AMMORE NAPULITANO
A te ca si’ semp a stess e mai uguale
A te ca’ ret a nu sorriso annascunn na lacrema
A te ca addore ‘e mare e de suonn
A te ca rire pure quann te sparano
A chella signora piccerella, cu’ e capill bianchi, ca t’ ‘accumpagne addò’ e a jie.
A chillu sapore ‘e tradizione ca ghiesce a dint’ o grammofon abbascio Montesanto
A chella criatura ca te guarda cu ll’uocchie gruoss e chin ‘e speranza
A chilli panne stis c’ ‘ann lavato’ o spuorc cu ll’ammore
A te ca si’ ll’ammore
A te ca m’ ‘e dat ‘a vita
Scusa
Scusa pecché t’ aggio lassato, t’aggio rinnegato, t’aggio tradito.
So sporca comm ‘a chilli pann primma de llavà.
Aggio pensato ca ce stava coccos meglio ‘e te
e forse è vero… Ma ancora nun l’ aggio trovato.
Tu si’ tu, tu non hai tradito, tu si’ ammore.
Tu mi hai amato e mi ami ancora.
È vero, chi è nato a Napoli
Ce vo’ murì!
AMORE NAPOLETANO
A te che sei sempre la stessa e mai uguale
A te che dietro ad un sorriso nascondi una lacrima
A te che odori di mare e di sogni
A te che ridi pure quando ti sparano
A quella piccola signora dai capelli bianchi
Che ti accompagna ovunque tu debba andare
A quel sapore di tradizione che esce dal grammofono di giù Montesanto
A quel bambino che ti guarda con gli occhi grandi e pieni di speranza
A quei panni stesi che hanno lavato lo sporco con l’amore
A te che sei l’amore
A te che mi hai dato la vita
Scusa
Scusa perché ti ho lasciata, ti ho rinnegata, ti ho tradita.
Sono sporca come quei panni prima di essere lavati.
Ho pensato che potesse esserci qualcosa di meglio e forse c’è…
Ma ancora non l’ho trovato.
Tu sei tu, tu non hai tradito, tu sei l’amore.
Tu mi hai amato e mi ami ancora.
È vero, chi è nato a Napoli
Ci vuole morire!
IO SONO NAPOLI
Quando dicono “è un napoletano”
Quando ti dicono “sei un napoletano”
Quando con le parole ti schiaffeggiano
Quando ti dicono che sei un virus
Quando invocano il Vesuvio
Quando dimenticano che sei italiano
Quando dimenticano che sei come loro
Anche se è difficile
Ricorda loro che Napoli è già un Vulcano in eruzione:
Un’eruzione d’amore.
Perciò sorridi e porgi l’altra guancia.
Lo stolto rimarrà senza schiaffi
E tu resterai per sempre figlio di Napoli.
NAPOLI DA CREDERE
Credi sempre in ciò che sei.
Credi sempre al tuo cuore.
Credi sempre nella tua terra.
Senza chiedere una prova.
Senza dover vedere per credere.
Non sai la gioia che ti perdi nel puro e semplice atto di credere.
Se credi solo perché vedi poi vorrai
e se non otterrai quello che hai visto
vivrai nella frustrazione.
Ma se credi incondizionatamente
la gioia che seguirà
sarà molto più grande della delusione
di non aver creduto in qualcosa che non hai visto.
Non so te, ma io ho molta più paura di quello che conosco e vedo
piuttosto che di quello che non conosco e non vedo.
Napoli è una fede.
Napoli si sente.
Napoli non si vede.
IO, COME LORO, SENZA LORO
Come loro
Avrei voluto saper scrivere
Avrei voluto saper cantare
Avrei voluto saper piangere
Avrei voluto saper ridere
Come loro.
E allora
Ho imparato a scrivere
Ho imparato a cantare
Ho imparato a piangere
Ho imparato a ridere
Come loro.
Ma nessuno di loro sapeva amare
come amavo io.
Così ho capito, alla luce di quel mare,
con il vento tra i capelli e il sapore di sale in bocca,
che quando scrivo
quando canto
quando piango
quando rido
quando amo
quando sono io
Non è poi così male.
E allora
Provo
Sono Io, senza loro.
O’ SANG’ ‘E SAN GENNARO
Ma tu ‘o ssaje che d’è stu miracolo?
Ecco qua, ‘o ssapevo.
Nun guardà ‘o sangue.
Nun te fermà llà.
Arape ll’ ‘uocchie.
Nun è sulo sangue ca se scioglie.
E’ coccos ‘e cchiù.
