Massimiliano Sottile

Poesie


Quando ti rincontrerai (scegli me)

C’era una sola regola:
non rivelare chi sei.
E lui l’aveva sempre osservata.
Fino a quella sera di giugno.

***

Mia cara Jennifer,
(certo tu non sei mia, benché sia bello poterlo pensare)
Ti prego, leggi queste righe, prima di pensare che sia un pazzo od un maniaco.
Ieri ti ho vista camminare e ridere con le tue amiche.
Ma tu eri troppo impegnata e non mi hai notato.
E non mi hai certo rivolto un pensiero, sul cuscino a cui hai regalato il tuo bel viso, andando a dormire.
Non sai quanto avrei voluto conoscerti e accompagnarti nel tuo cammino, seduto sul bordo del tuo cuore.
Ma tu eri troppo impegnata (giustamente) a vivere il tuo presente.
Io so bene che le dimensioni dello spazio e del tempo si contraggono progressivamente, fino quasi ad annullarsi.
Per questo ho pensato di scriverti.
Da dove vengo io, grazie a una connessione a internet possiamo essere aggiornati su quanto accade ovunque in qualsiasi momento. Ci inviamo messaggi ad ogni ora del giorno e della notte: siamo on line, viviamo un presente continuo. Così, la quantità di informazioni di cui disponiamo si è ampliata in modo esponenziale. Tuttavia, paradossalmente, la massa di dati che possiamo ottenere con questi mezzi, più che aiutarci a comprendere, spesso disorienta. A ben vedere, il volume di nozioni di cui disponiamo è inversamente proporzionale alla nostra capacità di scegliere e decidere. Abbiamo bisogno di selezionare una grande quantità di informazioni che giungono quotidianamente per poter costruire un nostro giudizio.
Spero, così, che scrivendoti ti resti qualcosa di me, vorrei essere “quell’informazione selezionata” che nel tempo continuerà a rimbalzare tra le pareti della tua memoria.
Ieri sera ti ho vista passare.

In realtà, per un attimo, credo che i nostri sguardi si siano incrociati. Ed ho bramato che quell’istante si dilatasse in un minuto, due minuti, perché tu entrassi nel mio mondo, che oggi mi sta crollando addosso, e mischiassi il mio destino al tuo respiro, sussurrandomi “ti stavo aspettando”.
In una sera che io chiamo “ieri”, ti ho vista camminare per strada.
E adesso sono qui, fuori dalla tua finestra.
Credimi, non ti ho seguita.
Il destino, a volte, ha una precisione implacabile ed oggi mi ha condotto, inconsapevolmente, sotto il tuo portone nell’esatto istante in cui vi entravi. Non mi hai visto, per fortuna, ma io ho visto te, perché mi è bastato incontrare il tuo sguardo una volta sola per saperlo riconoscere per sempre.
Ora davvero penserai che sia un pazzo, ma non è così.
Nè tantomeno ho intenzione di costituire una presenza ingombrante e minacciosa nella tua vita.
Svanirò in fretta, senza rumore.
Lasciandoti soltanto questa lettera.
Dio, come sei bella Jennifer, ora che ti vedo nuovamente, radiosa nella tua adolescenza profumata.
Ti scrivo perché tu sappia quanto è importante uno sguardo.
Non mi conosci…Ma se una persona mai vista prima ti avvicinasse sul tram e con garbo ti dicesse che hai un sorriso meraviglioso, io credo che avvertiresti, malgrado tutto, un brivido di compiacimento.
Prendi quindi le mie parole che il discreto sussurro di uno sconosciuto che ti parla da lontano e che non varcherà il confine del tuo splendore.
Uso uno sguardo come elemento illuminante per riempire le distanze, come spirito che entra ed esce dai tuoi occhi lucidi bagnandoli di lacrime salate come l’acqua del mare, ogni volta che un’emozione attraverserà la strada della tua vita.
Mentre ti ho vista passare, il tuo sguardo si muoveva armoniosamente, come il sole ed il cuore, come il lento fluire dell’onda marina su una spiaggia all’alba.
Dentro uno sguardo, il ricordo pratica la sua più alta magia.
E se il destino ci farà rincontrare, in uno sguardo cercherò di donarti un raggio d’amore.
Perché vedendo la tua luce, me ne sono innamorato.
E poi, che cos’è realmente l’Invisibile? Forse è soltanto solo ciò che non riusciamo a vedere.
Ma se ci rivedremo, tra molti anni, nell’istante in cui incontrerai lo sguardo di questo sconosciuto, forse potrai riconoscere gli occhi di chi ha scritto queste parole per te. Sarebbe bello se tu, chissà come, potessi riconoscermi, scovando sulle mie labbra quella timidezza che oggi mi vede sotto il tuo portone, incapace nuovamente di parlarti.
Sarebbe bello se tu, di fronte a quello sguardo che d’un tratto riconosceresti, ti aprissi in un sorriso.
Ti sembrerà eccessivo, ma anche la mia vita acquisirebbe un senso nel tuo sorriso.
Sarebbe come se tu mi avessi aspettato tutti quegli anni.
Io non so come dirtelo, Jennifer… noi non possiamo cambiare questo presente, ma possiamo sperare di cambiare il futuro.
Se potessi rivederti…
…in quell’istante…
Alza lo sguardo, Jennifer.
Mostrami i tuoi occhi.
In me ed in te esiste l’aura di due sogni che, incontrandosi, possono fuggire dalla realtà.
Nella vita basta solo un incontro per fare la differenza.
Basta essere presenti nell’istante che conta.
Se ci rincontreremo…
Alza lo sguardo, Jennifer…
Scegli me.
E mi salverai.

***

Il CERN a Ginevra nel 2010 intraprese alcuni studi sui campi elettromagnetici e gravitazionali riguardanti anche i buchi neri, esperimenti condotti per valutare la possibilità di velocizzare i trasporti.
Durante alcuni di questi esperimenti, per caso, gli scienziati crearono un piccolo buco nero.
Impararono in fretta a crearne volontariamente, e di ogni dimensione.
E dimostrarono che l’energia risucchiata nel buco nero viene espulsa, dopo un viaggio temporale. Dimostrarono quindi che era possibile viaggiare nel tempo.
Sfruttando le conoscenze sui campi gravitazionali che gli scienziati ottennero dallo studio dei buchi neri, la società statunitense della General Electric progettò e realizzò alcune unità che permisero il viaggio nel tempo. Ovviamente, questa tecnologia non fu alla portata di tutti, ma fu un’esclusiva dei militari, specialmente statunitensi.
Da lì in poi cominciò l’avventura umana in quelle che sono, è il caso di dirlo, le nebbie del tempo.

