I fiori del nostro giardino
Era una calda mattina di agosto quando sono andata via ed è stato in una calda mattina di agosto che questa casa ha visto i primi occhi chiudersi per sempre.
E’ quasi primavera quando torno e le stagioni si sono susseguite lentamente in queste stanze che hanno visto altri occhi chiudersi.
Cerco le lanterne verdi vicino al portone. Non mi sono mai piaciute, ma ora spero che siano ancora là, per accogliermi mentre entro di nuovo qui. La mia mano trema sulla maniglia, il mio piede rimane per un pò fermo sulla soglia. Poi oltrepassa gli anni, i mesi, gli occhi chiusi per sempre, il Natale, la Pasqua, i racconti dei grandi che ascoltavo seduta sulla mia sediola di legno, accanto alla porta della cucina.
Le mie risate di bambina risuonano nell’ingresso e sono sul dondolo verde e azzurro che mio zio ha costruito apposta per me. “Papà, mi spingi? Mamma, guarda come volo. Vieni anche tu!” Dindolon, dindolon…
Arriva mia cugina e il nostro abbraccio dura per tutto il tempo che non ci siamo viste. Lo volevamo da tempo e finalmente eccoci qua. Stiamo correndo a perdifiato in giardino, saltando di qua e di là, schizzandoci con l’acqua della fontanella, ora ci riposiamo sotto ai peschi. “Zia,zia ci racconti una favola?” “Venite qui. State sedute un attimo. Allora! C’era una volta un bambino che si chiamava Arancino e con la sua sorellina Susina viveva nel bosco con la mamma e il papà.” “Paoletta, dormi con me stanotte?” “Si zia, si!” Tutto in un abbraccio e ritorno a guardarla negli occhi, quegli occhi così belli da cui mi sciolgo per correre là, là dove le ortensie e le dalie sbocciavano, innamorate di mio nonno. Levo dal pacchetto i fazzoletti di carta e li butto nella borsa. Lo riempio con un pò di quella terra, di quell’affetto. Lei non ne è stupita, mi conosce bene. E’ stata la mia ombra fino a quando un bel ragazzo del sud non l’ha rapita.
Rientriamo in casa. “Che ti vuoi prendere?” “Non so!” rispondo, ma io so che cosa vorrei portare via con me. Vorrei portare via, stringendole tra le mie braccia, le emozioni di queste stanze, dove siamo nati, dove siamo morti, i nostri cuori, i nostri impulsi, le nostre ragioni, i distacchi, i desideri, i discorsi e i fiori del nostro giardino.
Arriva anche Agnese. I più piccoli di noi e Angelo non sono voluti venire. C’è chi non vuole più vedere e chi non riesce a lasciar andare i ricordi.
Io e Agnese siamo davanti al vecchio baule di zia Emma e quando lo apriamo, io so cos’altro voglio portare via con me. L’amore suo e di zio Lele. Si, voglio portare via con me quelle vecchie lenzuola di lino che lei ha ricamato sono lo sguardo prezioso di mia madre. Le voglio portare via, stenderle nel mio letto e fargli vivere quelle notti d’amore che non hanno ancora vissuto. Quell’amore ostacolato, ma mai domato, nemmeno quel giorno, quando il primo di quei due cuori si è spento. E lo faccio. Le mie mani stendono le lenzuola sul mio letto e finalmente fanno l’amore tra quel lino grezzo con le iniziali ricamate sopra. Michela non vuole niente, ma è lei che entra nell’ultima stanza in fondo per svuotarla dei ricordi e cancellare le nostre cicatrici.
Indugiamo davanti al cancello chiuso, nessuna di noi tre vuole girare la chiave e chiudere per sempre con quel pezzo d’anima nostra. Non riusciamo a guardarci negli occhi, trattengo a forza le lacrime fino a quando Agnese sfila le chiavi di mano a Michela, mentre il sole sta tramontando dietro di noi. Andiamo via di corsa con la scusa che si è fatto tardi, ma in realtà, nessuna vuol far vedere le lacrime che cominciano a rigare le guance.
E mi porto via il profumo dei fiori di pesco, la freschezza dell’acqua del pozzo, la Madre Terra e il bagliore del fuoco che scoppiettava nella stufa.
Arrivo a casa:”Ciao, mamma!” e l’anima mia è colma di gioia.
