Riflessioni di una mela marcia
È brutto convivere con una persona che odi dal profondo del tuo cuore, che non ti ascolta e anche quando lo fa, non cambia nulla. Come fare ad allontanare che anche se picchi a sangue non va via?! Da dove cazzo viene questa assurda ed insensata devozione?! Avvolte succede che mi sento giù, talmente giù che potrei definirmi depresso. Tuttavia ho paura di chiamarla banalmente “depressione”; mi sono sempre chiesto cosa sia quella condizione, ed ora che guardo da questo baratro, ho paura. Non voglio che sia quella “cosa”, perché poi come potrei nasconderla?! Poi dovrei, addirittura, affrontarla?! Se uscisse e mi divorasse, se dopo avermi digerito…NO! Meglio non pensarci. e se anche ci pensassi, cosa cambierebbe? Dovrei pensare a come risolvere questa condizione, non ad essa in quanto tale. Come quando hai un vestito macchiato, mica ci esci. Lo cambi, e quello sporco, lo lavi, insomma risolvi il problema. Dovrei risolvere anche io il mio. Ma poi?! Quando avrò risolto il problema, avrò anche risolto me? Mi sento come una mensola fissata ad un muro sgretolato e farinoso, con una vite che gira all’infinito senza bloccarsi mai. Un po’ come quando bevi da star male, e la testa gira, gira, non smette di girare. Ecco una mensola così non reggerebbe nulla. Ti fideresti a metterci un vaso di cristallo? C***o no! Ed io così mi sento. Una mensola inutile su cui non puoi posar nulla. Dio. Vorrei essere un macigno inamovibile. Far fronte a tutto. Invece sono un impasto con le dosi sbagliate che si sforma e sgretola sotto gli occhi rossi e luccicanti di vergogna di un’apprendista. Sono una sedia piena di tarli che imploderebbe su sé stessa alla minima variazione di peso. Sono un vestito di un balletto indossato da un ottuagenario con problemi all’anca e una parziale paresi facciale. In realtà dovrei comportarmi come quando il gatto ti c**a nella lettiera, non sotterra, magari ha mangiato qualcosa che gli ha fatto male, e l’odore appesta casa talmente tanto da renderla nauseabonda. Non puoi lasciare che quella situazione si sistemi da sola. Così la pulisci. Ecco, io ho chi “mi ripulisce dalla m***a” ma non riesco a fargli capire quanto è importante per me. Così la faccio star male. Così sto male. Così quel mostro torna a prendersi un altro pezzo di me. Così questo puzzle sta diventando troppo incompleto. Tra non molto, temo, che non ne riconoscerò più il tema.
Uno spicchio d’arancia frizzante
Salto, salto, salto ancora. Salto così forte che trema questo pavimento degli anni ‘50 di un palazzo che accompagna ogni centrifuga della lavatrice, come se non volesse che si agitasse da sola, come a dargli conforto. Potrebbe crollare tanto è malandato, così malandato che, se saltassi solo un po’ più forte, andrebbe giù all’istante. Infatti salto, ma non abbastanza, evidentemente. Questa mia necessità di sfogare la frustrazione dando calci alle cose è uscita da i binari, deraglia, e, forse, ho esagerato. Si perché ho colpito, nel pieno della collera, lo spigolo di questo odioso settimino acquistato al mercatino dell’usato, settimino che non volevo davvero, ma il prezzo modico mi convinse. Tuttavia questo me lo fece odiare maggiormente. Ora però quel dito è gonfio. Per questo per muovermi sono costretta a saltare. Su di un solo piede, salto. L’altro fa troppo male. Sbuffo. Trattengo le lacrime, per il dolore, fisico e mentale. Temo l’esaurimento. Per l’ennesima volta mi hanno licenziata. Troppo poco lavoro. Questo dice l’azienda. Così non potrò pagare le bollette, comprare da mangiare. Non potrò neanche andare a fare l’aperitivo per lamentarmi del fatto che non ho un lavoro, dato che senza lavoro e, quindi, senza soldi non posso partecipare all’happy hour; che è il nuovo salone dei letterati che, però, invece di aprire discussioni su delle opere, si lamentano delle “things” che non cambiano, non si alzano da quella sedia però. Sedia che diventa umida e fredda quando arriva un certo orario. Ma tu hai pagato per quella bevanda e, quindi, vuoi usufruire di quella sedia fino a sentir intirizzite le dita dei piedi infilati in una scarpa, scarpa che nasconde quel buco dei calzini, proprio sul pollice. Perché il calice di bianco è LEGGE. Ma il calzino, fino a che non lo si vede, va bene anche con il buco. Quel buco che rappresenta la noncuranza delle vere necessità che abbiamo. Io non ho problemi a non pagar le tasse, se poi non ho lavoro. Eh! Ho problemi a non aver il telefono nuovo, a non poter fare l’uscita il sabato sera prima di cena. Fai delle priorità ciò che vuoi essere.