***

Peter Nap e John Goose furono i primi soldati scelti per l’esperimento governativo statunitense dei Viaggi nel Tempo nel 2015.
In particolare, Peter era destinato ai Viaggi nel passato. John viaggiava nel futuro.
Il presupposto del viaggio nel tempo è l’interpretazione multiverso della fisica quantistica. In questo modello ogni situazione che può evolvere in più d’una direzione, va in ogni possibile direzione, e ogni possibilità è il punto di origine di un nuovo universo parallelo o “worldline”. Viaggiando nel tempo, non si entra realmente nel proprio passato perché la presenza di qualcuno nel passato apporta un cambiamento e genera un nuovo insieme in espansione di worldlines. Si entra piuttosto nel passato di una worldline strettamente imparentata (non si sa se sia possibile entrare in una worldline più distante).
Con questo scopo il governo Statunitense ambiva a visionare il futuro, tramite i viaggi del soldato John Goose, per modificarlo attraverso i viaggi nel passato di Peter Nap.
Il viaggiatore non può cambiare il presente. Ma, cosa ben più importante, può cambiare il futuro.
Per lo meno, questo pensava il governo, con l’ambizione che manipolare la storia gli eventi avrebbe potuto accrescere il proprio potere.
L’Esperimento non si rivelò particolarmente efficace.
Peter viaggiava nel passato, apportando piccolissime variazioni che potessero generare worldline, che John doveva verificare nel futuro.
Ma non sempre i cambiamenti, laddove pur accadessero (circostanza che, si verificò, non essere sempre possibile), rappresentavano un “miglioramento” della worldline.
Troppe erano le worldline possibili, e troppi erano i tentativi di modificarle che dovevano essere intrapresi dal Viaggiatore nel passato, affinchè si verificassero cambiamenti nel futuro effettivamente favorevoli.
D’altronde anche nella vita di ogni individuo non vi è alcuna certezza che una scelta diversa da quella intrapresa avrebbe determinato un esito migliore di una situazione.
Considerando questo presupposto, non dovrebbe esistere il rimpianto. Od il senso di colpa.
Ma i sentimenti umani sovvertono alla logica. Ed alle leggi del tempo.

***

Il progetto militare sottostava ad una regola ben precisa: non bisognava mai informare le persone incontrate nel passato o nel futuro della propria capacità di viaggiare nel tempo.
Non rivelare chi sei.
E così fecero i due viaggiatori durante tutte le loro missioni.
Fino alla sera del 10 giugno 2015.

***

John Goose, luglio 2015.
Viaggio in una worldline del futuro.
E nel cuore la tristezza per quanto aveva appena appreso, una tristezza che avrebbe viaggiato con lui indietro nel tempo, quando sarebbe tornato a casa.
A dispetto della comune credenza che il tempo guarisca le ferite.

***

La sera del 10 giugno 2015 Peter Nap stava tornando a casa dopo un’ordinaria giornata di lavoro.
Si fermò su una panchina per fumare una sigaretta.
E la vide.
Vide Jennifer per strada. Se ne innamorò subito, benché non scambiò con lei nemmeno una parola.
Seppe solo che si chiamava Jennifer, cogliendo i frammenti del dialogo che la ragazza stava sostenendo con alcune amiche, mentre insieme passeggiavano lungo la via principale della loro cittadina nella fresca serata di quell’estate incipiente.
Restò seduto per ore, con negli occhi l’immagine di quella donna che passava e ripassava, calpestandogli lo stomaco, come in uno struggente flamenco che tutti gli innamorati hanno ballato, almeno una volta.
Le panchine custodiscono migliaia di storie meravigliose, ricordi di mani che si cercano, promesse mai mantenute, baci improvvisi, sogni infranti.
Probabilmente il cuore di John è ancora seduto su quella panchina.
Raccontò tutto all’amico e collega John, manifestandogli tutti i propositi che si riprometteva di mettere in atto per ritrovare e conoscere quella creatura meravigliosa.
John portò le mani al volto ed in una smorfia di dolore intriso di dispiacere gli rivelò quanto aveva appreso nel suo ultimo viaggio nel futuro:
“Non la rivedrai, Peter.
Tu domani morirai.
L’ho visto. Nel futuro.
Mi dispiace, Peter. Mi dispiace davvero.”

***

Agli innamorati non importa di morire.
La disperazione di un innamorato sta nel non poter avere chi si ama.
Ma un infausto destino di morte incombeva su Peter Nap, non lasciando spazio per l’Amore.
Quella sua ultima notte fu una notte di pensieri e di passi lungo la stessa strada dove aveva visto quell’angelo passare e che, per quello, gli era sembrata la strada più bella del mondo.
Ed alla fine prese una decisione.
L’ultima.

***

Peter correva. Senza sosta, finchè raggiunse la base militare, il suo luogo di lavoro, ai margini della città.
Ed ormai deciso, puntò all’hangar dove era segretamente custodita la macchina del tempo, un C204 della General Electric impiantata su una Chevrolet Corvette convertibile del 1966.
Ai viaggiatori del tempo era consentito libero accesso all’Area riservata, protetta da un sistema di sicurezza a riconoscimento dell’iride.
Entrò ed usò di nascosto la macchina.
Certo, lui non voleva morire, voleva precipitare in qualunque punto del passato e scappare, dando vita ad una nuova, personalissima, worldline.
Ma soprattutto avrebbe voluto rivedere lei.
Consapevole che l’utilizzo non autorizzato della macchina del tempo avrebbe certamente prodotto severe conseguenze da parte del governo…
…Quella sera John fuggì…sulle strade del tempo.
Non scelse una data precisa, nè tantomeno un luogo in cui sarebbe precipitato dal futuro, certo che qualunque scelta consapevole non avrebbe prodotto grandi variazioni nella wordline che stava vivendo.
Molto più spesso era stato il Caso a determinare il cambiamento di una wordline.
Ed il destino gli dimostrò ancora una volta la sua precisione implacabile.
La sua fuga temporale lo condusse sul ciglio di una strada della sua città.
La riconobbe dall’odore, benchè non fosse mai stato prima in quella zona, tra quegli edifici che gli ricordavano l’Andalusia, in un viaggio che aveva fatto con gli amici da ragazzo.
Era sera tardi.
Non un’anima in giro.
Tutto taceva.
E di fronte a sé una casa…ed un portone…
…Nell’esatto istante in cui ad entrarvi fu una figura femminile che non avrebbe potuto dimenticare, neanche fuggendo negli angoli più remoti del tempo…la sua Jennifer, più giovane di dieci anni rispetto a quando l’aveva vista, per la prima ed unica volta.
Lui non lo sapeva, ma quello era l’anno 2005.
In quell’istante John pensò soltanto che non tutto era perduto.
Tutto gli apparve chiaro…O, per lo meno, possibile.
I pensieri degli innamorati sono sempre impulsivi…e complusivi.
Non rivelare chi sei.
Decise così di scriverle una lettera. Così fece ed infine la fece scivolare sotto il portone di lei.
Non possiamo cambiare il nostro presente.
Quando lei lo avrebbe incontrato, dieci anni dopo, in una sera di giugno del 2015, se lo avesse riconosciuto, se quell’abbraccio di occhi e sensi riuscisse a rivelare l’embrione di un sentimento, avrebbe dato vita ad una nuova worldline. Le avrebbe raccontato tutto. Le avrebbe rivelato la sua identità ed insieme sarebbero scappati via, come due gitani tra i monti dell’Andalusia.
Ma possiamo provare a cambiare il nostro futuro.
E lui si sarebbe salvato.
Forse.
E allora…
L’amore avrebbe vinto contro il tempo.
E sulla morte.
L’aveva rivista…
…e questo, a volte, può bastare.

