Renata Paparo - Poesie e Racconti

Belladonna

di Renata Paparo

Il Regolano dalla penombra di uno spazio essenziale vuoto di arredi, delimitato
a semicerchio da marmi rilucenti e gelidi, avanza scivolando trasportato dai riflessi di luce, leggero come una foglia a pelo d’acqua su un fiume.
I suoi abiti mormorano con un lieve fruscio a contatto con il pavimento come lastricato di ghiaccio. Si ferma al centro della stanza dove, sopra di lui, la volta si incastra nelle tramezze di legno scuro, incombenti, a sostegno di questo sacrario edificato nei pressi della Canonica. Come l’arco si ripiega sulle sue stesse strutture, lui, uomo di chiesa, china il volto sul petto e stringe le spalle abbracciandosi in atto di contrizione per meglio conservare in sé l’apparente rammarico.
“Tu, Caterina della Libra, giovane segno di Dio, virgulto nella carne e nello spirito, hai prostrato il dono della Grazia fino a farne opera di maligno contagio, non hai avuto scrupolo nel farti vincere dal demonio, non ti sei rivolta al tuo confessore ma hai abbandonato la prudenza seguendo i ricatti sensuali del Male, io non posso che consegnarti la sentenza, data la volontà del Vicario e la Provvidenza di Nostra Madre Chiesa………”
“La tua……volontà… non mi reca dolore! Signore mio…..non ho colpe , né mi pregio di inganni……sono serva da sempre in ogni casa e nella casa di dio con particolare amore!”
“Amore blasfemo, corrotto dal desiderio di disporre delle trame del maligno.
Quante sciagure il tuo volto da femminella si è distratto dall’osservare, il tuo cuore dall’ammettere, magari compiaciuto! Non sono io ad enumerare le tue malefatte o le condizioni di danno che hai procurato, ma gli atti processuali!
Che dire del Canuto Peppone da Sarentino deceduto al secondo taglio di legna nel dì 21 del mese di ottobre, dopo averti visto transitare nel bosco quando la scure sfuggì dal solco del tronco per conficcarglisi nel ventre?”
“Non mi vide solo transitare, signor mio, se pure in onestà diciamo il vero, cercò di assegnare alla sua lama il compito di molte altre ferite e poiché incontro’ legnosa resistenza trovò quiete nel condurre a insano rifugio la sua lingua tagliente.”
“ Di che parli? Ammetti! Non c’è mai stata volontà di difesa o discolpa nelle tue parole al Banco della Resòn e pretendi ora di mettermi di fronte alla pietà?
Non provo pena per le tue membra storpiate, per la tua giovinezza fatta segno
dalle punizioni che, date, possono servire solo ad ingraziare gli spiriti sani ma non chi è indegno di correzione. Le tue labbra non ringiovaniranno più, i tuoi seni non allatteranno mai, i tuoi piedi non ti reggeranno che per pochi attimi ed il tuo sguardo folle verrà annullato nella nebbia dell’inferno. Così fosse per l’insania ed il peccato sempre…!
“Io non ho peccato , io Caterina della Libra, io so solo farmi verde: è forse un peccato?”
“ Dimentichi la morte atroce che hai procurato a Clementina la vedova del Federico Conte? Uno strazio dopo che le offristi da bere il latte munto fresco di giumenta e di succo di atropo, mentre versavi arsenico sui suoi capelli raccolti con severo riserbo in una treccia attorno al capo, treccia che scioglieva solo in preghiera…..”
“ Non solo, per onestà di dire, la treccia era sciolta nel prato anche quella mattina e non vi si recitava la Salve Regina ma, se ricordo , prima che il prato mi distraesse, erano in due ed intonavano il salmo della castità perduta ed uno era Celestino il fabbro!”
“Era! dici bene..”
“Erano! perché si fecero vermi nella terra…”
“ Non dissacrare la morte! Anche tu ti piegasti alle voglie del fabbro.”
“Per amore!”
“E, per amore lasciasti che il verde livore nel tuo sangue maligno aprisse varchi nella torre di San Valier fino a che le sue mura crollassero con danno
degli uomini di posta e dei fidati del Vicario?”
“Era il sangue dei varchi che voi apriste nel mio corpo e che lasciaste arrostire dalle lame infuocate dei vostri inetti. Volevate Satana, avete una donna, volevate un torto che non esiste, avete una ragione di odio.”
“ L’odio è distruzione dell’animo, vi compatisco piccola demente, ma non c’è altra cura per voi e per Noi se non la morte.”
Caterina non aveva più forze e mentre le braccia spezzate le penzolavano lungo i fianchi tremanti, volgeva uno sguardo disperato lungo le pareti di quell’androne gelido e senza vita. Solo la nera figura del monaco si stagliava nella profondità cupa che il suo sguardo non avrebbe sostenuto ancora per molto.
La vista vacillava, le lacrime colavano sul suo collo e pulivano il sangue raggrumato, il respiro si faceva sottile, rapido era il pulsare del cuore che preannunciava lo stravolgimento della vita.
Ma prima di accedere al coma vide, e fu provvida immagine, tra le giunte del marmo grezzo del portale di accesso da cui era venuta ed attraverso cui stava per essere trascinata all’esecuzione, un ciuffo di muschio che l’umidità aveva nutrito a tempo.
Lo fissò con estasi tagliente giudicata indegna dall’ uomo che ebbe ben poco tempo per riprendere la sua predica.
Caterina sentì il muschio soffice divenire carne nel suo corpo, lo avvertì penetrare nelle vene e condurre le sue solide radici terrose dalla vagina lungo le sue gambe storpiate fino ai piedi.
Penetrò il pavimento e salì fino alle travi di volta mentre il suo viso livido e bagnato fissò il Regolano chino per sempre sul petto spaccato.
Sacrestia e canonica furono divelte dallo squarciare dei venti che si erano alzati e la donna fuggì come erba nel prato.


 

Cena per ospiti

di Renata Paparo
Aveva deciso di concludere la serata simulando una felicità conviviale che era andata perduta nel tempo quello recente di qualche anno prima e quello prossimo della giornata .
Aveva scelto gli arredi minuziosamente per colorare la tavola e si era dedicata alla cena per accompagnare con un rito di addio il giorno già spento che andava scolorando sui vetri delle finestre.
Il pallido e trasparente biancore di una nebbia imprecisata dava il senso di un accadere prezioso abbandonato nel cielo. Tutto ciò che affondava nascosto, oltre la nicchia di casa, nell’impalpabile atmosfera stagionale, portava all’interno la speranza che qualcosa sarebbe accaduto, che qualche sostanza misteriosa si sarebbe espressa all’indomani.
Aveva l’impressione di essere un’anima rimasta sola come su un fronte di guerra, contro il silenzio dei giorni a venire, essendo l’ultima di una catena di familiare solidarietà protettiva.
La cena era per il suo mite compagno, per le tre deliziose figliole, depositarie di una temperie storica destinata a ricrearsi tra quelle mura palpitanti, e per qualche anima illustre.
