Roberto Morpurgo - Poesie

Me faltan

Me faltan tus besos
tus bocas rubias de rocíos
en la madrugada-aurora – aun pienso
me faltarían aún sin tus ausencias, y que
risueños como el sol quemando tus espejos
por fin haya solo tus reflejos.

Mi mancano

Mi mancano i tuoi baci
le tue bocche rosse di rugiada
giù per le albe-aurore – anzi penso
mi mancherebbero pur senza
le tue assenze, e che ridenti
come il sole che brucia i tuoi
specchietti in fondo sian solo
i tuoi riflessi.

 

 

 

Yermas

Yerma como la yedra que ahora sube aquí se está mi alma
dentro de un tiempo que no logra ni hartar esta escarpada
miranda. Lo que piensan ustedes no me cabe oirlo, ni gotas
ni sombras. Lo que soy yo soy por mi mismo y solo, cáscara
que olas no quebrantan ni las cofas-cunas. Todos parecen
desligarse al desvanecer el tiempo ni en gloria ni siquiera en
ruina, hasta el caer el chaparrón en un silencio cualquiera.

Desolate

Desolata come l’edera adesso rampicante
proprio qui se ne resta la mia anima, entro
un tempo cui nemmeno riesce di saziare
questo scosceso belvedere. Ciò che pensate
non mi compete udire né in gocce né ombre.
Ciò che sono solo sono per mano non altrui
ma mia, guscio che non frangono le onde né
le coffe-culle. Tutti sembrano affrancarsi allo
svanire il tempo né in gloria né tantomeno in
rovina e sino all’ultimo placarsi la tempesta in
un silenzio purchessia.

 

 

 

Para una muchacha inexistida

Lo que de ti me extraña es esa tan vaga
ausencia, la que de mi mismo te enajena
haciendo muda. Como para quererte es
la nula mudez tuya, cuya esencia es vida
tras cualquiera apariencia y en cuya suerte
no piensa nadie que sea vivo o acaso inmortal.
Trepa a tus piernas el bacanal de vides llevando
hasta las flores, florece la raiz de tus pezones
hasta sembrar hacia el ombligo sombras de
jazmines al soplo de romeros.

Per una ragazza inesistita

Quel che da te mi estrania è vaga assenza,
la stessa che proprio a me ti fa straniera
facendoti muta. Per amarti basta il nulla
di tanta mutezza, cui essenza è vita oltre
quale che sia apparenza e alla cui sorte
non uno pensa che sia vivo o chissà eterno.
Rampicano lungo le tue gambe in baccanali
vitigni che a te recano fiori, fioriscono i tuoi
semi all’ombelico in seni, in ombra i gelsomini
e dal soffice soffio i rosmarini.

 

 

 

Ser y estar

Cosquilleados por lagartijas
cuando sentados bajo un sol
que sí te aclara, si bien no te
caliente.

Ser probados por aquel antojo
con todo su primor, en bocados
pequeños que no instilan hambre
y son mudos relampagos de truenos.

Estar consigo hacia la noche
el coche parado y silencioso
hasta alboradas que el gris
ofreció a orillas de arrecifes.

Estando así como lo digo –
es estar como fuese contigo
mientras aguas del concho
de los seres echan rachas
de pavesas – y en el polvo
recojen las cenizas a cada
lejo ‘fuimos’, castas yendo
a liviandades pronas a ese
todo que para pasar se para,
si no no se queda ni por solo
pasear.

Essere e stare

Stuzzicati da lucertole
stando seduti a un sole
che ci illumina, sì, ma
non riscalda.

Essere saggiati da tanto accurato
capriccio, e in bocconi così
minuti che non danno fame
e sono muti fulmini di tuoni.

Stare con sé e verso notte
l’auto immobile e silente
sino ad albe allora offerte
dal grigio a margini di scogli.

E stando così come io ho detto
è quasi come fosse insieme a te
mentre acque dal fondo di noi
tutti sprizzano raffiche di braci
e fra polveri colgono le ceneri
d’ogni lontano ‘fummo’, caste
andando a levità prostrate a quel
tutto che per passare qui si arresta,
e se no non sosta, nemmeno per
una semplice passeggiata.

 

 

 

Oye

Oye la espuma cuando quema y en
su luz primera anda la playa hacia su
estero extremo, ¡y qué esquemática se
esquiva a tu pierna dorada si le esquila
en roces de piel su sable sagrada!

Oye en esta mirada el estival invierno
por bandadas de aves invernal verano
a cual más paterno, el paraiso infernal
celestial infierno de una mar remate a
la gaviota ahusada.

Odi

Odi la schiuma quando arde e nella luce
prima incede la spiaggia verso l’estuario
estremo – e quanto schematica schivi
la tua gamba dorata se in graffi di pelle
le fa rasa la sua sabbia sacra!

Odi in questa vista l’estivale inverno
e in stormi di uccelli la iemale estate
uno all’altra più paterno, paradiso il
celestiale inferno di un mare fondo-
pista al fusiforme gabbiano.

