro appartenenza ad una fazione o all’altra: una piccola voglia, un neo, un disegno che pareva un tatuaggio colorato. Le creature del bosco avevano una foglia, ognuna di un albero differente, le creature del prato avevano un fiore. Così nel polso essi portavano il loro nome: chi il tarassaco, chi la rosa, il calicanto, il faggio, il liburno, il leccio, il papavero. Erano bellissimi, seppur ci fossero individui con lo stesso fiore o con la stessa foglia, nessuno era identico all’altro.

Nessuno ha mai capito il perché di questa magia, fu come una cosa successa per caso, probabilmente, all’inizio del tempo. Un po’ come l’amore, nessuno si chiedeva più cosa significasse o a cosa fosse dovuto, perché per loro era naturale e spontaneo, essere pioppi o sentirsi calendule.

 

Ora, la storia devia bruscamente nel buio di un racconto triste e disperato: due amanti.

Si sa, gli amanti sono belle di notte, che nessuno deve disturbare e che la luce del sole non può sfiorare. Ma quei due amanti furono talmente belli e palesati, che nessuno potè fare a meno di scorgere il loro amore, anche se erano soliti tenersi a distanza.

Era così, lapalissiano e terribilmente tragico il loro sentimento, che si immolarono alla disgrazia e tradirono ogni divieto: lei era un pruno, lui un giovane papavero.

Improvvisamente i fiori cominciarono a sfiorire, le foglie a cadere.

Mano a mano che nel ventre del giovane pruno nasceva una nuova vita, che non era né pianta né fiore, tutto nella Città degli Elianti moriva. Si spegnevano i colori della colza, affondavano ninfee molli d’acqua, imbrunivano le rose e i mandorli stillavano resine di veleno.

Tutto quello che era stato si stava disgregando come si distruggono i sogni alla prima luce dell’alba, nel mentre che tutti gli abitanti furono per una volta uniti in una cosa: l’odio per quell’amore proibito e la paura folle di morire.

Ci fu chi se ne andò, ci fu chi pianse fino a morire di stenti come un tarassaco al vento, ci fu chi si stese nei prati e si lasciò ricoprire di foglie secche. Diventò un posto sconsolato e deserto, buio e grigio e senza più alcun sorriso né fiore.

Rimasero solo loro, il pruno e il papavero, con quella loro vita generata che senza nome continuava a crescere, a discapito della città, che si stava sfaldando portata via dall’acqua nera che scorreva nel mezzo.

Avevano capito la maledizione, loro che di colpe avevano avuto solo quella di amare. Erano gli artefici dello sfacelo che li circondava e della preziosa vita che avevano creato.

Gli ultimi abitanti della città arrancavano tra uno sterpo e un ginkgo secco, raccogliendo memorie e cercando di sopravvivere, quando il giovane e spaventato papavero si chinò accanto alle coltri dove il pruno era solito riposare. La disperazione lo mangiava da dentro e lui, lui che aveva amato in nome di un futuro dolce di nettare, si trovava ad aver causato solo danno.

Ma quello che aveva sentito, sebbene non capisse se fosse stato un suo odiarsi o un suo permettersi la felicità, quello ne era valsa la pena. Come papavero sapeva che poteva vivere in modo semplice e bello, quasi perfetto, ma quel pruno lo aveva colto e ne aveva intaccato l’essenza. Non sapeva più, in quel momento, che fiore fosse.

Così in ginocchio, ai piedi di un’alba buia, guardò il frutto di quello che era stato il loro peccato mortale: gli sembrò perfetto. Il suo pruno era perfetto, la vita che portava in grembo anche. E lui amava, seppur con la morte nel cuore, la vita che era riuscito a regalare al mondo.

Svegliò il suo pruno, chiese se voleva acqua, chiese se (pregandola un poco con veemenza, come fanno i papaveri) avrebbe voluto chiamarla Margherita.

Così nacque, e fu una Margherita senza fiore né pianta. Crebbe con la pelle color della luna e i capelli color d’ambra come le prime luci dell’alba. Gli occhi cangianti, di un verde azzurro limpido, guardarono la storia cambiare per quella che era la Città degli Elianti, la città che l’aveva vista nascere ma che lei non vide mai come fu quando causò l’amore che l’aveva generata. Era una città nuova, di poche capanne e tante rovine, piena di erba alta e fitta che aveva ricoperto pian piano ogni cosa.

Margherita così passò l’esistenza a curare un morbo mortale che non sapeva di aver generato. Quella creatura eburnea, piccola, bellissima e fragile (come, forse, l’amore nascosto e necessario) che era generò altra vita sopra la morte della città che era stata.

Viaggiatore, quel pruno e quel papavero sono morti oramai da secoli e le loro tombe hanno i segni del tempo incisi, vicino ad una foglia, vicino ad un fiore.