L’amore trattenuto
Un caffè e poi camminiamo vicini sul marciapiede, fino alla macchina. Cerco il tuo sguardo, ma tu fissi l’asfalto. Poi alzi la testa, ti giri un attimo verso di me e poi l’abbassi di nuovo e contempli attentamente una macchia sulla tua gonna. Il momento di salutarci arriva fin troppo presto, due baci veloci sulle guance e tante parole rimaste nella gola. Chiudi lo sportello e appena ti allontani, mi viene in mente tuto quello che potevo dirti, ma che la paura fa morire prima che arrivi sulle labbra. Un caffè e una camminata, sfiorandoci appena. Ce ne sono stati tanti di caffè, di camminate, di parole. Parole quasi sempre pesate, controllate, mentre le mani cercavano di toccarsi e gli occhi di non guardarsi. Spesso non c’erano neanche i baci finali. Un giorno ho circondato la tua figura triste con le mie braccia forti e hai avuto paura. Hai avuto paura che quell’abbraccio colmasse il tuo dolore. E anch’io, era per dolore che cercavo di entrare nella tua vita in punta di piedi. Speravo in un tuo cenno d’amore. Speravo e ne avevo paura. Quella folle paura che ci ha impedito di camminare tenendoci per mano, di unirci, di amarci, di giocare tra noi come il vento gioca con le foglie sui rami. E quante volte ti ho abbracciata con lo sguardo, quante volte ti ho baciata con la mente, quante volte abbiamo fatto l’amore senza che tu lo sapessi, stretta tra le mie braccia.
Oggi, l’ultimo caffè e poi sparirò dalla tua vita. Aspetti come sempre che ti versi lo zucchero, una piccola cosa, forse l’unica che posso fare per te e mentre lo bevi piano io ti guardo. Tu bevi il tuo caffè e io bevo te con i miei occhi. Tu mi guardi dolcemente, ignara che sarà il nostro ultimo incontro. Tu che ti accontenti anche solo che ti versi lo zucchero nella tazzina, tu che trattieni il tuo amore per me per non venire meno ad un impegno preso tanti anni fa, per non far male. E io che trattengo il mio più o meno per gli stessi motivi e la notte non dormo. Fisso il soffitto e rivedo il nostro primo incontro. Rivedo quella gonna a pois e le tue gambe abbronzate che mi fanno impazzire, il tuo seno che sporge un pò da sopra il top e i tuoi ricci selvaggi che non sopporti. E’ stato un colpo di fulmine, hai iniziato a camminare sul mio cuore e non riesco più a mandarti via. Ma il dolore ora è troppo, non riesco più a sopportarlo. Quante volte avrei voluto prendere il tuo viso con forza tra le mie mani e baciarti, baciarti all’infinito. Baciare quelle tue piccole labbra così dolci e sofferenti, sfiorare il tuo collo con la mia bocca e rimanere impigliato nei tuoi capelli. Invece di camminare sul marciapiede accanto a te, vorrei passeggiare su di te, arrampicarmi sulla tua schiena di velluto, dissetarmi nella tua bocca e riposare sui tuoi seni. Non c’é un momento della giornata in cui non pensi a te, a quanto ti voglio, ai tuoi occhi, alla tua voce. Amo i tuoi capelli ribelli, il tuo naso, le tue lentiggini, le tue mani, il tuo ventre, i tuoi piedi, il tuo sorriso. Le tue guance che vanno in fiamme quando ti faccio un complimento, il tuo dondolare le gambe, i tuoi nei sul collo, i denti imperfetti. Amo il tuo modo di appoggiare la tua mano sotto il mento come stai facendo adesso, ma io sto morendo perché so che quelle mani non mi sfioreranno mai.
Che dopo il caffè, ci sarà sempre quella camminata sul marciapiede e nient’altro. E come sempre i nostri cuori si rincorreranno da lontano, ci baceremo senza saperlo e più il tempo passa e più fa male. Vorrei tenerti sempre con me, ma so che sarai solo la mia più dolce e fedele amica, la zia dei miei bambini che ami tanto. Ma per me ci sarà solo e sempre l’amore trattenuto. Ho provato a stingere il cuore, ma le forza mi mancano. Un altro caffè e non potrei più trattenermi. Non potrei più fermare le mie mani, ne la mia bocca, niente. Vorrei fare l’amore con la tua anima, venire dentro di te, abitare nel tuo corpo, diventare una persona sola.
