Nadia Anna Renzi - Poesie e Racconti

Secca allampanata

Camminavo su e giù lungo il corridoio, come la lupa del Campidoglio. Su e giù, in una snervante attesa.
I lunghi capelli a coda di cavallo, tiratissimi, ed una frangia appena tagliata, questa volta dritta; un vestitino a quadretti con sottogonna inamidata, una cinturina di stoffa stretta alla mia esile vita, una cravattina ….mi piaceva tanto, mi sentivo bella.
A casa era passato un distinto signore che faceva foto ai bambini per presentarle alle selezioni dello Zecchino d’Oro, almeno così diceva; chiese a mia madre di vestirmi bene per il click da star, rassicurandola che poi lui sarebbe tornato.
Non si fece più vedere ed io ci rimasi malissimo.
Mia madre commentò che ero troppo “secca allampanata” per andare allo Zecchino; non disse “stonata”,visto che lì avrei dovuto cantare, ma “secca allampanata” e, per quest’ultimo motivo, il tizio mi aveva scartata in anticipo.
Negli anni ’50 i bambini dovevano rappresentare la ripresa economica dalla guerra, il benessere e, quindi, cicciottelli sarebbe stato meglio, come il vecchio detto “grassezza fa mezza bellezza”.
Io, invece, magra lo ero, perché a due anni avevo avuto una enterite emorragica e sarei dovuta morire.
Una cassetta di cachi (ancora li adoro) mangiata di nascosto, mi ridusse ad un lumicino.
Ero “secca secca” con braccia e gambe lunghissime ed ossute quasi quanto Olivia, la donna di Braccio di Ferro. Mia madre mi metteva sempre dei pantaloncini per coprire le gambette ossute ed anche per questo, quel giorno, mi sentivo bellissima perché finalmente me li aveva tolti ed io potevo essere femminile.
Tutti i vestiti mi stavano lenti e quella sensazione di non pienezza mi ha perseguitata fino in età matura, quando finalmente sono riuscita a mettere su qualche chilo.
La sensazione di essere in sovrappeso per me è sfortunatamente bella! Sopravvissi alla malattia, sorprendendo piacevolmente tutti, compreso il medico condotto di allora che mi aveva data per spacciata, ma dovetti pagare pegno per questa mancata dipartita, mangiando “in bianco” per circa dieci anni.
“In bianco” come si intendeva allora, non come adesso (panna imperante) : fettina di carne al vapore, verdure semplici, senza caramelle o dolci…insomma, una condanna.
Rocco, il mio amico d’infanzia e vicino di casa, invece la fettina non la mangiava al vapore, lui.
Rocco mangiava la fettina in padella rigorosamente cotta nell’olio che schizzava sulla macchina a gas.
Sua madre, la vicina di casa mia vice-mamma, Sora Nina era bravissima nella cucina semplice di allora, quella popolare e divinamente greve…
Il profumo dell’olio cotto nella padella di ferro passava anche attraverso i muri, arrivando a casa mia, scatenandomi un’ acquolina in bocca e tanta invidia.
La fettina in padella mi piaceva da morire.
I bocconi della mia fettina al vapore, invece, non riuscivo proprio a deglutirli; passavano da una gota all’altra, seccandosi sempre di più, scatenando le ire di mia madre che continuava ad urlarmi ”mangia, mangia, mangia”.
Un incubo, specialmente quando alle elementari mi toccava il turno di pomeriggio ed avevo soltanto un’ora per mangiare.
Mi ingegnai in una resistenza passiva, degna di Gandhi, che avrebbe fatto perdere la pazienza a chiunque. Alla fine infatti mia madre esausta urlava:”vai, vai di là, sennò te meno” e così lasciavo nel piatto, soddisfatta, la tanto odiata fettina.
I pasti per me duravano ore.
A volte mia madre mi faceva iniziare alle 10 di mattina, quasi subito dopo la colazione, per “avvantaggiarsi” come diceva lei.
Fare le cose in anticipo per mia madre è sempre stata una regola; ma questa è un’altra storia.
Insomma, a volte, il pranzo lo dovevo iniziare appena finita la colazione fatta con una tazza di orzo e non di latte, veleno per il mio pancino. Potevo avere fame?
L’orzo non lo sopportavo, aveva per me un odore nauseabondo; io ho sempre amato il latte, sì il latte, quello nella bottiglia di vetro ed il tappo di carta stagnola che si poteva staccare con i denti.
A volte andavo a comprare il latte con mia sorella sotto i portici di Villa Gordiani e lungo il tragitto ne rubacchiavo un po’, come lei, attaccandomi a quella bottiglia così affascinante che sembrava chiamarmi ed invitarmi a bere alla sua fonte, salvo poi dover correre in bagno con la velocità di Mennea.
Insomma, sapendo della tazza di orzo che mi aspettava, potevo alzarmi felice la mattina, io?
Avevo dinanzi a me una giornata che iniziava con l’orzo, s’interrompeva a pranzo con la pasta in bianco e la fettina a vapore, per poi proseguire la sera con la stessa solfa del giorno.
Rocco, invece, a colazione prendeva il caffellatte, sì signore e signori miei, il caffellatte, da me tanto bramato.
Solo le merende mi piacevano: pane con olio e zucchero, pane con pomodoro d’estate.
Poi c’era la lastra di caramelle che preparava mamma: acqua e zucchero (con poco orzo) sciolti in un pentolino sul gas e poi la gittata del liquido sul marmo del tavolo.
Magicamente il tutto si raffreddava solidificandosi: una lastra ambrata, dolcissima, croccante e squisita….
Insomma, per dieci lunghi anni, ho vissuto per la merenda e per le “caccolette di liquirizia” che di nascosto compravo dal “nonnetto” con gli spiccioli che rubacchiavo ad un mio zio molto strano che viveva con noi. Ho imparato così a saper aspettare per avere ciò che mi piaceva, inventandomi strategie fantasiose, come magistralmente sanno fare i bambini, riuscendo, almeno apparentemente, a non dare molto peso ai momenti duri, quelli odiosi.
Ora, invece, non rinuncio quasi mai alla tazza di latte, né a bere dalla bottiglia di vetro (quando riesco a comprarla) e quando cucino i miei piatti preferiti, faccio schizzare l’olio: cotture a fuoco vivo senza coperchio, adoperando anche la padella di ferro come la Sora Nina.
Mi diverte vedere gli schizzi che riempiono la cucina a gas e sentire il profumo dell’olio fritto….appagano la mia vecchia bramosia rivolta alla fettina “schizzata” quella che si mangiava il mio amico, caro fraterno amico, Rocco.