Contro luce vedeva profilarsi il volto bonario e profumato della nonna, la custode della grande casa dove lei ora si aggirava cercando di imitarne la saggezza pratica.
Nonna Adelaide se ne era andata con molto stile, salutando le figlie che l’avevano soccorsa per un malore dopo che, pochi minuti prima, si era informata, come sacra abitudine, sulle previsioni del tempo e dopo che aveva spento il fuoco sotto la sua ultima minestra di verdura. Ora scruta il cielo che gonfio nel suo grigiore non darà nè neve nè pioggia ma solo un impalapabile silenzio.
Istruita da bambina alla meno peggio dai signori a cui era a servizio, il suo scrivere era rimasto un guazzabuglio ortografico di tedesco ed italiano, c’era da pensare che fosse un ladino quasi corretto, al contrario il suo parlare dialettale era curato e non privo di spunti estetici.
Il ricordo che di lei conserva la casa è insinuato nei profondi spazi per la biancheria da cui si spandono ancora profumi di bucati svolti con perizia, a mano e dopo aver bollito con la cenere, risciacquato e riposto, alternando rametti di lavanda, panni, lenzuola e larghe e lunghe mutandone bianche. Questa sera gusterà una polentina gialla e soda su cui saranno adagiati finferli di bosco soffritti con una punta d’aglio e prezzemolo.
La memoria silenziosa dà corpo alle sue cantilene dolcissime che con la voce un po’ affaticata intona adesso tra il crepitio della legna nel focolare come quando la stringeva tra le braccia, affondandola nel profumo di lavanda del suo grembiulone.
Erano canti antichi per commuovere così come antica e tremula era la sua voce; raccontavano della Tessaglia e dei “suoi campi aperti”, delle sue notti desolate, dei rimpianti e delle nostalgie d’amore. La sua preferita narrava di una bambina sempre ferma sulla soglia di casa che “attendeva alla porta, guardando di lontano per quella via” e quando un signore le chiedeva la ragione, la bambina proseguiva tragicamente “ perché quando la fu morta l’han portata di là la mamma mia”.
Alla fine sarebbe tornata la sua mamma da quella strada come “ i fiori al vaso, le rondini ai nidi e le stelle al cielo. “ Come in un universo chiuso, come in un tempo ciclico, come in un alternarsi dialettico. Viveva in quella canzone oltre alla memoria orale dell’abbandono sofferto, la poesia popolare e tutto un cosmo filosofico adatto ad una piccola esistenza affidata alle grandi braccia contadine della nonna .
C’erano poi le numerose figlie, le zie , caratterizzazioni innocue di un femminismo agricolo e ruspante. Elvira la gioiosa, la lucente e prosperosa cuoca che aveva seppellito un marito infedele e molti amanti. Le cronache della sua vita erano filtrate interpretazioni da improponibili riviste rosa, da scandalistiche lezioni di vita mediocre , c’era però qualcosa di vero che faceva sorridere. E’ora in cucina a dare consigli: un goccio d’olio speziato, una battuta di prezzemolo, qualche foglia d’alloro ed il focolare risponde facendo salire i profumi di sempre dalla nuvola del suo fuoco. Un sole mediterraneo e sensuale insaporisce i contorni e la frittura si fa croccante.
Quando la zia calava dai piani alti della casa il cestino delle merende e degli spuntini interrompeva i giochi in giardino, ma bisognava accettare per non offenderla. Erano merende improvvisate che danneggiavano la salute e costringevano ad assunzioni caloriche ed indigeste di grostoli, panzerotti, arancini saporiti fritti in un olio conservato per giorni.
Elvira, la loro Lucrezia Borgia, senza censure narrava dei suoi amori consumati prima e dopo i pasti, pranzi interminabili che si concludevano nei tardi pomeriggi , affacciati sul Golfo di Napoli, davanti a un piattone di fave crude e del vinello mediterraneo.
Emigrata in gioventù contro corrente, dalla montagna al mare del Sud, sarebbe tornata alla sua contrada ormai vecchiotta, pienotta e con tanta voglia di cucinare fino a che le sorelle erano state costrette a darle sepoltura per una rapida quanto crudele e punitiva malattia. Avrebbe voluto gustare ancora i piaceri della vita.
Forse il ruolo di Elvira la Napoletana si rinnoverà quando sarà lei a preparare i cestini da calare in giardino per nuovi piccoli aspiranti alla casa dei suoi sogni.
Al contrario intimorisce la presenza della madre meticolosa e pronta al rimprovero: gelosa del suo proprio ordine e delle proprie cose. Incapace di capire gli altri, di avvertirne i sentimenti tanto da escluderli dal suo orizzonte piuttosto infantile. Anche questa sera esprime il timore di tradire un equilibrio apparentemente austero ed introverso ma in realtà fragile ed esposto ai rischi del confronto affettivo con la figlia. E’ ora già accomodata e guarda i colori della tavola, felice di essere stata invitata.
Era scomparsa troppo presto generando un caos di rimorsi e questa sera avrebbe apparecchiato per la sua mamma, per imporle il lascito di una presenza perché di lei non languivano profumi particolari od oggetti che ne generavano il rimpianto, quanto immagini fugaci, luci di occhi solo talvolta resi felici dal suo carattere imprevedibile da bambina scontenta.
Prima di lei era scomparsa dalla casa una commensale importante, la preferita, la saggia, quella che la nonna non doveva mai rimproverare: l’anziana Amalia di cui per maliziosa gelosia le sue uterine avversarie diagnosticavano la frigidità.
Era donna buona ed ignava incapace di nuocere come di dare soddisfazioni. Se ne aveva un po’ timore per quella seriosità pesante, per la rigidità degli orari, per l’incapacità di godere dell’imprevisto e anche dell’inessenziale della vita.
Mentre se ne era andata un pomeriggio caldo di giugno aveva fissato il suo sguardo di rimprovero al mondo. Anche lei non se l’aspettava ma era il suo tempo. Ed adesso fa capolino in cucina per sollecitare la preparazione dei piatti per non perdere quel tempo di cui è tanto gelosa. Quando le zie si riunivano a tavola portando con loro altre frange di famiglia era una festosa calamità per chi cucinava. Il battibecco dialettale, la vita del paese ricreata nei pettegolezzi ornati , i soprannomi che autenticavano le personalità evocate anche dal vino, rimanevano quando era estate negli angoli di giardino dove si apparecchiava protetti dalle ombre di pini , mentre restavano nei tempi invernali là dove la cucina economica addensava l’aria dei profumi della legna. Nel ventre della casa come adesso in attesa di quella nevicata speciale che capita poche volte nella vita ed ora è sempre più rara.
Intanto tuffa le patate da “rostire” nell’acqua del lavabo ed anima la legna della stufa.
Le sue mani le appaiono stanche e intarsiate e le dita affaticate nei movimenti: le tuffa e rituffa perché l’acqua le dà vigore e desiderio.
Prende un coltello e le affetta regolarmente mentre l’acqua viene risucchiata nel piccolo vortice dello scarico.