Anche oggi il tempo è volato. Ti accompagno alla macchina tremando, perché so che è l’ultima volta e penso a quanto starai male quando lo capirai. Mi odio perché vorrei abbracciarti, stringerti a me, non lasciarti più andare via e invece non riesco a fare niente. Vorrei dirti che anche se ci siamo solo sfiorati, tu sei in me e non uscirai più dalla mia vita. Ma forse soffriresti ancora di più. Così ce l’avrai con me per un pò e poi forse, forse, ti passerà. “Ciao, ci vediamo lunedì.” “Si, ciao. Fammi uno squillo quando arrivi.” “Va bene. A dopo.” Gli ultimi due baci e tu che non sai non capisci perché oggi ti stringo così forte e non vorrei lasciarti andare. Sali in macchina, ti giri a salutarmi e io precipito nel vuoto. Te ne vai con un pezzo di me che non tornerà più. “Ciao, sono a casa. Ci sentiamo domani.” “Si, ci sentiamo domani e… eri bellissima oggi. A domani!” Domani! Sarà un domani spento senza te, senza il nostro caffè.
Mani
Piove. Piove incessantemente fuori e dentro di lei. Non sa più nemmeno da quanto tempo. Ora se ne sta seduta sugli scalini di un palazzo, con la testa appoggiata al muro, mentre la pioggia continua a bagnarla. Le scarpe inzuppate, la camicia e la gonna appiccicate al corpo, ormai intirizzito. Ma non sente più niente, non un muscolo del suo corpo si muove. E la mente vaga, ricorda quando la pioggia non la bagnava. Da bambina c’era sempre il sole. Non riesce a ricordare la pioggia. Ricorda il buio, la sua paura del buio, ma la pioggia no. Ricorda quando in punta di piedi volteggiava per il corridoio del vecchio casale, imbastendo passi di danza dalla cucina al bagno, immaginando di essere vestita con un bellissimo tutù bianco e le scarpette da ballo. Solo che ai piedi aveva un paio di zoccoli di legno. Volteggiava fino a quando sua madre non appariva nel corridoio e un pò tristemente le diceva che non avrebbe potuto portarla in una scuola di danza. Ma lei non ci stava a pensare tanto su, il giorno dopo era di nuovo a fare piroette sui suoi zoccoli. E quando le giornate erano più lunghe non c’era più il tutù, ma le corse in mezzo ai prati e quel particolare momento della giornata che lei adorava. Quando i suoi riccioli scuri prendevano i riflessi del tramonto, si fermava e godeva intensamente di quell’attimo profondo e colorato.
Non sa quando sia caduta la prima pioggia. Forse mentre stringeva la mano di suo padre che se ne andava. Si, effettivamente pioveva anche il giorno del suo funerale. O forse è stato quando non è riuscita a stringere un’altra mano che andava via. Quella giovane mano stretta tante volte all’uscita di scuola per andare alla fermata dell’autobus insieme. Quella mano compagna di sempre, compagna di tutto, compagna di dolori e di risate che ha ancora nelle orecchie.
Ma la pioggia ha continuato a cadere. Non si è fermata. Quanto vorrebbe stringere ancora quelle mani, soprattutto ora. Una a destra e una a sinistra, l’aiuterebbero a rialzarsi da quegli scalini. Da sola non ce la fa.
La sua vita è stata tutta in punta di piedi, come quando da bambina si librava leggera nell’aria e leggera entrava nelle vite degli altri per non soffocare, ma dispensando un amore smisurato. Ma così lieve e delicata che qualcuno l’ha spazzata via come il vento spazza via le nuvole.
E le viene in mente un’altra mano. Quella mano che vorrebbe sentire sui suoi capelli adesso. La mano di quell’uomo che non ha mai voluto che li tagliasse, ma che non li ha mai accarezzati. La mano che pensava avrebbe stretto ancora quando i capelli fossero diventati bianchi, camminando insieme come tante volte avevano immaginato. Pensava che avrebbe finito la sua vita stringendo per l’ultima volta quella mano.
Sa che non sarà così, ma in mezzo a tutto questo c’è stato amore, amore, amore e poi ancora amore. E Cecilia si rialzerà da quegli scalini. In nome di quell’amore stretto fino alla fine e di quello che non ha potuto stringere e che le vive ancora dentro.
