Michele Palmiotta - Poesie

Mietitura

 

Cade una spiga,

poi un’altra, un’altra ancora:

biondo crine della terra,

capelli di pane che piovono;

qualche chicco cade al suolo,

cerealicole lentiggini.

La tua è una danza,

ragazzo sfinito dall’opera,

sorridente e sudato,

con la falce sollevata,

quel metallico velo che libera i campi

del granoso pesar di fine estate.

Anch’io vorrei mietere il mio raccolto,

di passione, di baci, di morsi,

tra le spighe superstiti che ondeggiano,

che, ridendo, ci guardano ammiccanti.

La tua acerba energia

sulla mia pelle notturna

ha lo stesso calore dei falò d’estate,

mentre il tramonto lascia il posto al vespero,

mentre in me primavera si fa estate,

mentre ottobre ci viene ormai incontro.


 

Canzone di Didone

 

L’argenteo chiar di luna

la notte definisce

e, sotto il nero cielo di Cartagine,

fantasmi e ruine aduna

di un tempo che sbiadisce,

quando era di potenza fiera immagine.

Dall’immane voragine

di ciò che fu io sento

le grida spaventate

delle ancelle ingannate,

mentre si perde, cenere nel vento,

Didone, sì sconvolta,

che fredda giace dalle fiamme avvolta.

 

Regina del dolore,

fu sollievo la morte?

Per chi fu il tuo ultimo mortal pensiero,

mentre con gran rancore

si compia la tua sorte?

Corse all’amato, giovane straniero?

L’iliaco menzognero?

Alla fuga da Tiro?

All’amoroso speco

ove Enea giacque teco?

L’abbandono e la spada ti finîro:

presa da mortal ira,

pagasti amore sulla sacra pira.

 

Tutto si estingue nel lunar silenzio

che ne serba memoria.

L’amor e il dolor scrivono la storia.


 

Nostalgia

 

Camminiamo sulle impronte

che altri prima di noi hanno lasciato,

non c’è nulla a questo mondo che il cielo

non abbia già visto un centinaio di volte:

nessun amore proibito è davvero il primo,

nessun addio, nessuna lacrima, nessun dolore.

 

In ogni madre che stringe tra le sue braccia il figlio

si specchiano madri e figli che si stringono,

rimasti nei secoli trascorsi.

Ogni bacio, timido, appassionato, rubato che sia,

è il riflesso imperfetto di milioni di baci passati!

 

Si ricorda “la storia”, ma l’attimo,

l’eterno istante che rende umani,

è sempre destinato all’oblio e alla morte,

perché l’uomo, orgoglioso,

si crede l’unico che lo vive davvero.

 

Quante lacrime di gioia o miseria

ancora scorrono nei fiumi che nutrono la terra?

Quanti sospiri nel gelido vento

che colpisce il nostro viso a fine novembre?

E noi non ricordiamo che sono un prestito.


 

Sonetto imperfetto per un addio

 

È facile lasciarci nella notte,

andare senza far alcun rumore,

sotto la falce di Luna che dorme

quando già consumato è il caldo amore.

 

L’addio non è fatto per il giorno

col suo solare e fulgente calore:

è figlio delle tenebre che ascondono

labbra recise e vibranti d’ardore.

 

Il nostro addio è appena uno fra tanti:

la tragedia è che passi inosservato

nell’incerta distanza che ci attende.

 

Mai potremo esser certi oltre ogni dubbio

di ritrovarci nell’abbraccio amato:

mistero della probabilità.


 

Sogno notturno

 

Non pronunciare il mio nome,

lascia che il mondo dimentichi il suo suono.

Non fermare i tuoi occhi sul mio viso,

lascia che il mondo dimentichi le mie fattezze.

Non accarezzarmi come allora,

quando mi bruciavi la pelle coi baci,

perché in questa estate non passata

io ci trovo l’inverno.

 

Nella notte ci siamo presi

e nella notte ci siamo persi!

La luce del giorno è fatta

per dissacrare i sogni notturni!

Trascorso sei con tutto il resto,

perduto come la mia fede nell’amore,

quando credevo che avrei cambiato il mondo!

 

Niente cambia, ma ciò che è

non sarà ciò che è stato.


 

Ultimo viaggio di Ulisse

 

Senza nome ritorno

al lido che lasciai:

le verdi chiome che all’addïo il vento,

mentre sonava il corno,

scosse per me che andai

oggi ancora per me nel cielo spento

Zeffiro smuove lento

e quest’uomo saluta,

credendolo lo stesso.

Ma io m’avvedo adesso

che nell’immoto mondo l’uomo muta:

non se’ eccezione, Ulisse,

pel vasto errare che Nettuno inflisse.

 

Sulla petrosa terra

esausto mi trascino,

eppure già, Itaca, non m’appartieni:

sei di Ulisse che in guerra

incontrò il suo destino

e il ricordo perdé dei dì sereni

nei tuoi giardini ameni.

A questo nome, invero,

più non risponde alcuno,

ché diventò Nessuno

l’astuto e multiforme condottiero

che il fiore dei suoi anni

sacrificò all’oceano e i suoi compagni.