Forse il rumore dell’acqua, forse il crepitio del fuoco vivente, le portano l’immagine delle grandi mani della sua piccola ultima zia. Le mani tozze e rossastre della zia Maria che si immergevano con rapidità e solerzia insieme allo straccio dei pavimenti nell’acqua gelida e incontaminata.
Sciacqua e risciacqua: dal lavabo ai pavimenti, dai pavimenti al lavabo e poi alle mattonelle, agli stipiti agli stipetti con l’ossessiva volontà di fare pulizia.Questa donnina minuta apparentemente la più fragile era coraggiosa ed inventiva.
C’era sproporzione tra il corpicino e le mani proterve e i piedi carnosi ma soprattutto rispetto ai suoi occhialoni dalle lenti spesse che la zia tuffava per detergerli nell’acqua del detersivo , dopo aver nettato tutto ciò che costituiva oggetto mobile ed immobile nel raggio della sua cucina.
Gettava quegli occhialoni che erano la sua vita nell’acqua , un po’ per trovare riposo annebbiando la vista che la separava dal suo mondo domestico, un pò per gesto scaramantico di distacco dai pensieri che fino ad allora l’avevano posseduta. C’era da attendere un intero pomeriggio di pulizie prima che lei e la sua zia riprendessero i loro giochi, le loro fantasie di viaggi impossibili, d’avventure e conquiste: che ne sarà stato della fattoria in Africa?
Ora a cena la piccola zia pallidina biondiccia con gli occhialoni dalle lenti spesse sarebbe stata vicino a lei.
La grande piccola zia Maria era nata nel 1927 che la davano quasi per morta , non disponendo ai tempi di alcuna incubatrice fu affidata prima al cielo con un battesimo immediato in onore della Madonna di cui miserella difendeva il nome, e poi alla levatrice che la portò a dimensioni meno rischiose con infusi di miele e cenerella dei cimiteri.
Resistette più delle altre e fu l’ultima a richiedere il rito del distacco proprio il pomeriggio di questo giorno uggioso di fine inverno.
Intanto le patate arrostiscono e tocca alla carne ad essere steccata insaporita e rosolata nella padella di ferro della nonna.
Era stato un rito improvvisato: la zia delle Fantasie aveva chiesto di essere dispersa nei boschi del tabià, un alpeggio meta delle merende con il nonno e le sorelle.
Il suo desiderio espresso da tempo ed affidato alla sua unica compagna di giochi sarebbe stato esaudito.
In quel pomeriggio lei ed il marito con l’urna sul sedile posteriore avevano affrontato lo sterrato verso il tabià, un lungo freddo percorso nel bosco reso improponibile dal ghiaccio delle gelate recenti.
L’umoredel bosco non era quello estivo quando la zia andava a “fare fuoco” nel rifugio ed a giocare con le sorelle, il che aveva reso le operazioni più difficili e fatto balenare il senso di colpa ed il timore di abbandonarla al freddo. Ma sarebbe prima o poi tornato il disgelo.
In quel silenzio addolorato e in attesa, oltre i prati che reclinano dal maso del tabià, tra abeti larici pini, un intrico di arbusti noccioli e pruni, slittando sulle pietre di muschio impregnato, avevano portato la loro cassetta passandosela tra le mani e non risolvendosi sul luogo più adatto.
Avevano avuto poco tempo per decidere e per soffrire di un pio raccoglimento perchè, nonostante l’ora avanzata del giorno, il gelo umidiccio di fine stagione, avevano cominciato ad echeggiare sullo sterrato le sterzate di un Ape carico di legna, lo sferrazzamento di una Vespa forse del Guardiaboschi, l’accelerazione di una moto da cross che sorpassava il tabià verso alture più coraggiose.
Erano stati costretti a nascondersi e a spargere un po’ di cenere dietro ad un masso, dentro a un cespuglio ed a spargerne ancora un po’ vicino al torrente, oltretutto con la coscienza in debito verso l’addetto alle sepolture che aveva loro richiesto di non spargerla tutta.
La cerimonia aveva avuto dell’imprecisione, vissuta tra il riso ed il pianto, un po’ come quando lei e la zia improvvisavano le parti di personaggi di vecchi film.
La zia era Gregory Peck padre che le sottraeva il Cucciolo, era la zia di Tom Sawer, era la Madonna che appariva dagli alberi con un balzo improvviso a Bernadette assorta e inginocchiata ma stupefatta dalle acrobazie iconografiche della zia. Serietà e riso, tale è l’arte del gioco e quando la Mary era “fuori servizio” e disattendeva le pulizie era una compagna unica.
Mentre l’arrosto rosola, comincia a tritare la cipolla e la carota per il sugo .Sul tagliere la mezzaluna inesorabile aveva reso il trito una poltiglia.Le viene in mente Dosolina ridotta a pezzettini dall’amato. Non c’è fiaba più bella, ma non ricorda la trama, ha la certezza di averla persa per sempre, abbandonata al Tabià con una parte della zia Maria, esposta al vento, dissolta. Ma quale parte della zia? Le mani grandi che pur avanti negli anni erano fresche e vitali date le continue immersioni? I piedoni di cui si vergognava perche un po’ tozzi ma conservati con cura? Non il suo seno che non esisteva. Piuttosto gli occhi azzurri appannati ma pronti a far tesoro di ogni esperienza per ricordare nei minimi particolari il poco mondo che erano riusciti a filtrare. Oppure erano i capelli a fluttuare tra gli aghi di pino , o la piccola bocca sofferente sul prato umido?
Dov’è la zia? Con Dosolina? La tavola è colorata e la luce la raccoglie nell’intimità sfiorandola dall’alto.
Ha preparato anche una torta salata e aspetta che il marito e le figlie ritornino dal paese.
Non si sente certo sola adesso, ma abbandonata sì, in trincea ad aspettare il prossimo turno. Attesa che rimuove con i profumi della cucina e sorseggiando un bicchiere di vino.
Adesso è proprio buio e sente un motore fermarsi nel piazzale, poi qualche passo e il trillo del campanello in fondo alle scale. Soprassale, un po’ inebriata dal vino, poi si compone, scende di corsa per evitare che chi ha bussato si allontani e apre. Un ragazzo sulla quindicina, poco più, le sorride. Ricorda vagamente di averlo già visto in paese. E’ bello, stretto nella tuta scura aperta sul pettorale, regge con una mano un casco nero da motociclista. La saluta in dialetto. Si salutano. Poi lui vince l’incertezza della donna estraendo qualcosa dalla tasca.
“La me scuse, l’ha perdù valghe (qualcosa) tel bosco sto pomeriggio. La me mama l’ ha dito di portargheli”
Lei non afferra bene la situazione ma conferma come se le fosse tutto chiaro e prende “il qualcosa”ringraziando.
Riconosce tra le mani gli occhiali con la montatura giallognola e trasparente e le lenti da miope, spesse quanto una vita. Gli ociai appunto della sua zia. Ringrazia, risale le scale, spegne i fuochi della cucina e dispone quegli occhiali al loro posto sulla tavola apparecchiata per la festa. D’altronde non tutto ciò che accade trova un senso immediato e proprio per questo bisogna saper gustare nella mente la magia dell’impossibile prima di darne una ragione convincente.