‘O ssaje che d’è stu miracolo?
E’ ‘o sangue ca scorre rint ‘e vvene
do popolo napulitano;
E’ ‘a freve ca saglie quann t’ accidono;
E’ la vita che scorre dint’ ‘o cuorpo
de criature;
E’ ‘a speranza.
‘O sangue ‘e San Gennaro
è ‘a speranza ‘e ‘na vita ca scorre.
Pirciò s’adda sciogliere,
Senza sangue nun se po’ campà.
Chist è ‘o miracolo.
IL SANGUE DI SAN GENNARO
Ma tu lo sai cos’è questo miracolo?
Ecco qua, lo sapevo.
Non guardare il sangue.
Non fermarti all’apparenza.
Apri gli occhi.
Non è solo sangue che si scioglie.
E’ qualcosa di più.
Lo sai cos’è questo miracolo?
E’ il sangue che scorre nelle vene
del popolo napoletano;
è la febbre che sale quando ti uccidono;
è la vita che scorre nel corpo dei bambini;
è la speranza.
Il sangue di San Gennaro
è la speranza della vita che scorre.
Perciò si deve sciogliere,
senza sangue non si può vivere.
Questo è il miracolo.
TU
Stringi la mano.
Ti diranno che non serve,
Tu stringi la mano.
Ti diranno che sei pazzo,
Tu stringi la mano.
Ti odieranno,
Tu stringi la mano.
Ti diranno che sei napoletano,
Tu dì che sei italiano.
Tu, fa la differenza.
Ho sempre amato la musica napoletana e spesso mi sono chiesta come siano nate quelle canzoni, che altro non sono che poesie. Uno spettacolo teatrale dedicato a Napoli mi ha permesso di immaginarlo, a modo mio.
‘A VUCCHELLA
“Tu? Scrivere in napoletano? Tu? Ci crederò solo quando vedrò su foglio bianco la tua calligrafia”. Cosi nacqui io, davanti una tazzina di caffè, al Gran Caffè Gambrinus, il più famoso caffè di Napoli, ritrovo di artisti, poeti e sognatori. Nacqui proprio cosi, da una scommessa, o meglio, dalla voglia di vincere una scommessa. Ferdinando giocava, aveva parlato cosi per parlare, era un giocherellone; lui che era un poeta, un autore, sfidare un altro poeta? Per lui erano solo due amici al bar che parlavano del più e del meno. Ma Ferdinando Russo aveva sottovalutato il suo avversario. Gabriele prendeva seriamente ogni cosa gli si dicesse e quell’affronto non poteva essere da meno. “Tu piuttosto come osi insinuare che io, Gabriele D’Annunzio, non possa, o peggio, non sappia scrivere in napoletano? Anzi ti dirò di più, il mio testo diventerà internazionale e sarà cantato dai più grandi e vedremo se sono in grado o meno di scrivere in napoletano!”.
Quella sera Gabriele vagò a lungo per la città, che stranamente era velata da una leggera foschia, cosa che inquietava ancor di piú l’animo già inquieto del poeta. Vagava e vagava, aveva tanto su cui poter scrivere, quella città era un incanto, con il suo mare, i suoi profumi, il suo cibo, il suo amore…. Ma tutto troppo banale, tutto troppo già sentito. Lui era Gabriele D’Annunzio, lui era diverso. Aveva bisogno di qualcosa, un’ispirazione, un’idea geniale. Camminava e odorava, camminava e osservava, camminava e pensava e benché lui fosse di origini abruzzesi i suoi pensieri erano sicuramente napoletani:”ma chi me l’ha fatt fa? Ma comme faccio? Io in napoletano? Napoli mia aiutame tu!”. E proprio in quel momento si rese conto di essere di nuovo al caffè Gambrinus: aveva camminato in tondo. Non era un caso, non poteva essere un caso. La risposta era lì, al Caffè Gambrinus. Così si incamminò verso il tavolino incriminato, il tavolino “della sfida”…ma ahimè era già occupato… da una sinuosa ed elegante creatura. Gabriele, che come tutti ben sappiamo, è noto per il suo interesse verso le belle donne, la guardò ammirato e un sorriso seducente riempì il suo volto…ma non le si sedette accanto, scelse con cura il tavolino che le stava di fronte e dal quale la si vedeva bene. Era lei, la sua musa, la sua ispirazione. Non era bellissima, ma aveva un non so che di…affascinante. La osservò: capelli raccolti di un intenso nero corvino; orecchie simmetriche e piccoline; forse anche di statura era piccolina perché in fondo era tutta piccolina. Occhi marroni, che dalla forma ricordavano quelli di un orientale; e poi, come un’apparizione, eccola lì, la vide e subito capì che quella sarebbe stata la sua canzone: piccola, ma ben definita, rossetto rosso ma leggermente sbavato sul labbro inferiore, forse il caffè, chissà. ‘A vucchella.