Lentamente gira la testa e vede due mani tendersi verso di lei. Le afferra con forza e si alza incontro, forse, a un’altra mano che accarezzerà i suoi capelli e incontro a quelle sere d’estate quando con gli altri bambini andava in cerca di lucciole.
Perché è lì che Cecilia vuole andare. In un posto dove la notte è ancora illuminata dalle lucciole.
Qualche cielo più in là
Quando mi sono svegliata, mi sono trovata in una grande stanza, senza finestre e con tanti specchi. Non potevo credere a ciò che vedevo. Nei miei occhi scorrevano le immagini dei luoghi che avevo sempre desiderato vedere, ma che non avevo incontrato mai. E poi sono diventati blu come i campi in Provenza e la mia pelle è diventata ancora più bianca, come le bianche scogliere della Cornovaglia, tomba di Tristano e Isotta. I miei capelli si sono colorati di verde con riflessi colore dell’erica, come gli immensi prati irlandesi e la mia bocca, la mia bocca è diventata una piccola stella, coma la dolceaspra carambola indiana. Così ho iniziato questo mio lungo viaggio, come un soffione trasportato dal vento e giacché sono cresciuta tra girasoli, campi di grano e colline ricoperte di vite, li sto portando con me. Petali di girasole mi incorniciano il viso, spighe di grano hanno preso il posto delle mie dita e tralci di vite mi sono saliti su dalle caviglie fino ai fianchi.
Se poteste vedermi cuori miei! Smettereste di essere tristi pensando a me. Quando ero in vita non sono mai riuscita godermi nel migliore dei modi quel bene prezioso che chiamano tempo e quando il mio cuore ha smesso di battere e hanno portato il mio corpo a riposare sotto questo strato di terra, pensavo fosse tutto finito. Invece era finita solo la mia vita terrena, piena di cose non fatte. Il mio desiderio più grande no, aveva resistito alla mia morte e ora finalmente viaggio verso tutti quei posti tanto sognati da bambina, quando pensavo che avrei vissuto con la valigia sempre in mano. E sarò un girasole in mezzo alla lavanda, spargerò chicchi di grano sulle selvagge scogliere della Cornovaglia e semi d’uva nella jungla indiana. Il corpo è morto, ma la mia anima viaggia in compagnia di aquile di mare, pollini e tante stelle e quando sarà colma di colori, profumi, radici e sorrisi, tornerà di nuovo a casa, sulle nostre colline.
P.B.
Terra
Se qualcuno mi vedesse adesso, in mezzo ai campi, accovacciata su una zolla di terra, direbbe che sono una solitaria, ignorando che qui non esiste solitudine. Su questa terra tutto parla, anche il silenzio. Ne stringo un pugno tra le dita, ne godo il profumo e penso a mio padre e a mio nonno che ci hanno affondato le radici prima di me, al suo colore così chiaro. Quel colore io lo chiamo coraggio. Lo stesso coraggio di Akin mentre attraversava il mare di lapislazzuli, bello e cattivo. Unico punto di congiunzione tra la sua terra e la nostra. Quella terra color ocra che incontro sulla sua pelle e nei suoi occhi. Colori impressi nel mio cuore come le sue orme sulla spiaggia appena sceso dal barcone. L’ho conosciuto al supermercato, ma lui non elemosina i soldi del carrello. Cerca di vendere libri di giovani autori africani, nella speranza di un destino migliore. Ne ho presi due e abbiamo parlato un pò. Akin significa coraggioso e io mi chiedo se ci vuole più coraggio a rimanere nel piccolo villaggio dove è nato o a venire qui.
Accompagnando i bambini a scuola ho conosciuto anche i colori splendidi, accesi e freschi nello stesso tempo, della terra peruviana. Carlos qui fa il tappezziere, ma conserva nel cuore l’idea di tornare là. Quando lo osservo ho la sensazione che un suo antenato Inca sia sceso di nuovo tra noi e nei suoi tratti decisi riesco a vedere il marrone vigoroso delle radici dell’Amazzonia e lo sconvolgente rosso carminio della terra nella Valle del Colca. In suo onore, nel mio orto ho piantato un peperoncino peruviano e dalla prima piantina ne sono nate tante altre. Quando è maturo diventa di un bellissimo arancio luminoso e se un giorno Carlos andrà via, io avrò quel piccolo gioiello che mi parlerà di lui e della sua terra.