Ed una volta svuotato quel calice, cosa resta?
La gocciolina, che per quanto la si agiti non riuscirà mai a cadere dal bordo del bicchiere. Tensione superficiale. La stessa che mi tiene attaccata a questa società che mi ha grattato da dentro, e dopo averlo fatto vi ha inserito i prodotti e le abitudini che voleva. Questo perché così che io possa sentirmi parte di questo mondo. Sentirmi bella. Per le foto, per la movida. Per farmi sentire la goccia che resta attaccata al bicchiere, bicchiere che viene riempito nuovamente, cambiando così amicizie e luoghi. Ci si sposta di tavolo in tavolo come di città in città. Lei in cerca di una gola da dissetare, io in cerca di un lavoro che mi faccia sentir parte di questo gigantesco bicchiere che è la vita.
Ma la condizione cambierebbe se quel dito fosse rotto?
Se fosse rotto, davvero rotto, dovrei andare all’ospedale per farmi medicare. Dovrei fare dei controlli. Quindi non potrei cercare lavoro. Si, potrei inviare curriculum, ma specificando che per un mesetto non potrò muovermi. E in quel mese chi manterrà vivo questo dito che dovrà essere medicato?! Se avessi messo da parte qualcosa, avrei qualcosa per andare avanti fino alla fine delle cure. Fino a che non venga a prendermi per braccio un nuovo lavoro. Ma non ho nulla, già, nulla. Perché? Perché il mio telefono, preso a rate che devo ancora finire di pagare, doveva essere il compagno di una borsetta che non potevo certo permettermi. Dove, ovviamente, non entra null’altro che il telefono. Se la vendessi potrei pagarmi un mese di bollette e cibo. Magari potrei dire al proprietario di casa che ho perso il lavoro e, magari, potrebbe graziarmi un mese.
Questo bicchiere che è la vita, però, mi sta mettendo a disagio. Sento una forte pressione nel petto. Sento il respiro che va sempre più veloce. Sento che non sarò mai adatta a questa vita. Una vita con delle aspettative troppo alte, e questo mi schiaccia come la pressione nelle profondità degli abissi. Io sto sprofondando negli abissi di questa vita. Sento che respiro tanta aria quanta ne entrerebbe dentro una tazzina di caffè. Non sta bastando. Sto andando in astinenza da aria. Si, da aria di vita. Mi sto convincendo che questo mio voler star con tutti, ma restar sempre sola, sia solo una mia responsabilità. Ecco che torna la pressione insostenibile. Mi rannicchio in un angolo della casa fredda. Un angolo freddo. Una casa che vista da questa prospettiva sembra colossale, e io un insettino che si è perso. Si mi sento persa. Ricominciare questa routine, uscire e fare amicizie, ancora, ancora, ancora, ancora, e ancora. Fino allo sfinimento, fino alla fine. Fino a che non realizzerò che non sono la goccia nel bicchiere della società. Sono la bottiglia che lo riempie e la società è lo scaffale pieno di bottiglie. Noi abbiamo il compito di riempire le vuote giornate. Sono un orso in un circo che agita le palline al cielo per intrattenere. Ma chi? E perché? Non so rispondere. Non vivo davvero per me. Intrattengo. Poi torno a casa e piango. Ed ora forse, se questo dito è rotto, se non potrò andare all’ospedale, se non potrò magiare per un mese, se il dito andasse in cancrena per un’infezione e se morirò, mi troveranno solo per l’odore. Perché di bottiglie ne è pieno lo scaffale, e perché di orsi con le palline se ne trovano sempre di nuovi. E che magari non perdono il lavoro.
