Michele Ferrone - Racconti

Cur vivere?

 

Se a qualcuno venisse mai chiesto prima ancora che quest’ultimo venisse alla luce, di scegliere la vita o l’inesistenza, venendogli posta obbiettivamente la questione coi suoi pro e i suoi contro, egli, chiunque esso non-sia, opterebbe per l’inesistenza. È questa una visione pessimistica? Non direi.
Al contrario ciò deve far riflettere su quanto l’uomo sia essere affettivo. Infatti, ponendo la stessa questione ad un uomo “già in vita”, chiunque esso sia solo in rari casi opterebbe per la morte.
Aprendo una parentesi, i rari casi di cui parlo sono quelli in cui l’uomo in questione è tale solo anatomicamente ma non più nello spirito, per colpa sua, di terzi, di cataclismi e il diavolo solo sa di cos’altro.
Allora le domande sono due.
Perché la vita è così poco auspicabile per chi non l’ha provata empiricamente?
E perché l’uomo provandola, finché rimane tale, desidera mantenerla?
Per quanto riguarda la prima domanda mi sento di rispondere dicendo che quello che si propone al “non-ancora” uomo è scegliere il nulla piuttosto che un caotico pentolone di casistica senza fine né sicurezza alcuna, dal quale potresti uscir vincitore, se soltanto scopo ci fosse. Scegliere la vita è la più insensata delle scelte che si possa fare, ammesso che ci trovassimo nell’assurda situazione di questo essere o meglio: non-essere.
In secondo luogo bisogna dire però che sono altrettanto valide le argomentazioni di chi vivendo auspica di perseguire tale corso, e la distinzione da applicare su questo punto è molto importante.
Ci sono gli istinti tipici del vivente, chiunque esso sia qualunque sia il suo numero di zampe, gambe o neuroni, se egli ha vissuto 30 anni, 15 anni oppure pochi secondi, il vivente si aggrappa alla vita senza raziocinio in preda ad un terrore primordiale.
Tali schemi si complicano ed intrecciano nella mente umana (come, chi sa, forse anche in altre) provocando anche il senso di possesso, cioè difendere la propria vita come se fosse una poltrona in parlamento, esplicando ancora meglio il concetto dico: il non voler abbandonare uno status che ottimale o no regala dei benefits.
E così in questo modo sono uscito dalla porta della prima argomentazione e sono entrato dalla finestra per la seconda.
L’uomo non vuole vivere, ci è affezionato, come ci si affeziona al proprio cane, no…come ci si affeziona alla propria madre, no ma che dico…come ci si affeziona al ragazzino di 10 anni che abita l’appartamento sopra il tuo e che ha deciso che entro tre anni deve suonare il piano come Beethoven.
Tralasciando che non ci riuscirà, ma anzi sarà più utile per la tua cultura personale per comprendere il concetto di “caos”, se tale bambino dovesse traslocare, il nostro affezionabile cervello sentirebbe la mancanza di tale vessazione. Precisiamo però che noi tutti registriamo il film della nostra vita con una telecamera personalmente composta che filtra attraverso concetti interpretativi assolutamente oltre che erroneamente accettati e che tutto ciò oltre a renderci essenzialmente fallaci nella lettura della realtà fa anche in modo che fra di noi non ci sia comunanza di tale lettura. Tutto ciò per dire cosa? Che le motivazioni che ognuno si sente di addurre per giustificare la vita sono tutte diverse e tanto interessanti quanto sbagliate, ma di fondo tutte si basano sul concetto che noi epicizziamo la realtà delle cose a seconda del nostro palato per così autoconvincerci che abbiamo bisogno di vivere. Insomma è una sorta di droga; alcuni dicono droga di piacere, altri di sadismo e altri ancora dicono qualcos’altro di cui non ci interessa parlare.
Detto ciò ci tengo ad aggiungere solo una cosa in tutta sincerità: che io non vorrei mai rinunciare a questa stupenda presa in giro.