Melissa Cascino
Poesia in Mostra
JUST HIM
Ti ho visto vestito di niente, avevi l’anima spoglia di ogni debolezza e sicurezza che avresti potuto indossare.
Mi hai porto la mano, con il tuo palmo freddo e i polpastrelli tutti ruvidi, per via della troppa sabbia che ti è passata tra le mani.
“Appoggi le dita sulle mie labbra e con delicatezza mi sposti il ciuffo che mi copre il viso in parte.”
Ricordo il nostro primo sguardo, avevi le gambe che tremavano e il cuore che batteva forte, avrei voluto poter dire qualcosa ma era come se avessi la bocca cucita.
Mentre piano mi porgevi la tua mano per incrociare le dita con le mie, ricordo come senza pensarci mi sono spostato lontano da te, ho avuto paura, non di te, ma di avere le mani addosso di un atro uomo.
Volevo fidarmi di te, ho voluto fidarmi di te, mi sto fidando di te.
Mi hai deluso, non posso negarlo, mi hai trattata come sempre hanno fatto tutti.
Credevo fossi diverso, fossi una persona migliore di quelle che la vita mi ha fatto incontrare ogni giorno.
Invece, eri solo il diavolo vestito di bianco.
La prima volta che mi hai alzato le mani, ho osservato il segno rosso che avevi lasciato sul mio viso, quel viso che inizialmente avevi giurato che nessuno avrebbe più potuto toccare se non per una dolce carezza.
Volevo perdonarti, ho voluto perdonarti, ti ho perdonato.
La seconda volta che mi hai alzato le mani, ho osservato i primi lividi formarsi sulle costole, quelle costole che inizialmente avevi giurato che nessuno avrebbe più potuto toccare se non per un abbraccio stretto.
Volevo coprire i lividi, ho voluto coprire i lividi, ho coperto i lividi.
La terza volta che mi hai alzato le mani, ho osservato come il mio occhio piano stava diventando nero, non avevo più il pensiero di quando mi avevi giurato tutte quelle bugie.
Volevi picchiarmi, mi hai picchiato ancora, ancora e ancora.
La quarantesima volta, lasciasti sul mio collo e i miei polsi i segni delle tue mani, che avevano stretto così forte la mia pelle da lasciarne le cicatrici.
A te andava bene, tanto avrei perdonato ogni tu gesto, ogni tua parola.
Poi. È successo.
L’ultima volta che mi hai picchiata, ho pianto ma non ho più osservato i miei lividi, i segni che mi lasciasti sulla pelle.
Ho alzato il viso, e con la mano ho pulito le lacrime che bagnavano il mio viso.
Volevo dirti basta, ho voluto dirti basta, ti ho detto basta.
Mi sono detta basta. Ho scelto me, ho scelto di perdere te, per ricordarmi che non tutte le mani che dovranno toccare la mia pelle dovranno farmi del male.
Grazie, ho scritto di te per dimenticarmi di me, ma mai potrò di te.
Ho le cicatrici incise addosso delle tue mani.
VOLTA PAGINA
So che la notte quando finalmente poggi la testa sul cuscino, mentre affondi nelle coperte, il tuo viso viene leggermente graffiato di lacrime, sono salate e te ne rendi conto quando piano ti arrivano alle labbra… Ti bruciano la pelle, lacrime che sanno di dolore, lacrime che sanno di vita vissuta.
So che la notte non dormi, e ti giri e rigiri nelle coperte cercando di soffocare le urla nel cuscino, lasci che la musica vada avanti da sola, mentre la canzone dolcemente ti accarezza l’orecchio attraverso le cuffiette che con poco d’amore ti arrivano all’anima, quell’anima che è stata distrutta, è stata lasciata al buio mentre un uomo le tappava la bocca e non potevi urlare.
Io ho sentito il cuore spezzarsi, quando un giorno mi sono resa conto che quell’uomo aveva distrutto la mia anima davvero, ho sentito il cuore spezzarsi quando realizzato che mi avevi portato via qualcosa che nessuno potrà mai ridarmi, e soffro al solo pensiero che ogni giorno della mia vita dovrò sentire le tue mani ancora addosso quando mi leverò i vestiti o semplicemente mi toccherò la pelle, provando ad accarezzare le cicatrici che hai lasciato si formassero senza il minimo pudore di guardarmi negli occhi e ricordarti che ero una bambina, io ero solo una bambina e mi hai strappato in un millesimo di secondo la mia intera vita, non solo l’infanzia, non solo la mia ingenuità, mi hai portato via tutto, la voglia di crescere, la voglia di diventare grande, avere una famiglia, avere un uomo nel mio letto, nella mia cucina, un uomo che mi prenda la mano.
Dimmi ti senti grande? O meglio, ti sei sentito grande? Mentre mi sfilavi le mutande e con le mani mi tappavi la bocca e mi dicevi che non mi avresti fatto male, che volevi solo giocare.
E ho le mani che tremano, mentre scrivo di te, ho l’ansia che mi mangia dentro sé penso che non avrei mai nemmeno dovuto scrivere di una cosa simile né successa sulla mia pelle, né sulla pelle di nessun’altra.
Purtroppo, è successo, mi hai violentata, non solo la pelle, non solo la carne ma anche l’anima.
Mi fidavo di te, delle belle parole, degli abbracci da dietro, poi le belle parole sono diventate così silenziose e gli abbracci da dietro si sono trasformate in un senso di paura.
Ho provato a voltare pagina, ci sto riuscendo, mi hai fatto a pezzi ma lentamente mi sto ricucendo le ferite.