Dialogare all’ultimo. 1

di Renata Paparo (liberamente tratto dal Fedone platonico)
“ Carissime, allontanatelo vi prego, non riesco a morire!”
“ Su, carissime, accompagnate le figlie fuori dal carcere! Hanno lasciato le porte spalancate proprio per agevolare parenti, amici….ad entrare per un saluto sì, ma anche per uscire con affettuosa discrezione, meglio ricordarsi vivi come del resto è tale,in un modo o nell’altro, la condizione per ricordare….”
Detto sottovoce a Nasturzia “ io condurrei questo pianto parentale a distrarre gli occhi e ibernare il cuore, perciò lontano da qui, magari dalla città….” , detto al marito che non si è distratto dall’ascoltare, “ se lo farai per me ti bacio adesso e per sempre! Caro amore paziente lascia fare alla cicuta il suo effetto, lasciala agire nel corpo che piano, piano, come le onde si ripiegano sospingendosi ad una ad una, così il sangue sta trasmettendo la sua capacità di inerzia alle mie parti superiori che un po’ si ribellano al loro progressivo immobilizzarsi: deserto dietro, vento avanti e polvere che si solleva…- ridacchia…- quando la bocca ne sarà impregnata allora smetterò di chiacchierare”…bacino…..
“Come vi dicevo tre prove potrebbero convincervi che non morirò.
La prima è che noi ruotiamo come esserini in circoli cosmici permanenti: l’andata è il ritorno perciò non c’è viaggio, il che potrebbe deludere le aspettative dei vostri assetti esistenziali che si disegnano appunto solo in quanto proiettivi, attendisti, speranzosi…relativi e implicanti l’annullamento, morituri insomma!
Lo squilibrio temporale che viviamo potrebbe risolversi o attribuendo l’esistenziale al cosmico, come fanno le religioni, o il cosmico all’esistenziale, come piacerebbe a me, anche se poco cambia, perchè il tempo sia che proceda in avanti o scorra all’indietro è eterno ritorno, assenza di misura, noi siamo frutto di quell’assenza. La cosmicità non assicura l’individuo, l’eccentricità non assicura l’anima. E’ plausibile chiedersi se gli accidenti hanno necessità? Direi che la necessità è fatta solo da accidenti che vanno ben collocati.
2
E’ una questione di logica degli accidenti. Il problema è che immaginiamo la permanenza del circolo in un verso di direzione, l’esistenza del campo secondo una geometria fisica che moltiplica quelle stesse direzioni e quelle stesse contingenze. Sempre una variabilità ordinata e pensabile. Lo sradicamento è follia. Io non posso dire di essere immortale, ma certamente nel circolo dico di non essere semplicemente mortale piuttosto ..dispersiva…vagante…scheggiabile…polimorfa? E’ troppo? Cara Rigagnola sempre a sospirare…non mi dai mai il barlume della speranza..
Ecco, poiché nel mondo tutto vaga, la natura del mondo sarebbe monca se non vagassi anch’io…prima e dopo cioè sempre….
La seconda dimostrazione implica un argomento bello e difficile! Ho un qualche rapporto con il corpo? Con il mio- chiedo-, con quello degli altri è dimostrato! Oh sch, si è allontanato il mio amore?”
“ Con le figlie, maestra, con le figlie!”
“ Bene, cosa significa avere un corpo? E’ lo strumento percussore della mia musica? E l’io pensante è un abito personalissimo che continuiamo ad indossare magari a seguito di una raccolta di indumenti? Musica-abito, corpo- strumento? Sono paragoni fragili perché grancasse e tailleur sono composti di parti e gli atomi si sparpagliano quando è ora. L’io è senza parti, senza somme, senza corpuscoli, è un collante tensibile attrattivo gravitazionale ovvero non fisico ma metafisico..ovvero: lo si conosce non perché qualcosa vi cade dentro, ma qualcosa vi cade perché lo conosciamo. Bosonexyinf. Particella collante. Monade…ho già sentito un’asserzione simile, un po’ poco di moda. Penso che si debba intendere il principio costitutivo di ogni individualità, centro di formazione, per ritornare così al circolo di prima….Cose donne animali piante nonchè…..solstizi…annuvolamenti…concrezioni….astrazioni vi ruotano attorno. Se non ci fosse “io sono” non ci sarebbe attrattiva di natura e ciò vale per ogni presenza al mondo…Bacio.!…Quindi il semplice decomponibile che io sono deve esistere perché esista il composto…l’enigma del mondo è che si fa pensare così….ma se il mio io non fosse enigma la natura sarebbe monca anche in questo caso perciò “ego sum ainigma” come condizione perché il ” sum” sia. Dal piano cosmico al piano microcosmico, la terza riflessione è ancor più bella, amiche mie, perché riguarda tutte quelle idee che si sono formate nella testa come le foglie sugli alberi ed una in particolare l’ “idea di vita”.
Arsenico cara non di vite…..perciò non aguzzare la vista verso le vivande…brinderete dopo, alla mia salute!
E’ un’idea che resta ben attaccata al ramo nonostante il forte vento e lo spifferare mirato contro di lei. D’altra parte non è più – anzi mai stata- un valore in sé ma un’opportunità per cui la lasciamo appesa per comodo a non significare in sostanza nulla. Se non ricordo male c’è chi ha cercato le cesoie ma non solo non ha reciso, non è riuscito nemmeno a suicidarsi. Ed ultimamente parlano di un albero intero i cui frutti sono la vita….ma l’albero è finto ed i frutti non commestibili…..immagine …immaginate…!
Ho dunque l’idea di vita perché vivo? O continuo a vivere perché ho l’idea di vita?”
“Maestra!!! E’ l’effetto della bevanda mortifera che vi fa dire cose che non si capiscono o sono ovvie?”
“Mi spiego Prolissa bella: è un’idea che riguarda la mia esperienza e la espone al rischio mortale imprescindibile? oppure riguarda anche cose morte che continuano a vivere ma non necessariamente a respirare?
Idea di vita è idea di anima che anima perché è animatrice del mondo ma che abbia poi esistenza meno di poco importa…
Importante è non appenderla nella testa, ma farla scorrere nelle mani…
Ora non chiedetemi di ripetere perché si intorbida lo sguardo e Prolissa! richiama il mio amore!…” “ma è lontano…”Arsenico tienimi la mano ti prego sta nascendo la mia morte…e ricorda….ti prego ancora di dare cibo alla gallina, glielo dobbiamo, nonostante Asclepio, è rinchiusa come me in un pollaio, sono giorni che becca senza speranza!”

Arsenico Prolissa e Nasturzia si avviano ad apparecchiare la tavola per brindare alla salute dell’amata maestra il cui non sapere era più caro del loro sapere.


Touch

di Renata Paparo
Un’esperienza per quanto toccante, non lascia mai un segno indelebile quanto la depressione.