 


 

 

Come in un filo annodato

Il mio posto non lo trovo
Accenno un lieve assenso
E rimetto insieme i pezzi
Come in un filo annodato
Annodato come rete in mare
Proseguo il mio cammino
In un incedere felpato
Ne conservo gli strappi
Impalpabili filamenti restano
Li afferro come rapace
Volo lontano e dinanzi guardo
Dinanzi al mio tenace volo
Con me porto un bagaglio
A volte leggero a volte macigno
Come di un elefante memoria
Tutto è parte di me
Tutto è parte di me
Come in un filo
In un filo
Come in un filo annodato

 


 

 

Chiara è la luce

Il cielo è terso e azzurro
Le nubi bianche come neve
Aleggia il profumo della pioggia
I fili d’erba bagnati come rugiada
Odorosi e verdi si piegano al passo
Tutto intorno si placa
Essenza di magici riti
Nel tempo ripetuti
Piano piano
I nuovi colori si spandono
Come acqua in una gola assetata
Tutto inizia di nuovo
Ed ecco
Chiara è la luce

 


 

 

Intimi bagliori

È un folto sopracciglio
Folle e canuto
Che s’inarca inatteso
Ombreggia il volto
Avulso dal suo moto
Poi si placa piano
Adagiandosi sfinito
Nasce un sorriso
Così tutto resta
Tutto resta immutato.

Una musica che vola
La luce si spande
Calda e avvolgente
Mille pensieri salgono
Salgono salgono
Una penna e un foglio
Teatro vissuto
Come unica voce.

