Nicola Maddalena - Poesie

Autopsia interna

 

Era un freddo mattino di tiepido inverno

fuori il vento soffiava

dentro no.

Io calmo e tranquillo

destatomi nullo

accesi la pipa inver per pipare.

D’un tratto, nel mentre che ‘l tedio regnava,

un fremito, a cui ormai disavvezzo,

mi scosse il freddo del nullo sentire:

“O bacco! – mi dissi -

mi strugge un problema,

sia che sia autunno sia primavera

non so s’è mattino oppure se è sera”.

Dato uno sguardo rapido in fuori

mi dissi “Che importa, tanto tu muori”.

Tu muori o mattina, tu muori o serata,

l’inganno è servirti,

sporca giornata.


 

Calamandrei fritti

 

Calamandrei fritti,

in ristoranti misti,

al tavolo chiassano seduti

personaggi falsi e tristi.

Non più spade sguainate ma risate sguaiate.

Non più Dossetti ma borsette e rossetti e pizzini e merletti.

Ranci bellici poverelli

or son piatti ricchi e belli

finemente cucinati

per le masse svergognate

di politici sbracati

furbi, lerci e invertebrati.

Oh, Costituenti nostri grandi Padri

vilipesi siete e calpestati

da una oscura cricca di assassini e ladri.

La Pira e l’Ignazio solo fuoco sono ora per i forni

per i primi, i secondi e lor contorni.

E tu Legge prima

fondamento dello Stato

giù in fondo dalla cima giaci inerme

quasi in modo rassegnato.

Prima legge, povera, da piovre avvolta, strozzata, offuscata.

Perisci perdente per diritti depredati ma non strisci

come fanno quei serpenti viscidi e impomatati.

Lamalfamati Lamalfattori

degustan mais, perete e soia

nell’attesa spasmodica che tu presto muoia.

Togliattitelle e Saragattò,

e ridono pensando che manchi solo un po’.

E tu che, numero ventuno,

volevi liberi i pensieri

ma con chiavi e carcerieri

non sei più quello di ieri.

Non è lecito parlare

e se vedi dev’ignorare.

Ormai messo sei a tacere

da chi fa il gioco del potere.

E tu onesto non eroe zitto e Mosca

qui comanda la mafiosa cosca.

Eran Carnelutti ora sono carni a lutto.

Eran Giovani Leoni e ruggivan per il giusto.

Ora solo è rimasto del poter l’insano gusto.

Mangiare a dismisura, volere il niente e il tutto

E buttato tutt’è Allara, tutto volge in Ruina.

Oh, che fine misera e tapina.

L’Ottava Penna e i penniVendoli,

Fuèran Fanfani ed oggi fanfaroni,

maschere e coriandoli

celan mascalzoni

Senz’anima, fuor di testa, veri casi clinici

omuncoli terra terra e Terracinici.

Spanni porchi in segreto son lavandi

Son Denicoliche e son dolori Grandi.


Fantasie per Acse

 

Tu lenta altalena talentuosa

sul tuo seno il tuo bimbo, dolce, riposa.

All’ombra d’un platano attendi

chi a te donerebbe

la luna e ogni altra cosa.

Lo sai ch’avrai le sue mani

ed una rosa

e con lui di lui riderai,

bellissima sposa,

di lui smemorato, nato imbranato, sognatore sognato,

dai tempi dei tempi a te destinato.

Tu lenta altalena talentuosa

fragil essenza, lunatica e luminosa

movimento sinuoso e senza posa

umore variabile, pigra e laboriosa.

Tu donna attraente, formosa,

mia intelligenza e calanca sicura.

Tu splendida creatura

e lui che in eterno,

eterno innamorato di te,

di te avrà cura.


Germanico m’additò

 

Germanico m’additò sentenziando morte.
Er’io Ebreo ed ei orbo ed ebbro del sangue mio.
Fascitalico tenente mi portò a diversa sorte
limpidi sguardi, l’abbraccio, un sorriso e l’addio.


 

Han levato le maschere

 

Sono solo.

Losche temo trame e tra me e me mesto mi sto.

Storie rievocasti che già stimai stolti timori di tradimento.

Quei due infidi e cupi

non sapevo esser

se pecorelle o lupi.

Ma più or non m’assale dubbio.

Han levato le maschere, torbidi dioscuri d’oscuri artifizi

e le finzioni per tali m’appaiono quali,

cose senza senso sol ch’io ci pensi.

Ma or solo sono, e stanco, eppur pronto alla pugna.

Non riman che aspettare recluso in codesta stanza buia e tetra

gli agonizzanti tetragoni ma ancor funesti assai

e mortiferi.


Il Conte Oliver

Sono solo di passaggio.
Feci vagare il mio lento incedere solitario
vivendo, sognando.
Il tempo di un saluto
a voi amici della notte
e di nuovo mi avventuro
nell’oscurità.
Strade nuove da esplorare
adrenalina ed emozioni
per conoscere e sentire
al di là della ragione.


 

La pera Perina

 

La pera Perina  assai deperita

non perì però,

e sperava di reperir la giusta medicina.

Fu così che senza tema del periglio andò

a trovar la sua grande amica, la Pera Regina.