Anche dopo averla superata un sentimento di disillusione diventa il filo conduttore dell’ esistenza mettendo a rischio la giocosità con cui affrontare certi eventi da nulla, e provocando inquietudini ansiose nell’ affrontare situazioni quotidiane e, nei casi peggiori, l’indifferenza verso il futuro comincia a regnare nel cuore.
Dotata un tempo di una gradevole intelligenza e di un fascino non ostentato, Maria era riuscita ad interpretare secondo la sua femminile sensibilità di potenza quanto al maschile era stato promesso all’uomo volitivo.
Il che significava, tradotto per il senso comune, affrontare la routine quotidiana, vivere le avventure e le disavventure come se fossero vicende di una scena che lei stessa aveva contribuito a montare, a dotarla di fondali e di comparse sia pur in un suo teatrino di periferia.
Era quasi sempre riuscita a trovare nell’impresa dell’esistenza l’ occasione di personalizzare le proprie storie nel bene e nel male.
Nonostante le buone intenzioni della fantasia, la realtà spesso pone di fronte a strettoie anguste che non consentono di procedere se non sovvertendo ogni equilibrio.
Il che accade quando si perde il ruolo di protagonista. Peggio ancora quando la baracchetta di provincia amorevolmente allestita per i propri soggetti teatrali brucia con i risparmi di una vita.
Maria si trovò un giorno seduta sui resti di un muretto di fronte alle assi del palco che finivano di cuocere riscaldando l’aria già impregnata di fumo, mentre di fronte a lei si apriva uno scorcio di prato fumante, brullo incolto ed inghiottito dalla nebbia biancastra proprio dove il suo sguardo cominciava ad intravvedere ombre femminili che pur affidate ad una professione da cui si sentiva in quel momento assolutamente esclusa, le davano la speranza di poter piangere con qualcuno….. Ritornando con la mente in piedi nel corridoio di casa dove stava spostando il corpo infiacchito dalla camera da bagno al letto, Maria si disse che era necessario riflettere, anche se esaminare la sua situazione le provocava staffillate nella carne.
“Non è possibile che essendo stata una moglie abbastanza serena e nel complesso felice, da qualche giorno mio marito, di cui ho nutrito la più profonda fiducia, mi aggredisce verbalmente con rancore accusandomi di avergli sottratto gli anni della sua giovinezza, di avere un distacco, di avere un’amica, per poi piangere sospirando che non sa se questa donna lo vuole , oppure che capiti che lui appoggi la testa sulla mia spalla come un bambino con lo sguardo deplorato e quando cerco di ascoltarlo e parlargli ritorna a rinfacciare di tutto.”
Eppure accadeva a Maria che non era in quel periodo tanto forte da non credergli o da rinfacciargli altrettanto.
Comunque al di là dell’esaurimento mentale del marito che solo chi frequenta certi ambienti aziendali può capire, tra associazioni e dissociazioni, lei si sentiva vittima di un adulterio. Vittima all’ennesima potenza visto che continuava a immaginare una giovane donna in carriera e senza volto frequentare tutto il giorno quell’uomo che poi puntuale ritornava da lei per la cena, per il letto, senza risparmiarle il ruolo di moglie. Se il suo teatrino fosse stato ancora in piedi avrebbe vestito i panni di Ofelia avendo già il viso segnato dal sentimento dell’amore che uccide.
Maria infatti da madre provvida ed attenta divenne una donna attratta dalla finestra del bagno e desiderosa di sporgervisi per sempre.
Non aveva lagune a disposizione dove chi decide di morire compie un atto sacro di offerta e di congiungimento primordiale con la madre di tutte le madri.
Il suo archè d’altronde era sempre stato il fuoco, più paterno e virile dell’acqua. Ma di sicuro se chi si suicida si fermasse solo una frazione di secondo a guardare il suo corpo sul selciato di un cortile dove si affacciano tutti i bagni del condominio, risparmierebbe un gesto così orribile.
In certi momenti non hai frazioni di secondo, nè volontà e potere.
Maria si salvò perchè nelle fantasie suicide, che sono in genere più lente e grottesche delle idee sublimi, si rese conto di voler trascinare con sè i figli, soprattutto il più piccolo, e decise di abbandonarle per sempre e dare piuttosto flusso al dolore che la divorava notte e giorno.
La notte quando fissava sveglia i suoi incubi aggredirla dalle pareti, il giorno quando dopo il lavoro si abbandonava sulla poltrona dello studio e subiva la tortura degli oggetti che si infilavano nella sua gola per divorarla.
Quell’anno a voler essere precisi, anche le sue questioni professionali l’avevano messa a dura prova.
Maria aveva da sempre insegnato con soddisfazione in un liceo centrale, piuttosto rinomato e dotato di ogni struttura didattica qualificante.
Qui aveva trascorso otto anni apprezzata da studenti e colleghi e nelle pause libere poteva passeggiare tra negozi , statue, teatri, alberi del parco e sentirsi come in vacanza all’estero. Erano anni di ostentazione commerciale e consumo borghese mentre le finanze della sua famigliola erano quasi sempre a secco, perciò comprava ben poco di quello che le sarebbe piaciuto, ma per lei guardare era già possedere e faceva progetti di viaggi che col tempo era sicura che avrebbe realizzato.
A Maria sarebbe interessato conoscere tante lingue e parlare all’estero con la disinvoltura che qui spesso le mancava.
Avrebbe lavorato in Africa, seguito corsi alla Sorbonne, migliorato il suo inglese al Leaving Theatre. Per cominciare decise di abbandonare il settore privato ed affrontare l’iter delle nomine annuali presso il Provveditorato degli Studi.
Il Provveditorato era un luogo da incubo non tanto dal punto di vista architettonico, nonostante si trattasse di un insieme prefabbricato di stanze a cubo inserite in un palazzo grigio incombente del ventennio, divise da corridoi improvvisati dalle cui bacheche penzolavano elenchi ed avvisi di ogni tipo e che nascondeva un seminterrato dove avveniva la triste convocazione dei precari, ma lo era dal punto di vista dei contatti umani che avvenivano in continuazione senza mai realizzarsi, condensati in parole che rispondevano a parole senza speranza di concludere un concetto, di ricavare una informazione cui facesse seguito un evento auspicabile.
Quell’autunno non c’erano cattedre a disposizione e lei venne convocata per intercessione burocratica a metà dicembre.
Un giovane responsabile, quel giorno, fu gentile, d’altra parte nello scantinato era sola o con un altro paio di reietti e accettò l’incarico rimasto, firmò il documento di nomina salutò e quel giovane signore la congedò dicendo “ Buona giornata professoressa!” Quelle parole le risuonarono come un presagio.
Nessuno chiama mai ‘professore’ uno che accede come questuante al Provveditore.
Sulla strada riguardò il foglio di nomina e la sua firma. Il freddo era abbastanza intenso , il vento cominciava ad ostacolare il passo soffiando lungo la ferrovia che taglia Ripamonti e prendendo poi ogni direzione quando non era più costretto dai caseggiati che affiancavano le rotaie.