Si è alzato il vento e una farfalla si posa sul mio dito. Viene a raccontarmi delle sfumature di terra che ha visto volando qua e là: gialli scintillanti, rossi spavaldi, marroni impetuosi. E con l vento, leggera va via… e io rimango qui, su questa terra che mi scorre dentro a chiedermi di che colore sia l’anima. L’ho sempre immaginata trasparente, ora invece, la mia mente e soprattutto il mio cuore, la vede avvolta da tutti i colori delle nostre terre. Quella di Akin, di Carlos e la mia.
L’attesa
Io nella mia vita ho collezionato attese. Ho atteso tutto. Ho atteso l’autobus, il Natale, il primo bacio, l’inizio della scuola. Papà che tornasse dal lavoro, la pioggia che smettesse di battere sui vetri, il vento di soffiare così forte da mettere paura. Ho atteso un lavoro, i fidanzati agli appuntamenti, la prima volta, la mia canzone preferita alla radio. Ho atteso una telefonata che non arrivava mai, la notte per rannicchiarmi nel mio letto e iniziare a sognare con gli occhi ancora aperti. E poi ho atteso che facesse giorno per sperare che quei sogni diventassero realtà. Dicono che tutto quello che desideri viene quando meno te lo aspetti. Io sto ancora attendendo. Intanto ho atteso sulla riva del mare che passasse il mio dolore, quel dolore che ti impregna il cuore come i vestiti inzuppati quando diluvia e tu non hai l’ombrello. E’ una collezione che non posso neanche far vedere. Non posso mica dire a un tipo che mi interessa ti faccio vedere la mia collezione di attese, come si fa con i francobolli o le farfalle. Nel frattempo la vita scorre e io continuo ad attendere. Ho atteso i miei figli nella pancia, ho atteso che iniziassero a dormire, i loro primi passi, le loro prime parole. Ho atteso il loro primo giorno di scuola, li loro primo bacio, i loro primi rientri all’alba. Attendo una serenità che tarda a venire. Ho atteso le prime rughe, i primi occhiali e ho atteso sempre i miei dolori. Adesso ne ho proprio uno qui, in fondo alla gola, che non va né su e né giù. Attendo che passi, ma ci vorrà un po’ e poi ne arriverà un altro. Ho atteso la morte di mio padre, sperando che non arrivasse, ho atteso le tue parole d’amore che non sono arrivate. Le mie per te sono ancora qui. Le tue ho saputo che sono arrivate ad un’altra. Una che non voleva attendere e le ha prese con forza. Ha fatto bene. Che senso ha aspettare sempre qualcosa e non avere il coraggio di andare a prenderla. Tra i miei capelli i fili bianchi sono aumentati e forse non è più il caso che continui ad attendere. Non arriverà la pace dell’anima, non arriverai tu per dirmi che mi ami. D’altronde sei un uomo. Sei andato a pesca in un lago artificiale, mica in alto mare dove i rischi sono di più. Ma ora sono stanca e una cosa non attenderò: la morte. Forse domani chiuderò questo cielo grigio che è sopra di me e volerò dove il cielo è più azzurro e lì attenderò altre cose. Forse le cose più insignificanti, ma che fanno più bene al cuore. Attenderò la notte per guardare le stelle appoggiata alla luna e poi attenderò il sole che sorgerà di nuovo su una nuova vita, ma forse, una nuova vita io non la voglio.
‘Na foto dentro a ‘n cassetto
Si, io so quello là. Quello seduto ar centro de la foto. Me chiamaveno er biondo, l’amici mia, Fausto
er secco e Tonino er losco, quello che se vede de profilo. Le regazze se lo litigaveno, era proprio ‘n
ber moro Tonino. Lì stavamo a Ostia, co ‘n gruppo d’amici. Ce potevamo avé su e giù diciot’anni.