I loro corpi, così come quello della piccola Margherita, che cresciuta e invecchiata non si spostò mai da quel luogo, ora giacciono supini in un luogo che, quando giungerai da nord dopo aver attraversato le pendici dei monti, riconoscerai immediatamente.

Vedrai da distante, se con occhio ben allenato, una vasta distesa uniforme di tantissime piccole, fragili margherite che ricoprono ora il luogo dove ci fu il bosco, dove ci fu il prato, dove ci fu la morte e dove ci fu l’amore disperato che l’ha curata.


 

Il tarassaco che si credette rosa.

 

Non una città, non un campo, non un piccolo borgo voglio descrivere a parole, qui. Un diario di viaggio del resto è inutile se dentro di sé si aspetta sempre il solito treno. Un binario tronco ovest, lo voglio definire così. Come una parola scevra di fine, mi sento guardando questo fiore, trovato in mezzo al nulla, in quest’isola piccola che stento a definire tale. Più uno scoglio, pare. Si sa, nelle isole non succede mai molto, i pochi avvenimenti sono talmente esasperati che dentro quegli esigui confini tutto pare un circo di vicissitudini. Non è che un teatrino di fiori appassiti ed erbacce, mi sembra. Un vento secco che costante spazza sabbia, polvere e pollini in un vorticare di batuffoli, paiono piccoli fantasmi di sogni partoriti in un qualche tempo remoto.

Quanti campi di grano, quanto fieno! Un tripudio di spiriti senz’ombra e oro colato, qualche rovo di more blu, sempre mature. Ed un tarassaco.

Solo in mezzo ad un campo esso si ergeva e si beava dello spazio che aveva attorno. Io mi chiedo se si credesse più giallo del fieno, o più alto del bambù. Di certo non si penava di vedere come il sole colpisse a pieno quei girasoli in lontananza, gli parevano così piccoli! Era convinto, in cuor suo, che tutti i fiori fossero uguali! Quindi nulla gli impediva di credere che pure quei lontani ibischi avessero un colore simile a quello del fieno, simile al suo. Tutti quei pollini e batuffoli gli confondevano la vista, pensai quando lo vidi, era così sicuro! Che né pioggia e né sole nutrissero prima le alte azalee, perché mai avrebbero dovuto? Tutti in quella piccola isola erano pari per lui, si sa, quel tarassaco era sempre stato troppo distante dalle onde per credersi minore, troppo distante da ogni altro fiore per credersi sé stesso. Fu molto vanitoso, per questo si credette rosa.

Io non ebbi il coraggio di contraddirlo, quando lo conobbi, era così splendidamente ingenuo e per questo, in fondo, portava dentro sé l’essenza di ogni fiore.

Il suo cuore (se ne avesse avuto uno!) non avrebbe retto al sapere che la luce inondava prima le calle, poi le gerbere, poi i narcisi e infine, solo dopo questi, avrebbe raggiunto lui. Come avrei potuto fargli questo torto immane? Lui, che si credeva rosa, che pensava di governare la flora intera!

Era così fragile, uno stelo di cristallo, che non potei fare altro che amarlo.

Lo amai talmente tanto, questo vanitoso e ingenuo fiore, che ogni altra rosa avrebbe sfigurato se posta a suo fianco! Ah, l’amore e la sua visione distorta! Di quali sfumature cremisi e porpora arricchì quel giallo del mio tarassaco, e che profumo! Le migliori rose l’avrebbero invidiato, se avessero sentito la sua essenza che si spandeva nell’aria ad ogni movimento di petalo.

Passai giorni accanto al mio tarassaco, senza mai contraddire il suo credersi rosa. Lo amai sempre, ma lo capii più tardi. Nel mio ascoltare i suoi ragionamenti e il mio cercare di comprendere la sua filosofia mi dimenticai di chiedermi la natura del mio restare, così lo amai senza saperlo. Ma ogni mattino gli ricordavo quanto fosse una bellissima rosa e omettevo il raccontargli le mie visite a roseti di ogni paese. Quando il sole era più alto gli ricordavo ogni giorno di non inclinare troppo il capo, per godere appieno della luce, senza fargli notare quanta ne ricevessero i lontani papaveri. Lo misi in guardia dal vento, dai bruchi, dalla sabbia e dai pensieri tristi. Questi ultimi erano ben più sferzanti del vento secco, ben più numerosi dei granelli di sabbia. Così gli feci tenere a mente quanto lo trovassi perfetto e complicato, senza rendermi conto di amarlo. Ah! Ma seppi sempre come comportarmi! Come se non ci fosse stato nulla di più naturale, io lo amai di quell’amore semplice, che le vere rose tanto invidiano. Partii senza rimpianto, il mio tarassaco giace ancora lì, su quella piccola isola, circondato da rose e da pollini. Tornerò quando troverò una rosa a lui simile, mi dico ogni giorno. Ormai sono convinto, sicuro, che nessuna sarà mai all’altezza.


