Moise Tezisson - Poesie

Piazza  Vittorio  muore

 

Guarda Piazza Vittorio di sera mia cara
Il viso scialbo che di mattina raggrinzisce
è vivo, le guance scavate da infinite vie
Via Po abbagliata, e più in giù Piazza Castello. Ha centinaia di occhi, luminescenti
Per te sono i loro denti smaltati d’oro
Ma cosa importa, riluciono entrambi di fulgido bagliore. la Gran Madre ha il capo di lapislazzuli, il Po mormora al di sotto,
segui il mio dito, guarda i riflessi, sfumature dorate-argentee sull’ acqua.
Palpita la nostra città, udiamo il suo cuore
Ha una bocca larga, voi femmine siete le sue labbra, carnose e soffici, rosee o scarlatte, noi maschi siamo i baci, pesanti, voraci e assetati, guarda come si dischiude quella bocca di pietra e di case, di locali e di strade, affluiscono profumi e voci
La mia e la tua si perdono, tutte le voci si perdono, la sera deve finire. Piazza Vittorio deve sfiorire, muore ogni alba, quando la collina biancheggia. Morirà sempre all’aurora, e noi saremo già assieme, i nostri corpi congiunti sotto le coperte,
Troppo stanchi per assistere alla morte della nostra città


 

Monte dei Capuccini

 

Saliamo, scortati dal silenzio e dal pudore per qui giungere

Torbidi pensieri  mi avvicinano a te, i miei passi pesanti e l’anelito roco

Ove ho perso la voce, la stessa che ha orlato il tuo volto roseo con riso adamantino

E dove trovo la tua, la medesima che ha sconvolto il mio animo?

Siamo ora timidi quantunque  l’ardire di sussurrare voglie non abbiamo celato all’udito

I volti curvi sull’asfalto, o dritti verso il cielo sfumato non si bramano

Io attingevo dal tuo passione e tu dal mio amore

Gli occhi, foglie primaverili così  fulgide e fresche, stormivano

Mormoravano il mio nome, i miei, invero sferzavano, volevano le tue carezze

Ora tacciamo, spauriti da questo  preludio, siam giunti, le mani posate su pietra grigia

Dove sono le promesse non scritte, i baci e le tenerezze vantate?

Volgiamo lo  sguardo, ed entrambi veniamo chetati da Torino

La bella Torino che dissipa ogni umore  cattivo.


 

Torino soffre

 

Hanno freddo e fame quell’uomo e quella donna

Rifuggiamo i loro sguardi vuoti e il loro stato

Un solo tetto hanno che forse amano o forse odiano

Stan lì sotto i portici, o sul ciglio della strada,

Mira di scherno o di vile passione,

quando il gelo respira si china su di loro e spande il sul soffio sul loro corpo

Vittime di un male ignaro, si nascondono sotto coperte,

bevono il vino della speranza, deve essere amaro e stordente,

La moneta della rassegnazione tonfa nel loro barattolo, unico tintinnio che l’udito ode, così il cuore.

Domani ne morirà uno di stenti o assiderato, ne moriranno sempre

Domani una puttana verrà picchiata e nuovamente sfruttata,

Derisa e divorata dalle bocche di uomini che dilaniano la sua carne,

Domani ella tornerà a lavoro, l’anima oramai silente e remissiva,

Sorriderà e carezzare l’uomo che la umilierà,

Il suo padrone attenderà i soldi, le mani ancora raggrumate dal sangue di ella

Domani Torino griderà e piangerà tra i vicoli e nessuno la sentirà.


 

Torino mia bella

 

Un ombrello scorsi in Piazza Vittorio,

una pioggia torrenziale,

dieci, venti, cento persone che correvano,

Torino smorta, ammutolita dall’acqua,

il Po in festa, la Dora inebriata,

L’ombrello integerrimo, là bloccato,

spicchi rossi, un melograno autunnale,

rotea, danza, balla,

che ballerino provetto,

l’ombrello ringrazia,

rappresentazione prodigiosa,

oh, ma eccoli, i due amanti,

baci acquosi, labbra umide,

mano che trattiene l’ombrello furbone,

occhi che sembrano pesci,

sguazzano sotto la pioggia,

passa un bambino, piedi che pestano pozzanghere,

fiotti che volano a destra e a sinistra,

gli amanti non indietreggiano,

sono oramai in acque profonde,

nessuna urla, nessuna luce potrà disturbarli.

Naufraghi nelle profondità dell’amore.


 

Valerie

 

Corona di crisantemi sul tuo capo, lattiginosi petali che grondano gocce pallide sul tuo volto cereo, labbra esangui che sfioriscono, un tempo cremisi e ora opache. Le tue mani congiunte vorrei coglierle ma sono così fredde,

Ho remore di accostare la mia bocca alla tua,

Affiora dalla tua pelle, dal tuo silenzio il freddo

L’assenza di colore che circonfonde il tuo corpo

Le iridi bianche fulgono del pallore della fine

Gli occhi d’ebano ora sono ingrigiti, dove sono quei preziosi tesori?

Sei avvolta in quel sudario, tu che il calore non lo sfiori. Ora sarai la regina di Ade e io l’abbandonato su questa cupa landa.


 

Ridesto

 

Scompare la città, i suoi fumi e i suoi odori

Le vetrine opache irraggiate dal sole fulgido

I volti dei passanti quieti come il latte di papavero

Bevo i loro volti, l’anima imbevuta dei loro dolori e tormenti, tracanno il cuore addolcito dal miele versato dal fulgido astro del dì, vorticano i mille pensieri, obliati sui tetti adorni di foglie erranti, le increspature delle lenzuola sotto gli occhi miei affaticati, scosto gli occhi, volto vuoto e immenso, dove sono le case di zafferano dai tetti di lapislazzuli? I colori cangianti rifuggono, si innalza una collina, butterata di licheni e fiori selvatici, là, una lapide, il suo nome inciso.