Mesà che era er 65. Si, mesà proprio de si. Sta foto l’ho ritrovata dentro a ‘n cassetto de la scrivania
mia, a casa de mi madre, quanno so annato co mi sorella pé svotalla, visto che da ‘n mese lei se n’è
annata. Quant’era bella mamma mia! Co quei capelli lunghi, erti e neri, er naso dritto, la bocca
carnosa. Sembrava ‘na dea greca. ‘Gni vorta che rientrava dar lavoro, mi padre nun poteva fa a
meno de metteje le mani sopra li fianchi e sbaciucchialla tutta. A a lei je piaceva, ma se voleva fa
desiderà:“Lasseme sta Augu’ che c’ho da finì de preparà la cena.” E co addosso er zinale der coredo
che s’era ricamato tutto da sola, se diriggeva verso la cucina, co mi padre sempre appresso che la
baciava sur collo. Sta scena ce l’ho avuta sempre davanti. Me faceveno felice quei momenti.
Ritornanno a la foto, quanno che l’ho rivista, i ricordi so’ riaffiorati vivi ne la mente, come se nun
fussero passati tutti ‘sta’anni. Là eravamo pischelli, senza grilli pe la testa. Annavamo ar mare la
domenica co li peggio catorci, senza ‘n sordo ‘n tasca, co li panini che ce preparaveno le mamme
nostre. Mi madre me ne faceva sempre armeno uno co la frittata de cipolle, puro se ie dicevo che
nun me lo doveva fa perché annavamo ar mare pe’ rimorchia e le cipolle se faceveno sentì. Ma nun
c’era gnente da fa.
Io e er secco annavamo ancora a scola, lui stava a l’urtimo anno, io stavo ‘n’anno ‘ndietro. Nun m’è
mai piaciuto tanto de studia. Tonino ‘nvece aiutava er padre all’officina che c’aveva sotto casa. Nun
je piaceva. Nun je piaceva quer lavoro che je lassava le mani nere, perché er grasso de le machine
s’enfila sotto l’unghie, dapertutto e nun se leva mai. Lui se vergognava. Quanno rimorchiavamo
quarcuna le nasconneva sempre. Diceva che voleva cambià lavoro. Voleva ‘n lavoro che je facesse
guadagnà ‘n sacco de sordi. Ma quer lavoro nun è arivato mai.
Stavamo sempre ‘nsieme, avemo diviso tutto, puro quarche regazza. Marisa era ‘na pischella de l’età
nostra, bella come er sole , cò dentro a l’occhi du pezzi de cielo. C’aveva ‘na camminata che me
faceva ‘mpazzì e ce morivo dietro. Ma Fausto era più ‘nnammorato de me e dato che nun
acchiappava mai, quanno lei me fece capì che je ‘nteressavo, io feci finta che nun me piaceva e lei
pé dispetto se mise subbito cor secco che je sbavava dietro.
C’ho lassato ‘n pezzo de core, ma pé ‘n’amico questo e artro. Poi c’è stata Franca, ‘na morona arta
arta, cò du zinne dritte che quanno passava ce mancava er fiato. Ma nun fu difficile. Tonino nun ce
mise granché pé conquistalla. Cò quell’occhi neri nun je resisteva nisuna e siccome Franca era puro
de bocca bona, ce semo stati ‘nsieme.
A quell’epoca c’avevamo ‘n sacco de sogni, ma certo nun era facile vive dentro er quartiere nostro.
L’anni passaveno e Tonino er losco diventava sempre più smanioso, perché nun riusciva a levasse
quer grasso da le mani. Le regazze nun je mancaveno, ma lui s’era fissato cò ‘na regazzetta de li
quartieri arti, ‘na certa Anna. Io l’ho vista ‘na vorta sola e je dissi subbito che nu era robba pé lui. Ma
Tonino s’era messo ‘n testa che sarebbe diventata la fidanzata sua a qualunque costo. C’erano certi
tipi ‘n zona che nun me piaceveno pé gnente e ‘n giorno c’avvicinarono cò ‘na scusa e ce chiesero se
ce sarebbe piaciuto guadagnacce ‘n sacco de sordi cò ‘n lavoretto semprice semprice. Io e er secco
ce semo arzati subbito da la panchina ‘n dove stavamo a sede, sicuri che Tonino ce sarebbe venuto
dietro, ‘nvece quello nun s’è mosso da là. Quanno che s’è rifatto vivo, avemo capito subbito quello
che c’aveva ‘n testa, ma nun c’è stato verso. Se voleva ripulì, c’aveva fame de sordi. S’era convinto
che co la grana Anna se sarebbe messa cò lui. Quella matina feci sega a scola, perché nun avevo
studiato pé l’interogazione de francese e stavo annà a li giardinetti pé nun famme vedé da nisuno. Se
mi padre e mi madre lo sapeveno, cò tutti li sacrifici che faceveno pé famme studià, me gonfiaveno.