 

Ossitocina.

 

Forse sì, c’è un qualche dio, nell’ossitocina. Ché sarebbe più comodo, l’esistere, senza questi orpelli. Senza questi legami accessori.

Senza consapevolezze varie che sai, guastano certe serate senza stelle, in questa costruzione perennemente diversa ogni qualvolta vi ci tuffo un ritorno, vi ci paragono un ricordo.

Sapere, sai, che guasta il gusto di vivere questo conscio, dato talvolta da un glicine sfiorito, talvolta da un figlio perso.

Non c’è nulla di peggio che guardare nel vuoto e vedere uno spiraglio di emozione, qualche monte (troppi, sto soffocando) o qualche amaryllis di serra che senza pace e senza casa nuota in questa realtà cruda che profuma d’inverno.

Ed io colgo significati ulteriori come arraffo gerbere in giardini inventati: quelli apatici, sai, son di molto più comodi e salvano! talvolta da una giornata di noia, talvolta dà certezze di sterilità.

So, però, che nessuna dopamina o presunta tale mi salverà, io che voglio la mia dimora e le mie braccia soffocanti e non le trovo attorno qui, ché ci sono solo monti claustrofobici. Sì, i papaveri sono ben alti, ma questi voli pindarici non mi si addicono: io sogno le braccia altrui in queste mura scevre d’amore paterno, come cerco certezze nell’altrui tempesta. Ah! Ed io, riconosco che mi merito tutta questa ossitocina o tutti questi cardi tra le coltri, la nebbia, anch’essa, non è più stata chiamata.

Nulla di peggio, sostengo, che guardare e vedere uno spiraglio, ma non vedere il mare.

Oppure, semplicemente, di osservare e non scorgere, tra il nero, nessuna sicurezza! Questa vasopressina stritola, ed un buon cappio è di certo un arrotolarsi di due corde.

Una vita la mia che si misura in salti nel vuoto o salti di pasti, in certezze mancate e buona mira, talvolta, ma solo con due freccette e un bersaglio vicino. Questo forse è l’amore, si?

Ma io che ne parlo a fare, dell’amore non so nulla! Io che conscia di essere un errore voluto ho visto la volontà e non l’errore a seguire. Quanto bello è, l’errore, se non lo si può fare?

Io, che ciarlo a vuoto. Toglietemi queste parole, l’ossitocina, un po’ di sentimenti.

Scomparendo, sai, fai un favore a chi ti vuol male. Certo, così mi dici.

Ma scomparendo, sai, mi farò volere. Chissà, forse, sarò l’errore giusto e quello bellissimo.

Sì, sarò bellissima. E perfetta.

Sarò rosa, sul marmo bianco, e nel nome lapidario avrò tutto.

Tanti errori perdonati.


 

Lettera mai nata.


Come se non avessi mai potuto immaginare un inizio del genere, nella mia vita. Così mi sento, il cielo abbraccia l’asfalto stasera! Anela a ciò che ho sempre agognato, una vita fa. Non chiediamo forse noi amore? Non pretendiamo forse appoggio? E invece quante sirene incantano la notte! Gridano e passano veloci ammaliando! Non ci si appende, allora, alla vita? Non useremo forse tappi di cera per ignorare la morte? Per non sentirne il richiamo (feroce!) che scivola nel plumbeo. Stasera, violacea la notte. 
Fini e inizi scorrono veloci evitando ingorghi, così pare, ma quel groppo nell’aorta gonfia il petto. Uno spino pare, nella mia rosa, un brillio lieve e si scorge essere un sogno infranto. Dove penetreranno gli altri frammenti? 
Ah! Mia rosa senza profumo! Per quale scherzo venisti al mondo? Qualche errore, dici tu, affrettato sei comparso e non hai portato con te fragranza alcuna! E con lo sguardo scorri il buio come scorrono calendari in queste vite inutili. Senza profumo, come può essere cieco un amore? Come puoi farti trovare al buio, mia rosa, rischiando ogni sbuffo di vento! Rischiando l’impudente accensione di qualche candela! I tuoi petali di cristallo non ne soffriranno il calore? 
Mia rosa, non senti il bisogno di uscire sotto questo cielo piangente? Chi mai ti diede nutrimento? Ah, forse dico, forse lo stare a testa inclinata ti preclude la luce diretta. La prossima volta allora spegnerò la luce, ché i sogni sai, giungono col nero e col blu, il colore di qualche parola! Una pioggia d’inchiostro, il cuore sterza, gli atri miei sempre furono amanti.