Mietitura
Cade una spiga,
poi un’altra, un’altra ancora:
biondo crine della terra,
capelli di pane che piovono;
qualche chicco cade al suolo,
cerealicole lentiggini.
La tua è una danza,
ragazzo sfinito dall’opera,
sorridente e sudato,
con la falce sollevata,
quel metallico velo che libera i campi
del granoso pesar di fine estate.
Anch’io vorrei mietere il mio raccolto,
di passione, di baci, di morsi,
tra le spighe superstiti che ondeggiano,
che, ridendo, ci guardano ammiccanti.
La tua acerba energia
sulla mia pelle notturna
ha lo stesso calore dei falò d’estate,
mentre il tramonto lascia il posto al vespero,
mentre in me primavera si fa estate,
mentre ottobre ci viene ormai incontro.
Canzone di Didone
L’argenteo chiar di luna
la notte definisce
e, sotto il nero cielo di Cartagine,
fantasmi e ruine aduna
di un tempo che sbiadisce,
quando era di potenza fiera immagine.
Dall’immane voragine
di ciò che fu io sento
le grida spaventate
delle ancelle ingannate,
mentre si perde, cenere nel vento,
Didone, sì sconvolta,
che fredda giace dalle fiamme avvolta.
Regina del dolore,
fu sollievo la morte?
Per chi fu il tuo ultimo mortal pensiero,
mentre con gran rancore
si compia la tua sorte?
Corse all’amato, giovane straniero?
L’iliaco menzognero?
Alla fuga da Tiro?
All’amoroso speco
ove Enea giacque teco?
L’abbandono e la spada ti finîro:
presa da mortal ira,
pagasti amore sulla sacra pira.
Tutto si estingue nel lunar silenzio
che ne serba memoria.
L’amor e il dolor scrivono la storia.
Nostalgia
Camminiamo sulle impronte
che altri prima di noi hanno lasciato,
non c’è nulla a questo mondo che il cielo
non abbia già visto un centinaio di volte:
nessun amore proibito è davvero il primo,
nessun addio, nessuna lacrima, nessun dolore.
In ogni madre che stringe tra le sue braccia il figlio
si specchiano madri e figli che si stringono,
rimasti nei secoli trascorsi.
Ogni bacio, timido, appassionato, rubato che sia,
è il riflesso imperfetto di milioni di baci passati!
Si ricorda “la storia”, ma l’attimo,
l’eterno istante che rende umani,
è sempre destinato all’oblio e alla morte,
perché l’uomo, orgoglioso,
si crede l’unico che lo vive davvero.
Quante lacrime di gioia o miseria
ancora scorrono nei fiumi che nutrono la terra?
Quanti sospiri nel gelido vento
che colpisce il nostro viso a fine novembre?
E noi non ricordiamo che sono un prestito.
Sonetto imperfetto per un addio
È facile lasciarci nella notte,
andare senza far alcun rumore,
sotto la falce di Luna che dorme
quando già consumato è il caldo amore.
L’addio non è fatto per il giorno
col suo solare e fulgente calore:
è figlio delle tenebre che ascondono
labbra recise e vibranti d’ardore.
Il nostro addio è appena uno fra tanti:
la tragedia è che passi inosservato
nell’incerta distanza che ci attende.
Mai potremo esser certi oltre ogni dubbio
di ritrovarci nell’abbraccio amato:
mistero della probabilità.
Sogno notturno
Non pronunciare il mio nome,
lascia che il mondo dimentichi il suo suono.
Non fermare i tuoi occhi sul mio viso,
lascia che il mondo dimentichi le mie fattezze.
Non accarezzarmi come allora,
quando mi bruciavi la pelle coi baci,
perché in questa estate non passata
io ci trovo l’inverno.
Nella notte ci siamo presi
e nella notte ci siamo persi!
La luce del giorno è fatta
per dissacrare i sogni notturni!
Trascorso sei con tutto il resto,
perduto come la mia fede nell’amore,
quando credevo che avrei cambiato il mondo!
Niente cambia, ma ciò che è
non sarà ciò che è stato.
Ultimo viaggio di Ulisse
Senza nome ritorno
al lido che lasciai:
le verdi chiome che all’addïo il vento,
mentre sonava il corno,
scosse per me che andai
oggi ancora per me nel cielo spento
Zeffiro smuove lento
e quest’uomo saluta,
credendolo lo stesso.
Ma io m’avvedo adesso
che nell’immoto mondo l’uomo muta:
non se’ eccezione, Ulisse,
pel vasto errare che Nettuno inflisse.
Sulla petrosa terra
esausto mi trascino,
eppure già, Itaca, non m’appartieni:
sei di Ulisse che in guerra
incontrò il suo destino
e il ricordo perdé dei dì sereni
nei tuoi giardini ameni.
A questo nome, invero,
più non risponde alcuno,
ché diventò Nessuno
l’astuto e multiforme condottiero
che il fiore dei suoi anni
sacrificò all’oceano e i suoi compagni.