Fari
Ricordo che stavo girando per la città, spoglia di gente, tardi, le dieci forse? O più tardi. Quando in quella stagione non esistono altri colori, se non il nero, già alle 17. Non avevo né dove andare a dormire, né un soldo per pagarmi un ostello, quei giorni stavo vivendo per strada. Dopo aver perso tutto, la dignità neanche volle più farmi compagnia, e quando hai poco più di venti anni, non è facile accettare la situazione. Poi vidi la luce, luce infondo al tunnel direte voi. No. Luci di una city car di seconda mano con un fanale solo. Infondo alla via. Si fermò proprio di fianco a me. Riconobbi subito quel naso e quegli occhi. Quel colore di capelli e quella smorfia curiosa che portava sempre con sé. Non saprei neanche dire se fosse esattamente una smorfia, era più un tic che aveva, ma molto delicato e personalmente, lo gradivo molto. Il freddo mi stava entrando nelle ossa come un cane che scava per ritrovare il suo osso perduto. Graffiante, un freddo che tagliava le ossa e spaccava la pelle. Ma quando la vidi, un tepore mi avvolse, una visione mariana, ero una casa scaldata da un caminetto a legna. Mi chiese cosa ci facessi li. Mi chiese dove andassi. Mi chiese come mai. Non le parlavo da secoli, non le parlavo da anni, non la sognavo da giorni. Cosa avrei dovuto rispondere?! Non risposi e basta. Nessuna parola avrebbe inciso questo tempo di marmo spessissimo che si parava tra noi. Nonostante il silenzio, che avresti udito solo in una chiesa vuota, mi propose di andare da lei; il tempo era brutto e sarebbe sicuramente peggiorato. Chi ero io per contraddire questa cassandra dalle previsioni tanto favorevoli per me?! Salii in macchina con lei, ricordo ancora che l’imbarazzo si scongelò insieme alle mie caviglie, e tuto grazie all’aria calda che usciva dalla vettura di lei. Arrivati a casa mi chiese di fare assoluto silenzio, viveva ancora con i suoi e non voleva di certo svegliarli, forse contava di farmi riposare un po’ ed una volta giunto il sole in prossimità dell’orario più consono, mi avrebbe mandato via. Mi diede una maglia per cambiarmi e mi indicò il bagno per lavarmi. Tornai dopo essermi fatto medicare la pelle gelida dall’acqua tiepida, si tiepida, poiché se troppo calda mi sarei ustionato data la mia poca sensibilità. Se vi state chiedendo per quale motivo vi dico questo, esperienza. Lei mi attendeva in un pigiama pantaloni e maglietta di un pudico disarmante. Capelli legati in una coda di cavallo lunga abbastanza da arrivare alle scapole. Spoglia di orecchini, anelli, collane, bracciali. Solo lei nella sua realtà più totale. Ed io, nella mia vergogna e devozione non riuscivo ad alzare troppo lo sguardo. Sapevo già che quel debito non sarei riuscito a ripagarlo. Trattenevo le lacrime. Ci stavo riuscendo? Non credo. Si sdraiò a letto e io mi misi di fianco a lei, alzò poi le lenzuola lasciandomi intendere di poter entrare. L’istinto mi portò ad abbracciarla. Lei non protestò. Forse quel calore da contatto era necessario ad entrambi ma entrambi non l’avremmo ammesso. In realtà io credo che lei lo sapesse, lei era convinta che io non sapessi nulla. Nessuno conosceva la realtà tuttavia. Gli dissi che se solo mi avesse dato una possibilità, gli avrei mostrato che persona sono davvero. Non disse nulla. Non mi guardava neanche. Mi dava solo le spalle. Ed io la stringevo di più. Gli dissi che avrei fatto di tutto. Non disse nulla. Non mi guardava neanche. Mi dava solo le spalle. Ed io la stringevo di più. Quella notte guardammo insieme l’alba intrufolarsi nella sua stanza da quella fessura tra le persiane. Come fosse un ladro, silenziosa e delicata, accorta a non farsi notare da nessuno. Entrava e rubava quella notte che fino a quel momento era il gioiello più pregiato del mondo.