 

Parte ad Eea, parte a Ogigia,

parte nell’antro orrendo

ristà e ode le proprie urla nelle altrui:

di me restan vestigia

ovunque ïo, morendo

dentro, perdendo me e gli amici fui,

eppur chi sia costui

che ragiona non so!

Il vecchio? Lo stratega?

Risposta il cor mi nega,

ché più non sa se vero fu chi amò

e non sogno terribile

del suo io frammentato e inconoscibile!

 

Addio, Telemaco, orfano del padre,

e tu, scorda l’amore,

Penelope, di chi ti rese madre!

Oh Itaca, parto ancora e con dolore

sulle tue onde leggiadre;

cambiò Ulisse: mai morte fu peggiore.


 

Stagione d’oro

 

L’oro ha dipinto sentieri nuovi

nella consueta foresta di cemento:

le strade solite erano e restano spoglie,

i viali alberati si svestono del verde estivo,

inosservato come tutti gli anni.

 

Il porpora, l’arancio, l’oro e il terra bruciata

trasformano quel poco che resta di terra,

tentano di dipingere una natura superstite

con i colori caldi della morte.

 

Qualche passante alzerà lo sguardo

e coglierà, in una foglia disidratata,

l’ombra della primavera consumata…

Come potrà la sua mente non tornare al passato?

Potrà forse resistere al richiamo della memoria?

È così che ogni foglia di rame

diventa una parola d’addio.



Morte di Patroclo

 

Terminata è la guerra

per oggi e tornar vedo

Ulisse e Aiace e gli stremati elleni.

Ratta, in gola m’afferra

l’ansia, perché non credo

d’aver visto il più grande dei miei beni

e terrori terreni

il mio cuore divino

rapiscono ed oscurano:

non vedo l’armatura

che ti ho donato, Patroclo, al mattino!

Poi ti vedo portare:

chiusi i begli occhi! Mi sento tremare.

 

Ancor bambino siedi

solo e triste in un angolo

ti guardo e mi sorridi e abbassi gli occhi;

ma ora non mi vedi

ed ïo grido e piango!

Vorrei sentirci rider come sciocchi

ancora, mentre tocchi

con le tue calde mani

i miei capelli biondi!

Oh Patroclo! Rispondi!

Con te morte e dolor parean lontani!

Amara è sofferenza:

più ti stringo, più sento la tua assenza!

 

Accarezzo la lira,

sono ancora ragazzo,

mi guardi e ti sorrido e ti do un bacio,

ma ora fremo d’ira

e il dolor mi fa pazzo

mentre le tue fredde labbra bacio.

Ti poso lento, adagio:

torno al buio presente.

Non più mi tirerai

a te: non tornerai.

Ripeto: “Patroclo!” e non cambia niente.

Cresciuto nel tuo amore,

ora mi restan la rabbia e il rancore!

 

Proprio ora parto, ché Ettore mi aspetta.

Conosce la sua sorte:

sarò Caronte per lui e vendetta!

 

Lascerò poi che alla mia vita il forte

Apollo fine metta

e ci riabbracceremo nella morte!

 

Alle tue le mie ceneri uniranno:

lacrime del mio corpo

che su di te in silenzio pioveranno.


 

Sonno

 

Affondo in te,

terra bagnata di pioggia,

impasto informe

delle orme dei morti…

Questo sentore di fango!

Lo avverto le notti,

quando il corpo respira quieto

e l’animale multiforme sotto la pelle

cerca l’uscita dalla tana del raziocinio,

per gridare alla luna

come era solito

quando non conosceva parole.

 

Il vento della tempesta canta

con l’ancestrale voce, disumana,

e m’afferrano, trascinandomi

giù per le cortecce,

le mani delle epoche!

In un eterno istante cado

nella primordiale essenza,

dove non esistono occhi.

E mi sveglio

urlando.


 

Apollo, io so perché

 

Apollo, io so perché

volentieri presti le tue parole

al mio canto di carta:

il desiderio insoddisfatto

resta nel nostro sangue giovane –

divino il tuo, il mio mortale –

come l’ebbrezza della festa

resta muta nell’aria estiva

quando il temporale improvviso

sbianca i visi degli invitati

caldi di alcool e bramosia!

 

Da lontano viene Zefiro

fischiando, rosso in volto,

mentre da dove il sole tramonta

sorge la nuova primavera!

La ridda degli amanti

balla guidata dalla passione:

i muscoli tesi, le bianche gole

ornate di giovane, bionda peluria,

danzano nell’aria gialla di polline.

 

Dov’è, oh dio, il tuo Giacinto?

Lo distingui senz’altro, in testa

al sinuoso corteo che trepida!

Zefiro coglie con i denti di mandorlo

le sue rosse labbra di ciliegio!

Che sapore, Apollo, che sapore

ha l’amore quando è verde!

 

Eros sarà pure il suo nume,

ma epidermidi intrecciate,

mani, schiene, scapole,

una somatomachia di marmo,

ombre di corpi che s’inarcano:

questo ci regala il vino di Flora!

 

Che sia con Zefiro,

che sia con Ade,

il ragazzo è andato.

A te resta il fuoco indomabile

dei giovani uomini!

 

Anche il mio Giacinto

mi bruciò nelle notti d’inverno:

la nuova primavera l’ha portato via.

Lui, una rondine bugiarda

che torna al nido lontano.