Parte ad Eea, parte a Ogigia,
parte nell’antro orrendo
ristà e ode le proprie urla nelle altrui:
di me restan vestigia
ovunque ïo, morendo
dentro, perdendo me e gli amici fui,
eppur chi sia costui
che ragiona non so!
Il vecchio? Lo stratega?
Risposta il cor mi nega,
ché più non sa se vero fu chi amò
e non sogno terribile
del suo io frammentato e inconoscibile!
Addio, Telemaco, orfano del padre,
e tu, scorda l’amore,
Penelope, di chi ti rese madre!
Oh Itaca, parto ancora e con dolore
sulle tue onde leggiadre;
cambiò Ulisse: mai morte fu peggiore.
Stagione d’oro
L’oro ha dipinto sentieri nuovi
nella consueta foresta di cemento:
le strade solite erano e restano spoglie,
i viali alberati si svestono del verde estivo,
inosservato come tutti gli anni.
Il porpora, l’arancio, l’oro e il terra bruciata
trasformano quel poco che resta di terra,
tentano di dipingere una natura superstite
con i colori caldi della morte.
Qualche passante alzerà lo sguardo
e coglierà, in una foglia disidratata,
l’ombra della primavera consumata…
Come potrà la sua mente non tornare al passato?
Potrà forse resistere al richiamo della memoria?
È così che ogni foglia di rame
diventa una parola d’addio.
Morte di Patroclo
Terminata è la guerra
per oggi e tornar vedo
Ulisse e Aiace e gli stremati elleni.
Ratta, in gola m’afferra
l’ansia, perché non credo
d’aver visto il più grande dei miei beni
e terrori terreni
il mio cuore divino
rapiscono ed oscurano:
non vedo l’armatura
che ti ho donato, Patroclo, al mattino!
Poi ti vedo portare:
chiusi i begli occhi! Mi sento tremare.
Ancor bambino siedi
solo e triste in un angolo
ti guardo e mi sorridi e abbassi gli occhi;
ma ora non mi vedi
ed ïo grido e piango!
Vorrei sentirci rider come sciocchi
ancora, mentre tocchi
con le tue calde mani
i miei capelli biondi!
Oh Patroclo! Rispondi!
Con te morte e dolor parean lontani!
Amara è sofferenza:
più ti stringo, più sento la tua assenza!
Accarezzo la lira,
sono ancora ragazzo,
mi guardi e ti sorrido e ti do un bacio,
ma ora fremo d’ira
e il dolor mi fa pazzo
mentre le tue fredde labbra bacio.
Ti poso lento, adagio:
torno al buio presente.
Non più mi tirerai
a te: non tornerai.
Ripeto: “Patroclo!” e non cambia niente.
Cresciuto nel tuo amore,
ora mi restan la rabbia e il rancore!
Proprio ora parto, ché Ettore mi aspetta.
Conosce la sua sorte:
sarò Caronte per lui e vendetta!
Lascerò poi che alla mia vita il forte
Apollo fine metta
e ci riabbracceremo nella morte!
Alle tue le mie ceneri uniranno:
lacrime del mio corpo
che su di te in silenzio pioveranno.
Sonno
Affondo in te,
terra bagnata di pioggia,
impasto informe
delle orme dei morti…
Questo sentore di fango!
Lo avverto le notti,
quando il corpo respira quieto
e l’animale multiforme sotto la pelle
cerca l’uscita dalla tana del raziocinio,
per gridare alla luna
come era solito
quando non conosceva parole.
Il vento della tempesta canta
con l’ancestrale voce, disumana,
e m’afferrano, trascinandomi
giù per le cortecce,
le mani delle epoche!
In un eterno istante cado
nella primordiale essenza,
dove non esistono occhi.
E mi sveglio
urlando.
Apollo, io so perché
Apollo, io so perché
volentieri presti le tue parole
al mio canto di carta:
il desiderio insoddisfatto
resta nel nostro sangue giovane –
divino il tuo, il mio mortale –
come l’ebbrezza della festa
resta muta nell’aria estiva
quando il temporale improvviso
sbianca i visi degli invitati
caldi di alcool e bramosia!
Da lontano viene Zefiro
fischiando, rosso in volto,
mentre da dove il sole tramonta
sorge la nuova primavera!
La ridda degli amanti
balla guidata dalla passione:
i muscoli tesi, le bianche gole
ornate di giovane, bionda peluria,
danzano nell’aria gialla di polline.
Dov’è, oh dio, il tuo Giacinto?
Lo distingui senz’altro, in testa
al sinuoso corteo che trepida!
Zefiro coglie con i denti di mandorlo
le sue rosse labbra di ciliegio!
Che sapore, Apollo, che sapore
ha l’amore quando è verde!
Eros sarà pure il suo nume,
ma epidermidi intrecciate,
mani, schiene, scapole,
una somatomachia di marmo,
ombre di corpi che s’inarcano:
questo ci regala il vino di Flora!
Che sia con Zefiro,
che sia con Ade,
il ragazzo è andato.
A te resta il fuoco indomabile
dei giovani uomini!
Anche il mio Giacinto
mi bruciò nelle notti d’inverno:
la nuova primavera l’ha portato via.
Lui, una rondine bugiarda
che torna al nido lontano.