Peter salì nuovamente sulla Corvette, accese il motore, con le mani afferrò il volante. Stette un attimo a pensare e poi…
Poi…

La lettera finiva così:
“Io vengo da una storia che deve ancora essere raccontata
Ma tu vieni e cerca di me, io saprò aspettarti sulle strade del tempo.
Perché passeranno degli anni…
Parleranno spesso dell’amore…
E tu sarai sempre il primo nome a venirmi in mente.
Tuo Peter dal 2015”

 


 

Ultime ore di una storia

(The_Instamax)

Devo lasciarti andare via
Occhio non vede, cuore che muore
“Per sempre” finisce qui,
e ciò che resta sarà “punto e altrove”

E penserò a te
Come occhi che non ho abitato
E un sorriso che
Resterà sempre non mio

GETTERO’ IL TUO NOME
NEGLI ABISSI DELLA CRONOLOGIA
E PER SENTIRTI ANCORA CANTERO’
FORSE ANCORA DI TE
MA MAI PIU’ PER TE

COME FOSSE NEVE
IL SOLE POI DISSOLVERA’
LE PAROLE CHE TU HAI LASCIATO QUI
DOVE LASCIAVI ME CHE VOLEVO DIRTELE

Ti saluto qui, da distante
Sparirò alle tue spalle, tu nel mio orizzonte
Sarai memoria invadente
Scritta da una cicatrice
Di quand’ero felice

Tra castelli di carta e lenzuola
sgualcite che ci hanno ospitati
Negli inverni miei
La tua estate ed io
Siamo lì, intrappolati

RESTERA’ IL TUO NOME
NEL RICORDO CHE CITOFONA ANCORA
E DENTRO LA MIA PASSWORD DEL WI-FI
ANCHE SE NON LO SAI
NO, TU NON SAPRAI MAI

CHE ASPETTERO’ LA NEVE
PER SEGUIRE LE TRACCE DI TE
PAZZO RINCORRERO’ NEL VENTO
QUELLE PAROLE CHE HANNO ODORE DI TE
COME OGNI COSA CHE C’E’…

 


 

Kay è stata qui
(io e te…e il sole risplende)
Un racconto di Downfallen Angel

Dedicato a
Dean Flannel Glow
Mio anagrammatico amico,
Ovunque tu sia.