Poi sentimmo un rumore. Ci alzammo di scatto. Lei non credeva che già il sonno si fosse levato dai genitori. Ed eccoli, stagliarsi davanti la porta. La madre che mi guardava fissa, fissa, come se avesse visto un violento incidente stradale. Il padre. Il padre non mi guardava, ma dal fuoco che lo circondava capii. Provai ad aprire bocca per dire qualcosa. Le parole erano polvere portata via dal vento. Non sarebbero mai rimaste impresse nella mente di nessuno. Il creatore dell’unica luce di quella casa intrisa di nero ebano mi disse che sarei dovuto andar via. Prima, molto prima che la lancetta dei secondi completi un giro. Non so perché, forse dato che ormai avevo perso quel momento di piacere e quel tepore, ora che tutto tornò artico, chiesi un caffè. Volevo solo avere una bevanda calda che mi accompagni fuori. Ebbi una fetta biscottata e un calcio per indicarmi l’uscio della porta.
Ricordo, con una dose di tristezza amara, come lei smise di parlare, di guardare; come lei smise di vivere. Una persona tanto bella eclissata da quella montagna che minacciava una frana che avrebbe devastato il territorio sotto di essa, quel territorio con quel bel fiore. Minacciato ogni giorno. Non seppi più nulla di lei, né della punizione che sicuramente dovette subire. Ho solo pregato, da quel giorno con più forza, che trovasse qualcuno che la protegga e la faccia diventar forte e gli dia la possibilità di estirpare quell’erbaccia, che di certo, la soffoca. Non ho mai visto, come in quel giorno, una tanto bella opera d’arte, nata nonostante la situazione poco favorevole, essere coperta al grande pubblico. Perché siamo ancora nel medio evo? Perché l’evoluzione emozionale delle persone non va di pari passo con quella della tecnologia? Un giorno, quando il suo sguardo incrocerà ancora il mio, si ricorderà di quando gli dissi che avevo bisogno di una possibilità, di quella sera abbracciati insieme e di quell’alba. Se lei, quel giorno, non abbasserà lo sguardo ma anzi lo sosterrà con un sorriso, saprò che quella mia preghiera fu ascoltata. Saprò che ora è sazia del sapore del sole e dissetata dalla fresca rugiada. Saprò che quel fiore ha estirpato il male e ha dato vita ad una nuova galassia. Lì sarò felice. Chissà quel giorno quanto dista.
I cadaveri nel mare
non si seppelliscono
perché come i brutti ricordi
prima
o poi
tornano a galla
Se non fosse per te
sentirei che
il nulla esiste
e
fa decisamente male
Anche oggi
nei miei pensieri
anche oggi
come ieri
nel presente
della mente
nel presente
come sempre
Torna questo sogno
il tormento è grande
mi desto e comprendo
“scusa”
ora lasciati abbandonare
Ero piccolo io
eri piccolo tu
dovevo solo
darti di più
Devo esplodere
questo proiettile
per aprire
un mazzo di fiori
e donarlo a te
il piacere
Primavera
un uomo
un campo
l’inferno
la morte