Poso i miei occhi
Sugli amati ritratti
Volano ricordi
Sempre più cari
E sento quei sorrisi
Come carezze
Sciogliere i miei nodi

 


 

 

È così sempre

Ogni volta che rifletto
È il pensiero triste che mi assale
Cerco un perché
Ma tutto è vuoto tutto
Ricordi Emozioni cancellate
Mi volgo verso il presente
Con un languido sentire
Poi guardo il mio mondo
Quello reale perché vivo
Una dolce sensazione sale
Come sorgente che sgorga
Mi riempie fino a nuova perdita
Ogni volta è così
È così sempre

 


 

 

Non rubare questo mio sogno

Non rubare questa mia notte
Non prendere questo mio sogno
Non cancellarlo
È un morbido scalpello
Quello che io uso
Piano entro
Percorro vicoli
Stradine che mi portano lì
Dove io posso scovarlo
Non rubare questo mio sogno
Non questo
Lo aspetto da tanto
Per immergermi nel ricordo
Languido come sciabordio
Richiamo di sirena
Non rubare questo mio sogno
Bagliore di Aurora
Non rubarmelo
Non questo
Da tempo lo aspetto
Da tempo mi aspetta

 


 

 

Nulla posso

Nulla posso
Se il mio cuore annega
Se le emozioni mi soffocano
Lacrime pungenti sono lì ferme
Come pietre in bilico
Pronte a rotolare
Nulla posso
Finché non scorgo un raggio di luce
Se i miei ricordi restano sepolti
Se non odo alcuna voce
Se non sento un tenero abbraccio
Se l’incubo resta e non svanisce
Se nulla si muove
Se nulla si muove
Io Nulla posso

 


 

 

Dove sei Libertà

Inafferrabile
Come anguilla
Non so dove inizi
Né dove finisci
Dove sei Libertà
Come fragranza
Non hai forma
Seppur vivi in noi
Sempre dinanzi ti stagli
Dinanzi ai nostri occhi ingrati
Come lepre in una corsa di cani
Dove sei Libertà
Cercata Sofferta Calpestata
Incatenata dietro sbarre
Generate dal nostro pensiero
Noi siamo vittime e carnefici
Vittime e carnefici
In una pazzia senza fine
Come esca bramata
A volte resti un Sogno
A volte di lacrime colmo
A volte tinto di rosso
Perché Rosso è il tuo colore
Rossa è la tua linfa
Dove sei Libertà

 

 


 

 

Di angoli è fatto il mio cuore

Di angoli è fatto il mio cuore
Angoli tondi come gusci
Profondi come abissi
Dove adagio i miei sentimenti
Piano per non farli spezzare
Di angoli è fatto il mio cuore
Angoli vitali come humus
Spaziosi come anfiteatri
Dove pongo i miei affetti
Teneramente per non far loro male
Di angoli è fatto il mio cuore
Angoli cangianti come le stagioni
Imprevedibili come un temporale
Dove cerco il filo che li unisce
Come in un gioco sempre nuovo
Nel dedalo delle emozioni
Ascolto la musica dei miei silenzi
Ad occhi chiusi
Così da non perdermi

 


 

 

Lento e gentile

Lento e gentile
È il gesto senile
Lento e gentile
Pur nel diniego
Cauto per non urtare
Si posa là
Dove c’è dolore
Un bimbo lo sa
Non si stupisce
Una mano rugosa
Solcata dal tempo
Dipinge la Vita
Carezza bramata
Placa ansie antiche
Lento e gentile
È il gesto senile
Fascino eterno
Uguale da sempre
Come nella Natura
Nella natura delle cose
Un bimbo lo sa
Da sempre
Lo sa

 


 

 

Non ti ho detto addio

Non ti ho detto addio
Né un bacio né una carezza
Senza un sorriso
Senza una lacrima
Non ho stretto la tua mano
Né ascoltato la tua flebile voce
Cerco un tuo ricordo
Il suono della tua voce
Mi aggrappo
Mentre tu canuta bimba
Tu vuoi andare
Lì dove il ritorno è negato
Ed io resto
In un tempo immobile
Un tempo senza forma
Qui io resto

 


 

 