Questa è una storia di fine anni ’90.
Gli anni del walkman, delle musicassette riavvolte con la Bic e del floppy disk, del compact disc che fischiò la «fine primo tempo» degli album in vinile. E di Napster che segnò la definitiva fine di tutti.
Gli anni del bungee jumping e dei ciucci colorati, di Roberto Baggio, degli zaini Invicta e di Beverly Hills 90210.
Erano stati gli anni di Clinton, di Nelson Mandela, della repressione di Milosevic contro il Kosovo e della tragedia della Colombine High School; per noi adolescenti italiani erano anche gli anni degli autoscontri, del Furby e del Tamagotchi.
Maria Montessori, che aveva scalzato per sempre Giuseppe Verdi sulle banconote da mille lire, stava per cedere il passo al neonato Euro ed a tutto ciò che ne conseguirà, nel bene e nel male.
Quelli erano gli anni della musica dei Guns’n’Roses e dell’avvento del Grunge che cambiò per sempre il modo di suonare il rock, anni inaspriti dalle morti di molti miti, da De Andrè a Lucio Battisti, da Sinatra a Kurt Cobain, così come Freddie Mercury.
Gli anni dei primi cellulari e delle ricariche telefoniche che finivano subito…
Ma il 1999 fu soprattutto l’anno in cui quel graffito comparve su un muro del centro della mia città, una mattina di primavera:
IO E TE…ED IL SOLE RISPLENDE
Un frammento di poesia metropolitana sulla cui origine si fecero innumerevoli congetture, perché nei paesi, si sa, le notizie arrivano in fretta dappertutto, come i coriandoli, e quel graffio sul muro fu davvero una novità, nella stanca e rituale monotonia della nostra cittadina.
Io credo di essere tra i pochi, se non l’unico, a sapere la verità su quella scritta.
Perché ho conosciuto Dean. E la sua storia.
Me la raccontò la notte dell’eclissi di luna del 2001.
Gli anni ’90 avevano tenuto segretamente imprigionato quel frammento di vita.
Arrivò il nuovo millennio, arrivò l’eclissi, e quel decennio scomparve per sempre. E forse anche la sua storia.
Fu quasi un passaggio di testimone, quel racconto. Un tentativo di garantirgli, se non l’eternità, una sopravvivenza. Perché si muore veramente, soltanto quando tutti si dimenticano di te.
Dean, occhi scuri pieni di stelle ed anima ribelle.
Neo universitario dalle scarse ambizioni lavorative, era anche un ragazzo timido; glielo potevi leggere sulle guance.
Dean mi ha sempre evocato la figura di Marco della canzone di Lucio Dalla: grosse scarpe e poca carne, cuore in allarme; poca vita, sempre quella…Un lupo di periferia, che vorrebbe andar via.
La descrizione calzava a pennello.
La sua timidezza e l’anticonformismo orgoglioso della sua età lo portavano ad isolarsi dai comuni contesti sociali, eccezion fatta per qualche serata di birre in compagnia di pochi amici.
Preferiva arrivare a sera e chiudersi nella sua stanza, dalla cui finestra poteva intravedere uno squarcio di cielo trapuntato di stelle tra i rami intrecciati degli alberi.
Lo stesso cielo stellato stampato sulla coperta del suo letto, in cui si avvolgeva e si proteggeva dal mondo, che preferiva girare, anzi navigare – come si iniziava a dire in quegli anni, su Internet.
Si sentiva più al sicuro, in quel morbido bagliore – flannel glow, come più internazionalmente indicava la etichetta posta sul bordo della sua coperta di flanella stellata.
Fu navigando in quel mare di byte che Dean conobbe Kay. Su internet, precisamente in una chat, un’altra delle novità di quel decennio ancora poco censito dalla storia, ma indimenticabile da chi, come me, ha sovrapposto la propria adolescenza a quel periodo.
In chat Dean era FLANNEL GLOW.
Quel nickname piacque subito a Kay, che si era presentata sotto quel cielo stellato e virtuale solo con il suo nome.
Entrambi erano lì per la prima volta.
La precisione del caso.
Dean, occhi pieni di stelle ed anima ribelle.
Kay…
Non ti descriverò Kay. Lei è semplicemente bella. Lei è un pensiero così forte che ancora mi tiene sveglio la notte, ma che non ho mai avuto accanto a me al mattino.
Lei ha capelli che ho sfiorato soltanto una volta, eppure mi sembra ancora di toccarli.
Lei è bella come la luna, per me che ho fatto della notte la mia casa.
Non ti parlerò di lei, cosicchè tu potrai disegnarle il volto che vorrai, darle il nome che preferisci e sentire la mia storia come fosse tua.
Perché lei è ciò che universalmente si chiama Amore.
E sotto quel cielo stellato e virtuale, Dean Flannel Glow e Kay si incontrarono. E forse si amarono (dico “forse” perché l’amore è una materia da maneggiare sempre con molta cura; bisogna sempre essere prudenti nel pronunciare questa parola).
Furono giorni di squilli, messaggi, poi di silenzi e di vita che scorre, e poi ancora pomeriggi di adolescenza che esplode, di sogni e di strani voli sulle parole.
Alle parole che non fanno rumore seguirono le lettere, che hanno maggiori pretese di immortalità.
E poi si incontrarono.
Un pomeriggio di novembre. Un pomeriggio stranamente soleggiato, che era stato preceduto da settimane di pioggia incessante e gelida come quella cantata dai Guns in NOVEMBER RAIN, canzone che in quegli anni era divenuta inno generazionale nei licei di tutto il mondo.
Fu Kay a raggiungere Dean Flannel Glow nella sua cittadina. E benchè si fossero visti soltanto su scatti di polaroid spediti con le lettere, tra i visi in fuga che scendevano dal treno, lui trovò immediatamente quello di lei, illuminato dal cobalto dei suoi occhi, e si sciolsero subito in un abbraccio di sguardi e di sensi.
“Hai visto che bella giornata?” esordì Dean. In effetti sembrava un giorno di primavera, preso in prestito dall’Inverno per celebrare a dovere quel magico incontro.
“Già, finalmente…Io e te…ed il sole risplende” rispose lei, divenendo immediatamente poesia.
E parlarono di sogni, dischi, esami e vacanze di Natale, solcando le vie del centro e le panchine dei prati con l’incoscienza orgogliosa della loro età.
Non fu unione carnale. Non fu sesso.
Furono solo le labbra di lei, fugaci come strofe di un addio scritto di ambra, a posarsi in rima con quelle di lui, scolpendo nel giovane Dean un ricordo che sarebbe a lungo sfuggito all’oblio.
Un bacio soltanto. E nulla di più.
Almeno agli occhi di chi, quel giorno, li vide passare.
Poi fu il tempo di lasciarsi.
Ognuno sarebbe tornato alla propria vita, aliena da quell’emozione forte che li aveva fatti volare.
Lui le chiese: “Quando ci possiamo rivedere?” 
Lei restò immobile a fissare l’asfalto prima di alzare lo sguardo verso di lui.
Il cobalto dei suoi occhi danzava irrequieto, come onde di un mare prima della tempesta.
Poi pose un quesito sul quale Dean sarebbe tornato a rimuginare molto in seguito.
“Quanto potresti aspettarmi?”
Cosa rispondere? “Tutta una vita” e sembrare patetico, oppure disinteressato?
Oppure “un’ora”, apparendo impaziente ed infantile.
Ragione e sentimento. Due perfetti sconosciuti che si scambiano inutili convenevoli, incontrandosi. Soltanto fesserie. Ma in genere lo capisci col tempo e, normalmente, troppo tardi.
“Un effimera” rispose.
“Cos’è?”
“Effimero: Ciò che è transitorio, inconsistente.

Questo dice il dizionario. Un qualcosa che non lascia il segno su questa spiaggia, nessun solco lasciato sul disco della vita che gira..Inconsistente al tatto, agli occhi, ai pensieri. Transitorio come le nuvole di un cielo ventoso…negli occhi una nuvola di quel cielo si riflette per pochi veloci istanti.. e poi scompare.

Effimera si chiama….una specie di farfalla…l’Effimera…chiamata con questo nome scomodo per la durata della sua vita.”

“Quanto vive?”

“Un giorno…e poi scompare”.

L’Effimera nasceva…di fronte a lei la vita.. di un solo giorno…come un’incantesimo di strega, al tramonto la sua anima volerà libera e tutto ciò che vivrà in questo tempo sarà la sua storia di un giorno, di un giorno soltanto…

E si gode quel giorno, la sua vita meravigliosa, benedetta dal sole fresco del mattino e salutata dai raggi caldi della sera…per poi scomparire e rinascere ancora, lungo l’infinita trama di mondi paralleli..Lei nasce sapendo che ogni secondo d’ali è un regalo sublime, e vola libera in quel fluire morbido che solo la presenza concede a chi la sposa…

Ma l’Effimera sa, è consapevole della sua natura, del suo tuffo in questo mare che ci bagna tutti… sa perchè è nata e sa perchè morirà.. non le servono anni di esperimenti, di cadute e atterraggi bruschi, di caos e momenti bui, di lotte contro mulini a vento o di ricerca della verità…lei è di per se una verità cosciente.