Io la supererò, un giorno mi guarderò allo specchio, una mattina, e potrò osservare come con le cicatrici ne ho fatto una nuova pelle.
Tu probabilmente vivrai sempre con il rimorso di avermi ferita, io vivrò con la soddisfazione di non aver lasciato che tu mi distruggessi.
ABBRACCIO
Indossavi una maglietta bianca fina che arrivava quasi alle tue ginocchia che con paura nascondevi all’uomo che fermo immobile ti stava davanti e in silenzio ti guardava mentre stavi accovacciata a terra nascondendoti il viso con le mani, avevi le nocche sporche di sangue, il motivo preciso penso fosse per la dura presa che avevi dovuto tenere per paura di cadere dal precipizio che ora delicatamente ti stava a qualche centimetro di distanza.
Posso giurare di aver sentito il suo cuore spezzarsi mentre quell’uomo le strappava con rabbia la maglietta che essa indossava con una certa raffinatezza.
Penso che ti mancassero semplicemente le braccia di qualcuno che ti volessero stringere solo per farti stare bene, e non ancora per farti del male, per toccarti quando non vuoi essere toccata, ma solo amata, amata almeno una volta per tutto l’amore che fino ad oggi ti è mancato.
Lentamente alzi il viso e con tranquillità, dopo aver asciugato le lacrime che ti graffiano il viso, estrai dalla tua tasca destra dei jeans color blue, una polaroid che ritraeva te e penso il tuo babbo, che oramai ti aveva abbandonato da un paio d’anni, l’ho dedotto da come guardandola, hai stretto gli occhi per poi alzarli al cielo, penso per non piangere nuovamente, avevi l’anima spenta ed il cuore spezzato, chissà quanti uomini ti avevano ferita e delusa, ho provato ad immaginare quante mani hai avuto addosso, ma non sono mai riuscita ad andare avanti dopo il primo uomo, avevo normalizzato che nessuna donna dovrebbe avere le mani addosso di nessuno, ed io stavo lì a pensare quante potessi averne avute tu. Credevo fosse tutto così banale, guardandoti negli occhi pensavo che l’avresti superata, la donna che ho conosciuto io, aveva la forza di superare qualsiasi cosa, ma tu non eri più la donna che avevo conosciuto, eri diventata niente, persa tra il tuo riflesso e il tuo contorno di pelle che lentamente stava sparendo insieme a te. Ti avevo persa, persa per strada probabilmente, quella strada dove ti hanno trovata, da sola, per l’ultima volta.
SEI SOLO IO
Ho abbassato le tapparelle
prima di venire nel centro della stanza
per ballare nuda e sola
una canzone che prima
abbiamo ballato nudi e insieme.
Ho chiuso il cuore e spento i sentimenti
quando tu hai scelto di giocare con entrambi.
O mio futile uomo che scheggia ti colpisca
alla fronte dell’immensa nullità
che porge scuse innumerevoli al cuor di chi
più non vuol battere.
Mio fragile corpo che stendi lurido e sanguinante
al centro del tuo animo, ha forgiato le dita
tutta la sabbia che il cadavere ha raccolto a terra
e arrogantemente ha sparso nei tuoi docili occhi
aperti al mondo dei tuoi sogni ma
immaturamente chiusi alla realtà.
O mio futile soldato che porgi lievemente
la spada a colui che ha solo voglia di
scagliarvela in corpo, perforandovi cuore e ossa.
futile il mio destino, lasciato a morte in
quell’ostile parcheggio di anime morte.
Vittimismo di chi non cosparge sale sulle ferite
ma lascia a coloro che passano di osservarne le lesioni,
potenti tagli logoranti di rabbia
la felicità che amabilmente quella donna portava
garbatamente sul ventre, odora di vita non degna
di un respiro, odora di uomo che porgerà
scuse incoscienti alla donna che ferirà.
Mia futile anima chiedo umilmente il mio
stesso perdono, che non mi venne mai porto
dall’anima di colui che ora è dannato.
Vita dannata che li venne offerta in regalo
da chi spezza il cuor e ne rivende piacevolmente
i pezzi ad una donna che amerà dopo di te.
Oh, mio signore, chiedo perdono a colei che ho ferito
senza preoccuparmi di averle ridicolizzato non solo la
codesta vita ma la sua amorevole anima oramai
macchiata dalla mia violenza che nessun uomo
porterà via, ma avrà solo il piacere di essere
assaggiata da un altro animale, che con il sapore di vita
e molestia le porterà via le gambe.
Mio futile uomo, che scheggia forbita le sia tra le labbra
di una bocca che ha baciato il diavolo.
Scheggia di debolezza che ha tagliato il suo corpo
innocuo e odioso a metà.
Le lascio le mie schegge portate tra le dita e impigliate alla pelle.
Possa un giorno lui strapparle in indolore e donarle
a colei che dedicherà tutto l’amore a me
promesso, mai mantenuto.
Liam Payne
Tic-tac.
È l’unico suono che
riesco a sentire.
Il tempo passa
ed io rimango immobile
all’esatto momento in cui
ho scoperto che te ne sei andato.
Non riesco a muovermi
c’è in loop una canzone che
nemmeno mi piace,
ma resto immobile con
gli occhi persi nel vuoto che
ancora ti cercano.
Non tornerai,
eppure, io
continuo ad aspettarti.
Tic-tac,
rimbomba nelle mie orecchie
il suono occhieggiante di
questo orologio,
continuo ad ascoltare con
scarsa speranza di
sentire per un’ultima volta
la tua innocente voce.