Fu così che a sé la nobile Pera  tosto chiamò

tutte le tante Pere Operaie

ch’eran al comando di Pera Cugina.

-Adoperatevi, forza, trovate il rimedio – ordinò.

e tutte le pere, operose davvero, feron un intruglio di miele e farina

aglio e pistacchi, more e mirtilli, di tutto un gran po’.

La diedero a bere alla povera pera

sempre più smunta ma sempre carina.

Dopo averne ingerito giusto un pochino

“Però!”- la pera esclamò –

“Perbaccolina! mi sento già meglio” e fece un saltino.

Nel giro di poco la nostra Perina

si rimise in gran forma, e meglio di prima.

Radunò la Regina e tutta la corte

ringraziò tutte e fece un inchino

poi le abbracciò e diede loro un bacino.

Quindi tornò sul suo alberello

e si addormentò nel pensare

al suo paesello

dove tutto era lieve,

dove tutto era bello.


Passi

 

Passi la passione per il passato

passi la passione per il passito

passi che passo dopo passo diventi un parassita

passi che il tempo passato sia semplice o remoto e che il tempo presente non esista perché già passato.

Passino i piccoli passanti

con i loro passeggini

passino passeri e passerotti

ma non passi ch’essi, pessimi,

passino passivi il tempo ad appassire,

dunque non ragioniam di lor ma guarda e passa.

E lei che passa andando a spasso a spassarsela

e lui che passa e spassa sotto quel balcone

ma tu si’ guaglione, tu nun canusce ‘e ffemmene,

e tu, femmena, tu si’ ‘na malafemmena

e così son passato di palo in frasca.

Io lo vedo l’asino che vola ma non casca,

è la storia del passato ch’ormai ce l’ha insegnato

in un con Dante, Gian Burrasca

Totò de Curtis e Carosone.

Or sento augelli fare festa, passata è la burrasca

e pure la tempesta, e così pur anco Giacomo ho citato.

Passionali siamo noi che viviamo nel passato, saltando i pasti,

e che col passo lesto torniamo spesso pesti.

Quanto tempo passato a satollarci a pranzo

ma post prandium aut stare aut lento pede deambulare

così dopo le melanzane alla parmigiana

prosciugata di vin la damigiana

ci siam pesati e, spaesati,

pian pianino dal paese siam tornati.

Abbiam trovato bulli citrulli da citrulli bulli circondati,

circondanti un che per lor era lo spasso:

che fesso, non è al passo e allora dai

passaparola, adesso, ora,

lui ha paura, gli si stringe la gola,

dai, passerà un brutto quarto d’ora.

Di lì passavan un gendarme e un generale

e furon li citrulli a passarsela assai male.

Lei passando le mani tra i capelli scese le scale,

Lui con le mani sulle passanti

vide passar tutti i suoi denti

e fu portato in ospedale.

Ma passa o non passa questo bus?

No, qui passa solo il tempo.

Ma io tempo non ne ho,

mi mancano i fazzoletti.


Tienimi informatico

 

Scansionami, deframmenta il mio cuore

e poi poni la mia foto

nella cartella dell’Amore.

Touch me, touch me,

ma poi regola la ventola

se no mi surriscaldo,

fornello d’una pentola.

Dai resettami, sarò come tu mi vuoi,

sì resettami

e se poi però mi blocco

tu insultami

fammi male.

Ma cosa c’è?

Dimmi il perché.

Aiutami, se no me fai murì

ma perché Wi-Fi così?

Lo sai che t’amo desktròpp

e che non ho in me malware

dammi lo start e poi lo stop

tu mi vuoi, dimmi ch’è ver.

Mi son fatto or coraggio e

ti ho inviato un messaggio:

ascoltalo e vedrai

che alla fine riderai

e son sicuro…. capirai.


Il musorno acculattato

 

S’acculattò musorno rassegnato ad ascoltare quel parabolano sitibondo di dir plagas esprofesso un po’ di tutti, propalando fanfaluche a più non posso. Il farabolone non dringolava affatto nel satisfare alla sua accentuata pronità nel propalar ignobili fallanze falcidiate, qua e là, dai numerosi eventi dell’ebdomada ormai passata ed eziandio quel brindellone sperticato, a tutti noto per la sua spiccata pronità all’inazione, sembrava rangolar tutto in materia di pettegolezzi. Ma il musorno acculattato, che per tutto il tempo aveva taciuto, sperando che l’amico si limitasse ad una sinossi delle maldicenze, vedendo come questi si dilettasse invece nella protrazione delle sue fole, s’elevò dal seggiolo e, primieramente inalbato, d’improvviso imporporossi le gote e, evulso letteralmente l’amico dal suo seggiolo, sbottò: “Egregio bietolone, possibil mai che la tua unica rangola sia quella di dir plagas di Tizio, Caio e Sempronio? con le tue fandonie ci puoi fare un florilegio, epperò non hai da straziar le mie povere orecchie! Or t’inchiavardo nel tuo licet che so esserti un vero eldorado: potrai lì elucubrare, evacuare e se vorrai potrai financo evellere dal tuo viso chiappiforme quelle farfecchie schifosissime ed impidocchiate. A mai più rivederci!”. E così lo trascino nel licet e, senza dringolare, così come promesso lo inchiavardò.