Dean è solo un uomo… e non avrebbe capito perché le cose debbano per forza finire.

Decisero comunque di rivedersi lì dove si stavano dicendo addio, la domenica che avrebbe preceduto Natale. In quella che non sarebbe mai più stata soltanto la sua Città, ma il posto dove aveva visto Kay.
Nel tempo intercorrente Dean provò a scriverle, più o meno come aveva fatto tutti i giorni che avevano preceduto il loro incontro.
Io non so perché. Non lo sapeva neanche Dean. Ma a quei messaggi, a segnali di fumo abituali, non ottenne risposta.
E questo gli provocava un’angoscia che, strisciando verso lo stomaco, lasciava in bocca il sapore del ferro.
E venne il giorno, come un’esecuzione, ma anche come una liberazione.
Kay per lui era poesia, con l’inevitabile conseguenza di un’urgenza interiore inspiegabile e misteriosa di dover essere scritta.
Dean decise, come un poeta maledetto, di rendersi colpevole di scrivere, non potendone fare a meno, inserendosi nel cono d’ombra della notte ed interloquendo con l’immaginario, nel tentativo disperato di renderlo reale .
Andò di notte al muro bianco che lambiva la salita che inerpicandosi per il centro della sua città conduce alla sommità della collina, lassù dove avrebbe portato Kay per confessarle, dinanzi a quegli interminati spazi dell’orizzonte, la sua condizione precaria e ibrida, sospesa tra salvezza e condanna, a cui gli uomini attribuiscono accezione positiva, dandole il nome di Amore. Una materia molto delicata da maneggiare.
Munito di vernice scura, graffiò quel muro delle parole che ormai da giorni gridavano dentro di lui, con l’ambizione di trasformarle in preghiera ed auspicando paradossalmente il silenzio, smettendo di abitare l’inferno dell’assenza.
E scrisse per lei … Scrisse di lei. Una frase soltanto:
IO E TE…ED IL SOLE RISPLENDE
*********
Dean e la sua poesia aspettarono. Aspettavano Kay. Per ore. Per giorni. Forse una vita.
Ma lei non fece ritorno.
Per le imperscrutabili motivazioni che animano le scelte umane, specie quelle infarcite di spirito adolescente, lui non la chiamò cercando di capire il motivo di quel contumace addio, in un misto di orgoglio, rabbia e sofferenza.
Non la chiamò più.
L’assenza è una realtà concreta, quasi tangibile, quanto la presenza.
Ciò che non c’è lascia traccia quanto ciò che c’è.
Ancor più prezioso è ciò che c’era, ma non c’è più.
È una sfida alla ragione.
Kay non era tornata. Dean non sapeva perché.
Eppure l’assenza deve avere un senso.
Dicono che il senso della Vita sia l’Amore, la presenza di qualcuno.
Però l’Amore nasce dall’assenza. Si ama da lontano. La passione nasce spesso dall’impossibilità.
Per questo il termine “passione” assume anche il significato di “sofferenza”.
Ciò che manca fa soffrire. E Kay mancava.
Kay manca.
“IO E TE…E IL SOLE RISPLENDE.
Ma aspetterei la neve, se potessi scovare una traccia del tuo passare nel mondo, inconsapevole ed ignaro di me…che resterei a guardarti.”
E dallo spazio bianco tra le parole, dal vuoto fra le righe, deriva la possibilità di immaginare un intero mondo.
E per giorni Dean andò a quel muro, quasi come se una frase che parlasse di Kay in qualche modo avesse dentro un po’ di lei, cercando così una compagnia per il suo dolore.
Ma ogni qual volta si ripercorre a ritroso quel filo d’inchiostro con cui è scritta una vita si rischia sempre di ritornare lì dove tutto e cominciato … dove tutto è finito … o semplicemente dove qualcosa è cambiato.
Lì, dove è stata Kay.
Il tempo sbiadisce i contorni delle fotografie dei ricordi.
L’odore, invece, è quasi sempre incancellabile.
Quante volte abbiamo sperimentato, per lo più inconsapevolmente, l’incredibile capacità degli odori di risvegliare in un istante e d’improvviso un’esperienza passata e radicata nel fondo della nostra memoria? Come una scintilla, un certo profumo casualmente risentito a distanza di anni può immediatamente ridestare in noi un’ondata di ricordi sopiti, lasciando riaffiorare, con dovizia di 
particolari, esperienze della nostra esistenza passata che ci sembravano definitivamente rimosse. 
L’odore è infatti il più grande alleato dei ricordi: ci permette di viaggiare nel tempo e perciò fa sì che l’olfatto venga eletto a senso privilegiato dalla memoria. Un odore o un profumo già sentiti hanno l’impareggiabile potere di rimaterializzare anche i nostri ricordi intimi, di renderci presenti eventi lontani.
La tenacia e l’inconsapevolezza dei ricordi olfattivi.
Il giorno del loro incontro, Kay era avvolta da un profumo di Iris, come gli aveva rivelato.
Non avrebbe mai più potuto respirare il profumo di Iris senza innescare la nostalgia, senza sprofondare nei recessi inconfessati di quel lontano giorno vissuto.
Nel tempo che seguì, Dean capitava occasionalmente a quel muro ormai scrostato dal tempo, testimone inconsapevole del suo perpetuo dolore, di cui portava ancora dei visibili segni, come una cicatrice che, nonostante tutto, sapeva ancora ricordargli quanto era stato felice in quel giorno di sole che aveva preceduto il buio.
Sono passati anni da quella triste storia.
Non ho più rivisto Dean, non so neanche dove sia ora, né che fine abbia fatto.
Mi piace ogni tanto immaginare che abbia ritrovato la sua Kay, che forse sua non lo fu mai, anche se era stato bello pensare così.
Mi piace immaginare quel filo d’inchiostro, con cui anni prima aveva disegnato su un muro la sua poesia per lei, come ad un’onirica via da uscita dal labirinto dei suoi ricordi … ovunque sbucasse, ovunque conducesse mi auguro che tu sia felice, amico mio.
Abbi cura di te.
Qualche sera fa, cercando su Internet di quelle parole, così semplici ma cariche di poesia, io e te…e il sole risplende, il primo risultato è stato l’indirizzo di un blog, la cui proprietaria (visibilmente una donna, vista la grafica della pagina) si celava sotto lo pseudonimo di ultima eclissi per rivederti.
Quello che ho visto avrebbe potuto riaprire in un secondo il ripostiglio dei ricordi di Dean, la cui porta aveva (forse) con fatica e negli anni chiuso facendo forza, come un bambino che non arriva alla maniglia, con tutte le spalle, tanto ne era prepotentemente traboccante.
Se soltanto lui l’avesse saputo…
Ma perché non funziona tutto come nei film? Perché gli estranei in metropolitana, invece che limitarsi a guardarti, non attaccano bottone dicendoti che hai un sorriso bellissimo? Perché dopo dieci anni, in un caffé del centro, non rincontri mai la persona per cui hai lottato? Perché le madri fanno fatica a capire i propri figli e i padri ad accettarli? Perché la frase giusta arriva sempre durante il momento sbagliato? Perché non ti capita mai di correre sotto la pioggia, di arrivare davanti al portone di qualcuno, farlo scendere, scusarti e iniziare a parlare a vanvera per poi trovarti labbra a labbra e sentirti dire: ‘non importa, l’importante è che sei qui’? Perché non vieni mai svegliato durante la notte da una voce al telefono che ti dice: ‘non ti ho mai dimenticato’? Se fossimo più coraggiosi, più irrazionali, più combattivi, più estrosi, più sicuri e se fossimo meno orgogliosi, meno vergognosi, meno fragili, sono sicuro che non dovremmo pagare nessun biglietto del cinema per vedere persone che fanno e dicono ciò che non abbiamo il coraggio di esternare, per vedere persone che amano come noi non riusciamo, per vedere persone che ci rappresentano, per vedere persone che, fingendo, riescono ad essere più sincere di noi.
Certe persone sono destinate a disegnare ardite percorsi nel cielo, come scie chimiche di corpi celesti che non riescono a incontrarsi.
Come un sole ed una luna che passano per lo stesso cielo senza mai sfiorarsi, ma a cui resta l’illusione di riuscirci, nell’istante di un’eclissi.
E da allora quel sole e quella luna vivono e girano nel cielo con la speranza di rivedersi nella prossima eclissi, che sia quella giusta per potersi toccare, dando un senso a tutti quegli anni in cui si sono mancati.
Un’attesa vana che dura per sempre.
Fino all’ultima eclissi.
L’ultima eclissi per rivederti.
Questo ho pensato, vedendo nel blog la foto di un muro…un graffito ormai logoro…Io e Te – e il sole risplende.
E sotto un commento.
Quattro parole.
Kay è stata qui.