Una folata le diede un brivido che la spinse verso una direzione.
Raggiunse la fermata di un autobus che l’avrebbe portata nelle vicinanze del Penitenziario criminale dove avrebbe assunto l’incarico di docente di Filosofia.
In quel momento separata dai suoi cari, dalla sua vecchia scuola, dalle strade che la illudevano , si sentiva sballottata verso itinerari decentrati che la facevano sentire povera in canna , come un salariato a giornata od un bracciante fuori stagione ed in più con l’incombere prossimo degli orali di un esame di concorso, di cui aveva superato lo scritto, le rate scadute della sua seconda iscrizione universitaria nella lontana città di Padova ed i corsi di specializzazione che aveva iniziato a seguire presso il centro di iniziativa democratica degli insegnanti.
Una punta di nausea le sfiorò la fronte, le sembrò di viaggiare in una barchetta che aveva scaricato il pesce subito prima di affrontare di nuovo il mare e che la stava ospitando sottocoperta.
Maria non ebbe un immediato tracollo ma nei giorni sucessivi l’eaurimento, un pò fisico un pò mentale, le causò subito una evidente riduzione del peso corporeo, poi l’ombra minacciosa dell’ invecchiamento precoce.
Già su quell’autobus, quella mattina, spettinata dal vento, con un cappottino da quattro soldi ed il “buona giornata professoressa”, nelle orecchie, detto dall’unico uomo giovane e carino del Provveditorato che l’aveva sia pur in modo cordiale e con una punta di sarcasmo posta in un ruolo da vecchia, non riusciva a sopportare il suo viso riflesso nel vetro del finestrino; ma poichè non poteva, per via della nausea, fissare se non oltre il vetro, quando il riflesso della luce cambiava o l’autobus virava con tutta la puzza del pesce impregnata tra i sedili, era costretta a vedersi e non si piaceva.
Si rese conto che il battito del cuore aveva disertato la sua sede naturale per produrre impulsi costanti all’altezza dello stomaco.
Mentre percorreva distanze che le parevano enormi, seduta in un angolo del mezzo di trasporto, il suo male si presentava feroce e le usava violenza fisica e morale: non c’era manifesto pubblicitario, immagine sulla carta stampata, sguardo di umano che non la riducesse a pezzi.
Il suo mondo era tombale: il cielo sereno le ricordava il passaggio di stagione che non aveva intenzione di vivere, il volo delle cornacchie che erano state per lei qualche settimana prima presagio di un lungo inverno, la seguivano ora come uniche amiche capaci di tessere una rete di protezione nel cielo attraverso l’intesa del loro reciproco richiamo. Migliaia di cornacchie nere nel cielo la accompagnavano al lavoro.
Lei assunta come consolante educatrice portava la propria prigione in carcere e cercava di non farlo vedere.
Quando le prime porte blindate a vetri si serrarono dietro la sua schiena , nelle sue costole si materializzò la sensazione che una prima via di fuga le veniva preclusa: esibì la sua carta d’identità e aprì la borsa per un controllo. Altre porte ermetiche e pesanti lentamente si aprirono di fronte a lei per farla passare e, con un medesimo silenzioso rispondere a comandi elettronici, si serrarono alle sue spalle intimando un secondo grado di reclusione.
Entrò nei giardini , circondati da un muraglia sorvegliata dall’alto da punti di vedetta e si trovò a camminare nei vialetti circondata da centinaia di guardie in divisa variamente affaccendate in direzione di uffici, o delle mense o dei magazzini o del bar o altrove.
Scoprì poi che tra loro si confondevano i detenuti che con permessi speciali erano adibiti ai lavori di giardinaggio, manutenzione e trasporto.
I secondini se in borghese, perchè avevano appena finito il turno o si appressavano a riprenderlo, non erano poi tanto diversi dai carcerati, anche nell’espressione piuttosto rassegnata.
Maria prese le consegne dopo essere passata al vaglio del Direttore, uomo cordiale ed esperto di devianze tanto da accentuare in lei un sentimento di disagio, ed iniziò ad improvvisare un ruolo.
Ogni mattina seguiva il flusso delle divise dei secondini, prima verso il braccio femminile e poi nelle prime ore del pomeriggio verso il braccio maschile. Qualche cornacchia, sorvolando dall’alto la processione nera di uomini nei cortili, incoraggiava la speranza che fuori avrebbe rivisto dopo poche ore il mondo, per quanto sepolcrale, e che bastava un battito d’ali.
Era assunta da pochi giorni ed amministrava il suo orario provvisorio come le pareva anche se avrebbe avuto bisogno di qualche prescrizione per sentirsi più sicura.
Il carcere femminile era piuttosto dislocato e la cancellata, alta come il muro di cinta, non era ad inferriate ma tutt’intera di ferro. Dopo aver suonato un campanello come quelli dei comuni ingressi, il portale scivolava lentamente arretrando per pochi centimetri e Maria passava. Una micina gironzolava curiosa. Dalle finestre del caseggiato penzolavano appesi alle sbarre sacchetti di ogni tipo, gli odori diventavano inconsueti ed il silenzio, che intimoriva fino dal cancello, restava sullo sfondo come indice di disciplina mentre andavano a stagliarsi con maggior eco risate di disperazione.
Entrata nel carcere femminile Maria era accompagnata dalle secondine in una celletta e rinchiusa in attesa che le donne avessero voglia di scendere, diciamo così, a lezione.
Mentre attendeva, il suo corpo respirava per lei come un piccolo mantice meccanico ma la sua mente si sentiva paralizzata e senza scopo. Ricevette un giorno un’ unica visita da parte di una giovane donna molto bella che avendola scorta in quell’angolo di solitudine cercò di consolarla parlandole delle sue disavventure vissute con orgoglio “ Non posso stare qui!” confidò “ sono condannata all’ergastolo ed in isolamento, non mi è permesso parlare con estranei, ma finchè non se ne accorgono…io sono una terrorista, sono appartenuta al gruppo…. e non mi pento di nulla anzi, sai ogni tanto viaggio da qui al carcere di Padova perché studio lingue orientali, sono iscritta a Venezia ed i professori vengono a farmi gli esami in prigione. Io sono contenta perchè stando qui coerente con me stessa mi sento un piccolo centro del mondo. Coraggio!” Altre volte quella donna si era avventurata a salutare Maria per visite rapidissime. Sembrava molto impegnata. Aveva uno sguardo sereno, un portamento distaccato ed elegante, un eloquio piacevole e lasciava dietro a sè un alone ascetico che non si lasciava scalfire. Maria pensava:
“ Padova, Padova, la odio!”
Quando non veniva , altre giovani donne si recavano nella stanzetta e si facevano annunciare dal fondo del corridoio da risate sonore e turbatrici che si spegnevano alla vista di Maria.
Nelle orette che avevano a disposizione un unico costante tema le interessava e le distraeva: gli amori vissuti, quelli da sperare, quelli da cui erano separate e che non avrebbero rivisto per molti anni. Chi aveva mariti, chi amanti, chi figli in continenti lontani.