“Scusi Cameriere? Come si dice in dialetto pochino pochino? ”
“Pucurillo pucurillo signore”.
“Cameriere? E appassita, vizza?”
“Appassiulata, appassiulatella signore”.
E una sera d’estate, con una matita, sul tavolino del Caffè Gambrinus, nacqui io.
Da lì ne ho fatta di strada. Rimasi chiusa per dieci anni in un cassetto, finché Fernandino non mi mostrò a Francesco Paolo Tosti, che compose per me la musica e finalmente potei donarmi al mondo intero.
A MARECHIARO
“Eccolo là, guardatelo, è lui, il poeta popolare, il poeta che dà forma e voce al popolo, ai dolori del vero popolano; crudo, nero, cupo!”. Di Di Giacomo non hanno mai capito nulla, non sono mai riusciti a comprendere il suo genio. Di Giacomo, ma per gli amici Salvatore, riuscì attraverso la lingua napoletana a sublimare i più puri sentimenti dell’animo umano. Della realtà ne fece una legenda ed è così che A Marechiaro è diventata la più celebre tra le canzoni napoletane.
Durante una gita con amici all’Acquarium di Napoli, Salvatore decise che si stava annoiando e che avrebbe preferito una passeggiata all’aria aperta o un giro in barca magari; così si trovò a bordo del vaporetto che dalla stazione zoologica lo portò dritto dritto a Marechiaro; il tratto fu talmente breve che a Salvatore sembrò di non esserci nemmeno salito su quel vaporetto. “Tutti a tavola, è ora di mangiare”. Quell’osteria era invitante e i suoi padroni erano davvero dei tipetti niente male, e poi…quel panorama, quella vista: spaghetti a vongole, vino, frittura all’italiana, mare…cosa vuoi di più dalla vita? Mentre beveva l’ultimo goccio di vino della terza bottiglia di rosso che quel giorno fu servita a quel tavolo, lo sguardo di Salvatore si posò sulla palazzina che cadeva a picco sul mare proprio di fronte l’osteria, ma soprattutto su quella minuscola e graziosa finestrella sul cui davanzale vi era posto un garofalo rosso.
“Carulì, Carulì”.
Quella fu la sua prima volta a Marechiaro.
Salvatore descrisse una realtà del tutto reale: la finestrella con il garofalo, la giovane Carolina che altri non era se non la moglie di uno dei proprietari dell’osteria. “Scetate Carulì, ca l’aria è doce”. Chi non ha mai cantato o almeno canticchiato questa canzone davanti al mare? “Quanno sponta la luna a Marechiaro…”. Questi versi hanno una forza evocativa che chi li legge o li ascolta si ritrova catapultato in quella scena, in quel momento, in quel preciso istante. Assapori l’odore del mare, ne vedi i colori, senti il rumore delle onde. A Marechiaro è l’esperienza di un uomo estasiato di fronte la bellezza della natura e dell’amore.
Ma Salvatore non voleva farne una canzone. Francesco Paolo Tosti dovette pagarlo una sterlina d’oro per farsi cedere il testo di quella meravigliosa poesia. Fortuna che Salvatore si sia lasciato convincere. Francesco si ispirò ad un posteggiatore per comporre quella melodia semplice ma ammaliante. Quel posteggiatore che tutte le sere con il suo flauto accompagnava a sua volta le canzoni di un suo compagno suonando quello stesso motivetto che apre la canzone.
Oggi, tutti corrono sotto quella finestrella, tutti vogliono ammirare la targa a forma di pergamena con su il pentagramma della canzone e in sottofondo, chissà se vero o meno, una voce soave venire dal mare che piano piano chiama e canta per la sua amata.
Ma quando una canzone diventa più famosa dell’autore questi la ripudia e così anche Salvatore rinnegò la sua creatura, la escluse dalla raccolta di poesie destinata a contenerla. A vincere però fu ancora una volta la canzone, fino alla fine, e con fine intendo davvero fine: A Marechiaro fece da colonna sonora non solo alla sua vita ma anche alla sua morte; nel giorno del suo funerale una banda musicale intonò le note di quella meravigliosa canzone, come accompagnamento al passaggio dal di qua all’aldilà.
Con lui per sempre, fino alla fine.