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L’eterna canzone
(cronaca di un volo in un improbabile domani)

Quella primavera, decise che l’avrebbe trascorsa vicino a colei che aveva capito di amare. E le sarebbe rimasto accanto quella dopo, e mille altre ancora, avessero anche dovuto trascorrerla fermi a guardare i treni che partono dalla stazione di Londra, , oppure passeggiando nei giardini di Kensington piuttosto che sulle spiagge di Brighton in compagnia del porto e della brezza marina. Era giunto il tempo in cui non voler chiedere di più dalla vita che dormire non troppo lontano dalla persona amata e di giorno trascorrere insieme più tempo possibile.
Decise di lasciare tutto: ed anche senza il resto, di ricominciare dall’amore.
Scrisse su un foglietto alcune parole, poi ripose il tutto il tasca.
Quella era una primavera di tanti anni fa, ormai…
******
Londra, 1980

“Processo di integrazione di istanze pulsionali ed emotive in grado di stabilire legami intersoggettivi”: una definizione non semplice da trovare, quella per l’amore. Amore, un sentimento tanto illogico quanto reale nei suoi effetti, sul quale gli intellettuali e i filosofi di ogni epoca si sono interrogati con rigore.
C’è però (più ordinariamente) qualcuno che, certo di aver trovato la persona giusta con cui condividere per davvero il resto della propria vita, non la lascia andare nemmeno nel momento più duro di tutta l’esistenza umana: la morte.
Un amore senza tempo, indissolubile, esagerato e incontenibile fu quello di Wendy e di suo marito.
Uniti per la vita e capaci di emozionarsi.
Ma quando la clessidra ha finito la sabbia e il tempo da passare insieme termina, non resta altro che dedicarsi dolci parole e aspettare uniti più che mai che arrivi la fine.
Per questo motivo lei non lasciò nemmeno per un istante il suo amato e lo accompagnò nel doloroso trapasso, intonando le note della loro canzone.
Ho avuto la fortuna di catturare una scintilla della luce di quel prezioso momento di fusione dei loro cuori.
Ho incontrato Wendy nel parco…Il giorno dopo. E le ho parlato.
Prima di allora avevo spesso osservato le passeggiate di quei due vecchietti in quello stesso parco. Kensington Garden.
Sin dalla prima volta.
*********
Londra, 1969
Due signori per bene.
Li vidi per la prima volta con la coda dell’occhio, mentre ero in fila per prendere il gelato.
Io, con il passeggino, il mio bambino, due mie amiche… All’inizio non ci feci caso, finché una delle mie amiche non mi spiegò. Lei di spalle a me, lui seduto davanti a lei, la moglie.
Le fedi alle dita me lo dissero. Due fedi esattamente come la mia, solo più consumate dagli anni…
Chissà come sarà la mia tra quarant’anni.
Con le parole della mia amica dentro le orecchie continuai a guardarli… teneri, silenziosi, amorevoli nei gesti lenti.
Chiunque passasse li guardava e sorrideva, io dalla mia posizione non potevo vedere bene.
Poi pagai, presi i quattro gelati che aspettavo e per uscire anche io passai davanti loro.
Davanti alla vita. All’amore della vita. Alla crudeltà della vita.
Lei stava semplicemente lì, in piedi davanti al marito seduto con le mani in grembo, per fargli mangiare una coppetta di gelato alla fragola. Lo imboccava.
Fino all’ultima goccia di gelato sciolto, lo imboccò. Senza distrazioni, senza distogliere lo sguardo, attenta a muoversi come avrebbero fatto le mani del marito.
“Insieme sembrano Musica: come lei, insegnano la bellezza dell’Armonia.” Pensai.
Da quel giorno in poi quelle due persone rapirono la mia attenzione, e sembravano farlo con tutti i passanti, continuando involontariamente a rubare in giro pezzetti di cuore e qualche secondo di riflessione.
Poi, alla fine, la signora si fece aiutare da un passante ad alzare in piedi il marito e sottobraccio si avviarono per la loro strada…
Non potei non guardarli… E continuai a guardare mentre si allontanavano.
Mano nella mano.