E tutte in genere si trovavano lì, magari colpevoli di spaccio, per ignoranza, ingenuità o bisogno.
Con Maria si era creato un legame debole, lei non era in quel momento una donna da interessarle molto, eppure con il tempo crebbero le confidenze.
Capitava che dopo aver narrato le loro memorie, si dimostrassero così propense a desiderare l’amore da essere riuscite a tessere trame, ordire complotti di incontri in infermeria, complicità di sguardi e dichiarazioni per interposte persone con uomini anche loro detenuti.
La loro nostalgia del maschile era molto toccante ed a Maria sembrava provassero un ingenuo rimpianto per l’assenza di un proprio pubblico così come lo prova ogni illusionista a fine carriera.
In fondo anche per lei era lo stesso.
Un giorno una detenuta pienotta ed un po’ sguaiata le mise in mano di nascosto un bigliettino e con un fare molto misterioso, perchè non era permesso portare messaggi all’esterno, le chiese di telefonare ad una radio locale che ogni mattina e ogni sera mandava in onda dediche di innamorati per fare a suo nome una richiesta.
Il tono un po’ implorante e un po’perentorio lasciò incerta Maria anche se ormai si era resa conto che avrebbe servito poco come insegnante.
Senza essere vista lesse il bigliettino che conteneva il titolo di un’ignota canzoncina, di un altrettanto ignoto gruppo musicale e la dedica che suonava press’a poco così:
“ a Tizio per sempre da Caia misteriosa”.
Per quanto ne sapeva poteva trattarsi di un messaggio cifrato e perciò se lo rigirava nelle mani come per distruggerlo senza avere il coraggio di buttarlo.
Al braccio maschile l’ingresso si presentava altrettanto blindato.
Qui, una volta entrata, Maria avvertiva gli echi della caserma ed il clima in generale era militare: una rigida assegnazione di ruoli, esercizio fisico temprante, cura minuziosa della pulizia.
La colpì subito un giovane uomo che tutti i giorni, fosse mattino che pomeriggio, aveva il compito di lustrare a cera il pavimento dei corridoi, rendere trasparenti le vetrate, rendere impeccabile i servizi, lavabi, gabinetti, mattonelle.
Si chiese a chi Dante avrebbe assegnato questo destino e pensò ad un irascibile, un uomo privo di autocontrollo o ad uno molto sporcaccione.
Per svolgere il suo incarico aveva a disposizione un paio di cellette dove gli studenti si riunivano abbastanza numerosi, un po’ a parlare, un po’ a studiare. C’erano vecchietti arzilli che non sapevano scrivere, c’erano extracomunitari che non conoscevano l’italiano, c’erano mafiosi o vittime vendicatrici che discutevano di morale, c’erano schizofrenici che insegnavano di religione e tutti, ma non è una novità, disprezzavano la filosofia perchè mette tutto in dubbio e non rende niente.
In alcuni momenti insopportabili Maria si sentiva giudicata male e non riuscendo a replicare se la prendeva prima di tutto con se stessa.
Intanto l’uomo delle pulizie passava inesorabile lo straccio sulle superfici che aveva lucidato qualche ora prima. Anche a lui non era permesso frequentare quella specie di lezioni. E, come la donna irriducibile del braccio femminile, lui pure aveva un alone di silenzioso mistero che attirava la curiosità.
Un giorno che sedeva sconfortata nel suo anfratto ed una collega, per via di qualche sua confidenza, la riprendeva, come chi crede di sapere tutto, incoraggiandola a reagire dal suo stato, aggiungendo che nessuno deve farsi ridurre così da un marito e via dicendo, Maria incontro’ lo sguardo del condannato alle pulizie e si guardarono condividendo un attimo di confidenza.
Era la vigilia della fine della scuola, prima degli esami, e si decise di festeggiare con gli allievi portando torte, dolci e pasticcini che entrarono superato il vaglio del metal detector, aprofittando anche di un po’ di vinello della mensa.
Come nelle normali aule scolastiche i festeggiamenti, dopo la lectio brevis e prima delle tregue estive, conciliano docenti e studenti così, nonostante le inferriate, l’auletta del carcere conciliò detenuti e professori tutti intenti ad esorcizzare la reclusione con brindisi nei bicchieri di carta.
L’uso dei bicchieri di carta aveva il merito di far vivere la situazione come provvisoria.
Maria improvvisamente si alzò con il vassoio e le paste rimaste e si allontanò nel corridoio verso le latrine. La fermarono i secondini e lei si spiegò. Uno di loro fece echeggiare un cognome con tono severo di richiesta e l’uomo alle pulizie
sollevandosi da terra, guardò dal bagno al corridoio mentre Maria si avanzava porgendo i dolcetti.
Lui asciugò le mani nello straccio e la fissò con profondità di sguardo ed un sorriso.
Il suo volto era piacente con gli occhi azzurri e l’incarnato chiaro, una testa bionda con i capelli disordinati, ma anche con i lineamenti provati da un travaglio interiore che solo in parte si era dirottato nelle ripetute mansioni manuali.
Maria sentiva in quel momento di potergli perdonare qualsiasi devianza.
L’uomo divenne sereno e l’ansia che reprimeva in tutta la sua persona si concentrò nelle mani che trattennero da sotto il vassoio le mani della donna con un tocco d’amore.
Maria sentì più che gratitudine e si abbandonò come potè a quel contatto affettuoso.
Molti sono i contatti d’amore ma quelli che bruciano in un istante sono i più carichi di illusioni e segreti ed il carcere è il luogo adatto a conservare segreti.
Cancellata dopo cancellata, ognuna delle quali pronunciava il suo suono secco alle spalle di Maria e dopo gli ultimi controlli , recuperata la propria carta d’identità, davanti alla fermata dell’autobus per il ritorno, affondando le mani nelle tasche del maglione in cerca del biglietto per la corsa, Maria si ritrovò stropicciato il foglietto con la dedica, lo riconobbe, si ricordò e vide che si poteva leggere ancora il numero di telefono.
Lo rimise in tasca. I corvi vagavano per la campagna picchiettando nervosamente il becco sul terreno gelato, la solitudine del luogo non li distraeva. Non erano di compagnia. Eppure lei non si sentiva più torturata dall’incombenza delle cose. Basta un tocco, anche senza speranza, per essere sfiorati dall’illusione che solleva il sipario e invoglia a recitare una nuova parte.


Il cancello

di Renata Paparo

Una volta il cancello di casa Ceol era di ferro smaltato,
le sue sbarre intrecciavano una regolare quadratura, leggermente ondulata e terminavano l’ intelaiatura in modo lineare e senza minacciosi spuntoni .
Ci si poteva arrampicare ed era un gran gioco! Da bambini aggrappati alle feritoie ondulavamo con il corpo sospeso e a seguito di una bella spinta aspettavamo, facendo leva, che si aprisse e richiudesse sferragliando il più possibile.
Tante altalene lo avevano sgangherato.