Non ho bisogno di leggere, l’erba strimpella il suo nome, ogni destarsi del sole è là, la morte che mi rammenta quanto sia bella anche alla luce del sole.


 

 Mediterraneo e altro

 

Calais, Lesbo, Lampedusa,

Francia, Grecia, Italia,

terre magnifiche, vigneti marini,

vigneti mortali, i grappoli d’uva si staccano,

spremuti da mari e da uomini,

cola il sangue, la speranza è scartata, grumosa e nociva,

un buon vino da tavola, in quanti l’assaggiano,

sapore africano, sapore medio orientale, sapore di morte,

pervade lo stomaco, scalda il cuore, rossetto per dame,

il sangue è un cosmetico pregiato


 

La moda di un tempo

 

Sulla passerella sfilano corpi morti,

uno ha tagli sui polsi,

morto suicida, di disperazione e abbandono,

le vene sorridono, s’imporporano timide

un’altra ha la testa recisa a metà, c’est encroyable,

è la regina Maria Antonietta, in forma smagliante,

capelli bianchi e pelle pallida,

arriva Spartaco, umiliato da colpi postumi,

eretto e vittorioso, simbolo di ribalta e di emancipazione,

s’accoda Caio Giulio Cesare, tutto in porpora, una striscia scarlatta l’accompagna

i suoi acconciatori, Bruto, Catone, Cicerone gli corrono dietro,

Eccola, gli occhi impazziscono, è lei, la regina, la dea d’Egitto,

incantatrice di dei Romani,

Cleopatra, serpe avvinghiata al seno, sarà la moda dell’estate,

c’è pure Socrate, per chi vuol essere sobrio, un bel bicchiere di Cicuta e ogni male è calmato,

lo segue Seneca, sobrio non è, e dispiace a tutti,

c’è Oscar Wilde, un narciso sul cuore,

Muzio Scevola, uomo d’onore, sarà la moda d’inverno

Puniremo la mano che ha sbagliato, un po’ di calore per chi ha errato

Giungono, da ogni parte del globo, Annibale, Alessandro Magno, Carlo Magno, un altro Magno,

un Enrico VIII adorna il collo con le teste delle sue mogli, finché morte non vi separa dicono ahaha,

un altro Enrico arriva, ne arrivano a bizzeffe,

ma eccoli i Re di Francia, quanti Luigi, si è perso il conto,

Un sole è tramontato, un altro rotola per la passerella,

vergogna macchia tutto.

Un applauso allo stilista,

Catone, lui che di moda ne avrebbe fatto a meno.


 

Lucifero

 

Disteso sulla spiaggia di ceneri, l’angelo caduto inneva il terreno con le sue piume,

il mare che l’ha transitato è di lava e di fuoco,

il suo corpo e la sua fulgida armatura sono divenuti invulnerabili,

La chioma d’apollo, dorata e splendente scuote i neri cieli,

le nuvole che s’addensano sono feretri per corpi celestiali che cadono,

si desta il sobillatore di cuori puri e anime caste,

l’occhio turchino leva lo sguardo,

scorge i suoi sconfitti, i suoi discepoli cadere,

le loro ali farsi grigie, nere, i loro capelli sono avvolti dalla fuliggine,

Egli sprona le ali, ancora intorpidite, ancora esauste dall’irruenza del padre irato,

Pare un pargolo di aquila che stenta ad ergersi,

I turbini di neri polveri e piume di corvo offuscano la sua vista,

Si odono i canti di Milton, provenienti da cave celate, maestro dei poeti,

muri adornati coi suoi versi, risplendono di scintille rossastre e balugini bluastre,

inni di inglesi riecheggiano, si ode Marlowe accudire il suo apprendista dottore,

Shakespeare rabbonire la folle lady Macbeth,

Sale sempre più in alto, il vinto angelo,

dispiega le ali e diventano ceste che raccolgono i suoi militanti abbattuti,

Dispersi nella loro sconfitta e irrisolti nei loro dubbi, si appellano al loro idolo,

la voce suadente e dolce del padrone li fa rinsavire,

ora sono tutti persi in un unico regno, di fuoco e di pena,

Lucifero estrae la sua spada, unico bagliore in un regno di oscurità


 

Narciso

 

La più sublime solitudine m’assale, il lago che saluta e fugge, eterno e refrattario ai nostri supplizi. Dove fuggi Assai spedita nella tua corsa? consentimi un attimo, che sia effimero od inutile, un sussurro o un sospiro. Temporeggia sotto questo sole dorato, taci lo sciabordio delle tue acque, non boccheggino i pesci argentai che si allietano tra le tue lusinghe.  Ove porti tutti quelle creature marine? Si cela dietro il levante ambrato la dimora delle ninfe tua prole? Lago immortale, scorgo un solitario fiore sul tuo corpo che si dilata, dove lo porti? Perché lo strappi dalle mie mani? Concedimi un’unica musa che possa giacere tra le mie mani, un bacio e un attimo caduco, non gravare la mia fugace esistenza. Via, fuggi, gettati. Infinito deserto che canta al chiaro di luna, scompari. Inesorabilmente t’allontani, sei il medesimo lago anche quando appari agli spasmi di un altro sciagurato?

Accoglierai anche me, sarò sostentamento per i tuoi pargoli, mi lascerai questa vana soddisfazione