Come ogni giorno.
Per tanti anni.
Per tutti gli anni in cui, ogni giorno, li vidi insieme. Con passo lento e difficoltoso… Ma sempre insieme.

*********
Londra, 1980

“Buongiorno Signora, come sta?
Non vorrei apparirle scortese, o sembrarle inopportuna…
Lei non mi conosce, ma io da anni vengo in questo parco, più o meno tutti i pomeriggi…E tutti i pomeriggi, da lontano ho visto lei…e suo marito…ed il vostro amore.
Ho amato anche io la scia dei vostri passi.
E ieri ho appreso la triste notizia…Mi è dispiaciuto terribilmente, perché, malgrado io non vi conosca…Tuttavia sento di avervi voluto bene”.
le ho detto avvicinandola, rivolgendole per la prima volta la parola, dopo tanti anni in cui sono stata a guardare il lento incedere del loro passare.
Contrariamente alle mie aspettative, la signora non è sembrata considerarmi una perfetta sconosciuta quale, in realtà, dovrei essere ai suoi occhi…E, forse bisognosa di sfogare il suo dolore, mischiandolo alle parole che forse non avevano più alcun destinatario sulla Terra, ha iniziato a parlare, in maniera fluida e pacata. E mi ha raccontato di lei…del marito…di come tutto iniziò…e di come tutto era finito…e poi ancora ricominciato.
“Mi chiamo Wendy, mia cara…
Grazie per la tue parole di cordoglio…Per tutti questi anni il mio mondo è stato mio marito. Ed ora mi sento molto sola…Come se abitassi un mondo che non c’è.
Il mio povero marito…
Lo conobbi molti anni fa…In una situazione surreale.
Eravamo due ragazzini. Eravamo folli.
Lasciai casa mia per seguirlo, vivemmo tante avventure insieme, ma alla fine…ero ancora una bambina…volli tornare a casa.
Mi arrabbiai anche con lui, che insisteva per tenermi con sé: lo accusai addirittura di avermi rapita, al solo scopo di rovinare la mia vita, senza darmi nulla da fare, tenendomi all’oscuro da tutto.
Ed impedendomi di tornare a casa.
Di CRESCERE…”
Da questo momento in poi, davanti ai miei occhi si sono srotolate le immagini del suo racconto, che ha iniziato ad assomigliare ad un sogno fuori da ogni immaginario.
*******
“Lui sussultò, nell’udire quella parola.
Forse si chiedeva perché quella ragazzina continuasse a desiderare quelle stupide cose, quando avrebbe potuto avere molto di più.
Pensò che io non riuscissi a guardare più in alto, ad aspirare qualcosa di meglio, a capire che il posto dove ci eravamo rifugiati non doveva essere il mio tormento, ma la mia gioia.
Avrebbe voluto essere in grado di aprirmi gli occhi.
Ma alla fine acconsentì…
Alla fine mi lasciò andare.
Tornai a casa.
Ma una volta da sola capii che lui mi mancava.
Ed io mancavo a lui.

Crescere…
Avrebbe potuto raggiungermi.
Sarebbe potuto crescere anche lui.
Se avesse abbandonato il suo potere.
Se avesse rinunciato all’immortalità.
All’inizio pensò fosse un prezzo troppo alto da pagare per una cosa così infima come la vita umana.
Uno stupido ed insensato susseguirsi di giornate monotone, settimane, mesi, anni.
A fare le stesse identiche cose, vantandosi soltanto di essere un po’ più maturi dell’anno precedente.
Ma realizzò presto che avrebbe preferito crescere e morire, per poter vivere al mio fianco.
E fu così che Peter lasciò l’isola che non c’è. Per sempre. Rinunciando a restare per sempre bambino. Ed assumendosi il coraggio di vivere. Di crescere. Invecchiare. E morire.
Soltanto per amore.
Mi raggiunse a casa Darling, in Kensington Street. Abbiamo sempre vissuto lì. Dove tutto è iniziato.
Poi successe che si ammalò… Quasi il suo corpo tendesse ad invecchiare più velocemente delle altre persone…
Come se la magia di cui era permeato quand’era nell’isola lo avesse completamente abbandonato, lasciando una mente fervida in un corpo debole e poco avvezzo a resistere all’inesorabile incedere del tempo al quale lui, volontariamente, aveva deciso di piegarsi.
Io gli sono sempre rimasta accanto…Riservandogli e dedicandogli tutto il mio Amore, nella sua forma più elevata e pura: la cura.”
*******
“Signora…suo marito si chiamava Peter?”
“Sì, mia cara…lui era Peter…Peter Pan”.
******
Isola che non c’è, 1911

“Ed ho visto il sorriso che avevi quando la guardavi, ti brillavano gli occhi.
Tu eri felice e io ero distrutta. “
Questo pensò Trilly quando Peter andò via.
Peter, che aveva sempre amato. In silenzio, ma lo aveva sempre amato.
Ebbe questi pensieri, ma non disse una parola, preda della silenziosa disperazione dell’amore negato. O mai nato.
Anche le fate amano…e soffrono…
Anche nelle favole tu ami qualcuno, che però ama un altro.
Anche nelle favole tu ami, mentre un altro ride e dà da bere alla risata di qualcun altro, soffia sul viso col respiro e tiene le mani fortemente così che non possa succedere niente ad entrambi…che però non sei tu.