Da tempo è stato sostituito con un pesante pannello semovente che ubbidisce ad una specie di telecomando.
Molto tempo fa il cancello non era mai chiuso a chiave, tutt’al più accostato e quando cigolava sui cardini per conto suo, era un piacere, era la speranza di una visita o di qualcosa di inatteso che poteva sì allarmare gli adulti, ma non chi sperava ed era in cerca solo di novità, cioè Teresa, i suoi compagni di gioco e il cane.
C’era il cancello: al di qua ogni loro cosa, al di là tutto il resto. Quello che veniva da fuori era destinato a trasformarsi
in epopea e scandalo, perchè in quel ‘mondo fuori’ vivevano solo eroi, vittime e pervertiti. Quando gli adulti parlavano con il linguaggio cifrato allora la temperie doveva essere vicina: bisognava farsi astuti e indifferenti, ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie. Qualche accidente si sarebbe allora precipitato a terra dalla nuvolaglia dov’era sospeso facendo di un ‘lui’ o ‘lei’ qualsiasi il personaggio chiacchierato, un ultimo intrattenitore domestico per via di qualche pettegolezzo su qualche sporca faccenda di paese. Oltre il cancello si rischiava di vivere nel peccato. Ed era una speranza.
Il cancello oggi scorre e si spalanca sulla strada dopo che ha arrancato verso il suo assetto e risolto l’allineamento impostogli da un motorino mezzo asmatico.
Ma non c’è quasi mai sorpresa.
Non si può dire che non sia un bel giardino quello di casa Ceol.
Con gli alberi da frutto, le begonie, i lillà, i papaveri, le ortensie….Uno scorcio di decalee striscia lungo il muro d’accesso, il prolungamento dei rami si abbarbica a terra nelle intercapedini aperte dalla pioggia sul selciato di beole.
Ai tempi, la parola d’ordine era diserbare ovunque per conservare l’impiantito. Ora Teresa è vecchia e conserva anche le erbacce.
Eppure non è più il giardino dal cancello vecchio.
Sulla sinistra del pergolato di decìdue resta il boschetto delle tre betulle che si espandono in verticale, ma il liriodendron dalle grandi foglie, il carpino bianco sono appassiti da un bel po’ di tempo, fiorisce ancora il biancospino che allontana gli spiriti del male, mancano le azalee e il velo di sposa.
Anche Spugna ricorda molto alla lontana il vecchio Bobi che mordicchiava le caviglie ai bambini, li precedeva verso i loro anfratti segreti con lo sguardo puntato su una linea parallela al suo tartufo nero.
Un povero piccolo Spugna sottratto al torrente dalla Vecchia Teresa dove uno scriteriato antieroe di quel ‘mondo fuori’ aveva cercato di annegarlo.
Una gioia salvarlo quando qualche anno prima non si sentiva poi così vecchia.
Sotto il melo le spoglie del Bobi .
Ed allineate le salme di quattro ortensie da recidere.
Molto lavoro che si dovrebbe iniziare una volta per tutte.
Ma è sempre quasi autunno e la Vecchia rimanda ogni decisione alla primavera successiva.
Seduta accanto al cane pensa che la giornata è molto vuota,
ma non sa di cosa. Esamina la trama di una ragnatela e osserva l’effetto delle vibrazioni che la presenza di lei attiva nell’orlato incastonato da umide perline di una resina acquosa.
Una miniatura perfetta senza significato estetico così come lo sono le sue trame interiori prive di desiderio ma naturali.
Semplicemente naturali. Il respiro è sottile come quel vibrare senza vento. Allunga le mani per accarezzare la testa del cane poggiata sul suo ventre addormentato sotto il gonnone di panno e sopra un grembiulone da orto. Vede la sua mano gonfia segnata come un ramo scorticato e le sue dita appassite.
Le avvicina a sè per consolarle e nasconderle sotto il grembiule.
Lo fa sempre quando ha bisogno di non sentirsi sola. Le sue mani sono creature sensibili, sono un’altra Teresa che vive un’altra vita fatta di percezioni nascoste, di profondi legami con le cose. Le sue mani parlano una lingua senza segni che si appropria degli impulsi corporei e li trasmette dentro e fuori di lei.
La vecchia solleva le mani le esamina attentamente, sospira come se si rendesse conto per la prima volta di essere vecchia.
Le pieghe sono profonde e le unghie annerite, nei polpastrelli provati dal tempo sembra non circoli il sangue e le ferite sui palmi si sono rimarginate lasciando cuciture impercettibili.
La vecchia usa raramente le forbici nella cura del giardino, le sue mani recidono solo quello che cede al loro sforzo di potatura.
Sono mani sempre segnate o dalle ispide unghiette delle robinie o dal biancospino quando ne preleva le bacche e ne fa tisane per il cuore o dal fusto della rosa canina, pianta che lei non ama perchè inganna l’occhio nascondendosi nella macchia e ferendo chi incautamente è attirato dalle sue chiazze rosate.
Ama la digitale come fosse un dono raro nel giardino perchè il succo delle foglie si trasforma in ottimo tonificante.
Questa è la fine delle mani che hanno vissuto con me-pensa- insegnando a parlare ed ascoltare le cose. Hanno doti di conoscenza e toccando mi hanno resa un po’ sapiente e un po’ appassionata.
Toccavano i semi e sapevano se c’era la pretesa di vivere, se sarebbe spuntato qualcosa: allora seminavano.
Toccavano i rami secchi e capivano se c’era ancora la vita, se bisognava aspettare. Allora rispettavano. Toccavano i muri delle case e avvisavano se era passato il dolore e la malattia. Così tutto il corpo avvisava come quello degli animali.
Svanisce tutto questo sentire? Perchè? Capisco i pensieri, le parole ….
Ma il sentire non fa testamento, “cosa resta di una lingua che non ha grammatica, che parla solo Spugna?”
Il cancello scivola sul traballante carrello che lo sorregge.
Il muso della vecchia si concentra, poi sorride.
E’ un vecchio che sale dalla strada. “Hai il telecomando? “ gli chiede e sorride con un po’ di rammarico, quel poco che le rimane.
Il mondo pieno di sensazioni le scivola verso il basso, al fondo dell’orlo della gonna e gocciola sugli zoccoli da orto.
Il vecchio si siede e non sorride. Il cane non fa verso.
“Certamente! Conservo il telecomando che mi hai prestato.”
“Sono proprio una sciocca a non ricordare di avere prestato qualcosa. Significa che ho sempre un po’ di fiducia… anche in te vecchio amico!”
Gli occhi dell’uomo si riempiono dei colori del giardino ed al fondo delle pupille si scorgono le quattro ortensie scorticate.
Spugna resta fuori da quello sguardo.
“ Non c’è bisogno che ti spieghi, a quanto pare già sai.”
“Sento molto più di quello che immagini. E so quello che ho immaginato”. Questo il suo ultimo pensiero perché come avviene per le cose del mondo non è sufficiente che il cane si accucci ad aspettare per far sì che tutto non scompaia.