Era ‘na bella giornata de sole, ma c’era quarcosa nell’aria che nun me piaceva e quanno so arivato là
davanti, er cielo me s’è fatto scuro. L’occhi de Tonino er losco sembraveno ancora più grossi così
sbarati e sotto ar corpo snello se spanneva ‘n lago de sangue che me dovetti piegà ‘n due pé quanto
me fece senso. Nun la volevo vedé quella scena, cominciai a core verso casa e quanno enrai me
buttai tra le braccia de mi madre che nun capiva. Quanno io e er secco semo annati all’obbitorio pé
vedello l’urtima vorta, nun ce la facevo a guardallo ‘n faccia. L’occhi der losco s’erano chiusi sopra a
li sogni prima ch’er grasso je se levasse da le mani. Nun ce so annato più ar camposanto, nun ce
riesco. Fausto si, ce vedemo spesso. Ce semo sentiti sempre ‘n corpa. Se se potesse torna ‘ndietro je
direi a Tonino:”Tonì, lassa sta! Che t’emporta der grasso su le mani. Noi te volemo bene lo stesso.”
Ma ‘ndietro nun se torna.
Fausto mò è ‘n’impiegato communale e c’ha ‘na moje che pare ‘n generale tedesco.
Io de mi moje mò c’ho solo li conti da pagà, ma c’ho du fiji che so a vita mia.
M’ha fatto piacere rivedé ‘sta foto. Stasera chiamo er secco, je la vojo fa vedé. L’invito a cena e je
vojo preparà ‘na bella frittata de cipolle, proprio come quella che faceva mi madre. Mò esco, vado a
comprà ‘na bottia de vino rosso. Stasera io e er secco brinneremo a Tonino e a l’anni nostri più belli.
Vorrei che le mie mani diventassero
le radici delle tue piante nell’orto.
Così sarei il fitto rosmarino
che tutte le sere vai ad accarezzare.
Sarei la fresca e profumata salvia
quando la mattina presto ti impregni le dita
della sua rugiada.
E sarei il timo aromatico,
sparso ovunque nella terra,
mentre lo raccogli delicatamente per consegnarlo
con amore ai tuoi piatti.
Sarei il mediterraneo origano
che ti parla di calde terre, di mare, di rocce.
E poi sarei il giovane e vigoroso basilico,
brillante ed essenziale nelle tue estati.
Potrei essere l’intensa menta,
che rapita annusi ogni giorno
e che beata prospera, curata dal tuo amore.
E poi sarò il vento
che sussurrerà all’aroma delle foglie,
il mio desiderio di te.
Sussurerà piano l’amore
mentre ti imbriglierà i capelli.
Poi si farà pettine che li districherà.
Viaggio
Attendo
bianche scogliere
e verdi prati
Attendo nel faro di Texel
le mie insicurezze
e in riva all’oceano
l’amore
racchiuso tra rami di nocciolo
e caprifoglio
Tra l’erica
Il mio cuore soffocato si tinge di rosa
Caldi spruzzi
e gelidi fiumi
racchiudono la mia anima.
Il profumo della mia vita
La mia vita profuma di terra. Mi è rimasta attaccata alle gambe mentre raggiungevo il fiume in bicicletta.
E’ la stessa che portavi dentro tu.
La stessa che hai amato fino alla fine, che a volte ti ha fatto disperare, ma che non hai mai tradito.
Quella di tuo padre, quella che ha nutrito le tue sorelle e poi noi.
Arsa dal sole, bagnata dalla pioggia, massacrata dalla grandine, ma Madre di tutti che tutto rigenera.
Terra morbida dell’orto di mia madre, curata, amata, come noi.
Nel mio corpo scorre, come sangue nelle vene, percorsa da sentimenti puri che seminano passioni, emozioni, amori.
Terra intensa di girasoli sotto alla finestra.
Terra traboccante di grano, dove il vento improvvisa un concerto.
Terra nostra, terra mia.
Da questa terra parte un gancio che arriva, profumato, fino al cielo, fino a te.