Luna Gea

Luna sorniona Luna sempre cheta
Dal buio della notte sorgi lieta
Quando Morfeo rapisce il pensiero
Spento sarà il sole con il fatuo impero
Da ore son muti anche i rintocchi
Silenziosi i templi ed i cortili
Una cantilena si ode lontana
Ninnìa cullata ninnìa sospirata
Accarezzi i nostri sogni nascosti
In punta di piedi ci lascerai contenti
Uno stropiccìo sugli occhi ti chiamerà
Verso nuovi paesi la quiete regnerà
E tu Luna cara Luna adorata
Mentre ninnìa si ode lontana
Una carezza poserai sulla notte
Come Gea nutrirai i sogni di latte
E Tu Luna sorniona Luna cheta
Ci cullerai in una coltre di seta

 


 

 

Quel giorno di primo mattino

È quel vostro sorriso
Quel sorriso cosi delicato
Che resterà nell’aria
Sarà con voi se vorrete
Intesa che vi unisce
Solo vostro il momento
Gli altri timidi guardano
Nulla potranno muovere
È quel vostro sorriso
Quel sorriso così emozionato
Che cercherò di accarezzare
Con cura vorrò proteggerlo
Quel giorno di primo mattino
Un bacio ho soffiato lontano
Sarà con voi se vorrete
I miei passi sono più lenti
Rughe segnano il mio volto
Ma il mio amore vola
Impavido oltre confine
A cercare quel vostro sorriso
Quel sorriso così potente
Quel giorno di primo mattino

 


 

Foglia che cadi

Foglia che cadi leggera
Sinuosa e seducente
Un soffio accompagna il tuo incedere
Accarezza i tuoi caldi colori
Ti innalzi e poi discendi
Leggiadra
Stanca poserai le tue membra
Sulla tiepida terra ti addormenterai
Ah come approdo Morfeo ti accoglierà
Non ci sarà oblio ma solo riposo
Cullandoti canterà una ninna nanna
E tu sognerai
Foglia che cadi leggera
Una primavera incantata
Sognerai

 


 

 

Il Nuovo Viaggio

Un punto di arrivo
A volte non voluto
A volte cercato
Tutto si trasforma
Nulla dominiamo
Solo il nostro cuore resiste
Solo il nostro cuore sceglie
Tra l’essere e l’apparire
L’ago punterà al tuo cuore
Ondeggiando come in una bussola
Una fermata una piccola fermata
Così per rifocillarti e andare
In un viaggio nuovo e diverso
Un vagone vuoto ti porterà
Se vorrai
Vi Poseremo i nuovi arredi
E quelli già amati anche se vecchi
Perché il filo che li unisce è uno
E viene da molto lontano

 


 

 

Nel Silenzio

Non posso fare a meno di te
Aleggi seducendomi poi scendi
Avvolgi il mio essere in una nuvola
Non ci sono più peso e dolore
Mi scaldi tenera carezza abbraccio sicuro
Mi quieti muta e ammaliante voce
Illusione di un approdo
Baleno che tutto trasforma
Nel Silenzio
Ora assordante come tuono
Coltri pesanti mi gelano e mi opprimono
Peso e dolore penetrano come lame
Quiete perduta in un oceano che inghiotte
Non posso fermarmi in un sol luogo
Calmo o burrascoso che sia
Nel silenzio che attutisce
Come la morbida sabbia i tonfi dei tormenti
Nel Silenzio a cui torno ogni volta stremata
Cangianti figure volteggiano nel giro di giostra
Volti diversi di uno stesso corpo
Nel Silenzio dove tutto è uguale e contrario
Odo i battiti del mio essere ora placato
Nel silenzio cibo per la mia anima
Tutto si trasforma
Nel Silenzio
l’Approdo diventa il Varo.

 


 

 

Tutto si compie

Atteso raggio repentina apparizione
Rossa luce riflessa in una scia marina
Ecco il Tramonto che placa il bagliore del meriggio
Verso l’oscurità della notte
Tutto si compie ogni giorno
Eterno miracolo con pudore ti palesi
Meraviglia e malinconia mi pervadono
Io sono solo un punto nello spazio
Tutto si compie ogni giorno
Mentre il crepuscolo scalda la mia anima
Momenti magici mi accarezzano piano
Tessere di un prezioso mosaico
Colore di Vita