Un altro a cui regalerà conchiglie,
che conserverà per sempre.
Mentre tu e l’Amore starete fuori soltanto a guardare.
L’amore disperato.
L’amore incondizionato.
L’amore per cui lasciare tutto.
Lui se n’era andato.
Forse un giorno, lei lo avrebbe raggiunto.
Anche lei avrebbe rinunciato a tutto per lui, un giorno.
********
Londra, 1980
Al termine di questa sua favola che mi aveva regalato, la Sig.ra Wendy si è infine congedata con dolce tristezza, e ha proseguito la sua strada solitaria, dondolando con passo lieve, come una piccola stella d’oro che rotola sulla neve. Quella stella che aveva abbandonato il cielo, in cui anni prima segnava il tragitto a destra da seguire fino al mattino, per raggiungere l’Isola che non c’è.
*******
Ho aperto gli occhi in una stanza buia, la mia.
Ho acceso il lume posto di fianco al mio letto e mi sono guardata intorno.
“C’è qualcosa che non quadra”, mi son detta.
Di fianco a me il mio bambino dormiva beato, il suo respiro caldo e dolce riempiva la stanza.
Mi sono alzata infilandomi il cappotto. Ho sentito il bisogno irrefrenabile di raggiungere l’esterno della mia abitazione, di respirare l’aria fredda della notte. Ho aperto la porta ed in pochi passi sono uscita.
C’era una strana atmosfera nell’aria, le luci erano accese ed emanavano un’illuminazione soffusa, sull’arancione.
Le stelle in cielo brillavano più forte che mai, contribuendo all’illuminazione generale di quella strana serata, con la loro luce bluastra.
Ho avvertito dei movimenti intorno a me, strani campanellini risuonavano nelle mie orecchie, in ogni direzione.
Ho continuato a camminare senza badare minimamente dove stessi andando. Ho lasciato che fossero i miei passi a condurmi.
E mi sono ritrovata così davanti ad un fantastico portone rosso di una casa a ridosso dei Giardini di Kensington. C’era un lucchetto a chiudere le ante. Mi sono avvicinata, desiderosa di sfiorare quel ferro che immaginavo esser freddo come la notte.
Ho teso una mano verso le ante ed al mio tocco, il cancello ha emesso uno strano rumore. Dopo pochi secondi le porte si sono aperte.
Non mi sono stupita. In qualche modo sapevo che sarebbe successo.
Una luce sempre più avvolgente è sembrata condurmi verso l’ingresso della casa, che era caldo ed accogliente.
Ho chiuso gli occhi e respirato a fondo l’aria intorno a me. Aveva un odore fresco e dolce allo stesso tempo. Sembrava sapere di gelsomino. Sono rimasta ad occhi chiusi a cercare di dare un nome a quel grazioso profumo. Non sapevo se fosse possibile, ma avrei giurato di sentire del gelsomino fuso all’odore fresco della neve candida.
D’un tratto ho realizzato, non so come, di trovarmi a casa Darling: ne ero praticamente certa…E sono subito stata sopraffatta da un sentimento di speranza di incontrare nuovamente Wendy, per scambiarci un po’ di favolosa compagnia, accostandomi alla sua vita come un bacio sospeso nell’angolo della bocca.
Avrei voluto sapere se aveva dei figli, se la favola di lei e Peter era proseguita mescolandosi alle meraviglie del Mondo che c’è.
Dopo alcuni istanti ho riaperto gli occhi e davanti a me ho scorto l’immagine del corpo esile di una bimba bionda, che mi ha chiesto chi fossi.
“Buongiorno, sono un’amica della signora Wendy… E’ in casa?” ho chiesto io, confusa.
La bambina è stata un attimo a pensare. Mi ha guardato quasi più confusa di me, cercava spiegazioni, sicuramente si è chiesta chi io fossi esattamente.
Poi ha risposto con un sibilo di voce: “Se cerca la signora Wendy non c’è più…non è più qui…è volata stanotte…da suo marito…da Peter”, e parlando il volto le si è rigato di lacrime.
“Sono tornati insieme…ancora una volta…senza di me…” ha aggiunto tra i singhiozzi.
“Non piangere piccola” l’ho esortata, mossa da un duplice sentimento di commozione e compassione. “Tu che ci fai qui? Sei sola, piccolina?” le ho chiesto.
“Sono appena arrivata” mi ha risposto “ho sentito che le condizioni di salute di Peter si erano aggravate…e sono venuta qui…da sola…ho lasciato tutto e sono volata qui, per riuscire ad abbracciarlo per un’ultima volta”.
Un immagine, un lampo…Incredulità… Mi sembrò tutto chiaro nella frazione di un’istante.
“Come ti chiami, piccola?” ho chiesto.
“…Trilly”, ha risposto lei, “mi chiamo Trilly”.
*****
Mentre il marito stava per esalare gli ultimi respiri di questa vita terrena che aveva scelto nonostante tutto, Wendy mi aveva raccontato di aver intonato le parole della poesia che lui aveva scritto per lei su un foglio prima di lasciare l’isola…e che le donò quando tornò da lei, nelle mutate vesti di mortale, perché lei capisse che aveva deciso di raggiungerla per restare per sempre, rinunciando all’eterna fanciullezza, soltanto per amore di lei.
Perché vicino a lei aveva deciso di invecchiare.
Certe cose chiare dentro…poi non escono…ma si possono scrivere.
Così aveva fatto lui.
C’è una canzone che Peter Pan scrisse per Wendy.
Una canzone sulle cui parole Peter lasciò questa Terra.
Una canzone con cui l’eternità dell’Amore sconfisse la morte.
Ora Peter e Wendy sono di nuovo insieme, nell’Isola che non c’è…Ovunque essa sia…o “non sia”.
L’ETERNA CANZONE…io l’ho letta è bellissima…
Forse un giorno la racconterò a qualcuno…O forse no…
Forse è giusto che sia soltanto loro, di Peter e Wendy.
Una canzone, come la poesia, non è di chi la scrive…Ma di chi la usa, di chi ne ha bisogno.
Quella, invece, è giusto che resti soltanto loro. Di chi l’ha vissuta.

 


 

Quando ridi (The_Instamax)

E non mi pento
Forse soltanto un po’
E non ci penso
Magari a volte
Quando credo di averti scordato
E ti ritrovo nei miei sogni

Siamo pietre tra i diamanti
Cuori arditi che celano schianti
Ti chiamerò più tardi
Poi fingerò di non pensarti

Tra la paura e il bisogno
Ho inventato troppe fughe
Per le fantasie

Ma quando ridi
Tutto poi scivola via
Come pioggia sulla pelle
Se ridi
Mi sembra di precipitare
Dall’orbita delle tue stelle

Preferisco chiudermi
in un enigmatico silenzio
Illuminato di lampeggianti
Non ti seguo
Ma ti incontro … dappertutto
Quando sogno ad occhi aperti
O soprattutto quando li chiudo Ma non dormo
Vorrei fuggire invece torno sempre là

Dentro una storia mai iniziata
Di cui stranamente sento nostalgia

ma quando ridi
tutto poi scivola in fretta
come sabbia tra le mani
se ridi
io quanto vorrei dirti “aspetta”
ma non si può…e già ti allontani…

ma quando ridi
quell’attimo è già almeno un ricordo
che serberà il tuo nome
tu ridi e
io raccolgo tutti i tuoi respiri
ne faccio ossigeno
per le mie illusioni