 

 

 

Refunfuños

Refunfuñan mis amigos desde lejos
como si fuese entre ellos desertores
balbuceo zumbante que se ensancha
hasta mudarse en atisbo de venganza
y en redes de revuelos se hiciese lerdo
dia que insomne maquina en antemano
noches al mismo porvenir rendidas.
Y que ahora hagan de mí esta bonanza,
su rubia su cárdena renta a ultranza…

Brontolii

Brontolano gli amici di lontano
come se fossi tra loro disertori
il balbettio ronzante che si espande
sino a mutarsi in lume di vendetta
e in reti di rovesci divenisse lento
il giorno che insonne ordisce notti
in acconto e già al futuro desistite.
E adesso faccian pure di me questa
abbondanza, loro rossa violacea rendita
ad oltranza…

 

 

 

Sed

Sed la sed que ofrece al alma
al diós que despierta y no
que calma; sed el hombre
que no padece hambre
salvo en su corto vuelo
de mosquito-enjambre.

Sete

Siate la sete che offre all’anima
il dio che desta e non che calma;
siate l’uomo che non patisce fame
se non nel suo breve volo di
moschino-sciame.

 

 

 

TUBOR

Atto unico monologico

 

La scena

 

Una vecchia stazione ferroviaria dismessa, stile Est Europa anni ’50. Due rotaie fra centro scena e ribalta traversano il palco parallelamente al proscenio. In testa, a sinistra, tre scalini che portano non si sa dove. Al centro, verso il fondo, una specie di biglietteria cadente, che ricorderà il baracchino di un cinema o un teatrino di marionette.

 

Il personaggio

 

Uomo di mezza età, trasandato, vestito come una specie di profugo, rovista fra i rimasugli e i detriti in mezzo alle rotaie. Ogni tanto si accosta e si affaccia ala biglietteria. Ha la voce roca, e a tratti acuta, disperata.

 

Sono miope. Da un certo punto di vista mi si potrebbe giudicare cieco. Perché non vedo, solo un esempio, un certo genere di oggetti: gli occhiali, per esempio, e le armi. Non amo i preamboli. Ero alla stazione di Tubor, proprio là, dove passa l’unico treno per Tubor. Dove vuole andare? – dice la bigliettaia. Che domande, dico io: proprio si vede che lei non ha fatto altro in vita sua che la bigliettaia. A Tubor, vado. Dove, altrimenti?

Lui davanti alla biglietteria.

Un biglietto per Tubor, fa lei al collega. E strizza l’occhio. Questo sono riuscito a intuirlo attraverso i vetri della biglietteria strizzando i miei occhi ben bene sul suo viso. Strizza l’occhio, eh? Fa la bigliettaia. Io? Non ci penso nemmeno. Io vado a Tubor, poi lei non mi interessa. Ho un’amante, a Tubor. Non mi ascolta, è convinta del fatto suo. È così, eh? Bene, vorrà dire che la farò arrestare. Proprio, è quello che ci vuole. Dico, scherziamo, arrestare un uomo perché una bigliettaia crede che le abbia fatto l’occhiolino? Sono miope, dico alla guardia, ecco tutto. Ho strizzato gli occhi per vedere quel che faceva…

Entra nella biglietteria, si affaccia appena all’apertura.

Stampava il suo biglietto per Tubor – dice l’agente senza scomporsi – questo Sul biglietto c’è un nome, sì, ma non è Tubor. È un altro posto. Ne sono certo. Perché non mette gli occhiali? mi chiede l’agente mentre scrive i miei dati sul taccuino; io sbircio il mio nome: Tubor. Allora vuol dire che posso leggere quel nome e sul biglietto non c’era, avevo ragione. Non mi chiamo Tubor, dico, quello è il posto dove devo andare, ho un’amante laggiù.

(quasi in controcampo, come nei duelli di burattini) Quello non è un posto: è un nome, dice l’agente. Sì, dottore, lei ha ragione. Non sono un dottore ma un poliziotto, mi corregge; certo, scusi, lei non è un dottore, ma un poliziotto, è un dettaglio registrato da ogni carta di identità ma allora anche Tubor è un posto, non un semplice nome.

Esce dalla biglietteria e vaga fra i binari.

Nemmeno l’agente mi ascolta. Sospetto che se la intenda con la bigliettaia, per via delle multe. Insiste con gli occhiali, il mio punto debole. Mi faccio coraggio e gli dico che li avevo, ma non riuscivo a inforcarli. Vede questa? E mi mostra la pistola. No, gli dico, mentendo. Ma so benissimo cos’è. È una pistola. Non amo i preamboli, taglia corto, mi segua. Lo seguo, nella nebbia, per le panchine della stazione. Mi scappa di dirgli, che, facciamo un giro panoramico? (b.p.) Ma lui non raccoglie.

È già buio, mi hanno fatto perdere tempo, molti treni sono già partiti. Il mio, chiedo, il mio treno?

Mi spinge su un convoglio, così lo chiama, crede che non sappia cosa vuol dire. La canna fredda della pistola la sento sin nelle ossa della schiena; mi porge con l’altra mano un paio di occhiali e poi però senza scomporsi, da laggiù me li inforca. Bene, dico, ora è tutto a posto. Vedo meno di prima, vedo solo gli occhiali. Glielo avevo pur detto, mi pare. È una mia particolarità. Cosa c’è scritto su quel cartello? Tubor, binario sette, ore ventitre. E su quell’altro? Tubor, stazione. E sul biglietto? Tubor, seconda classe, posto riservato, numero ventidue, invalido. E sul suo patentino? Tesserino, già, il tesserino della polizia. Tubor, terzo distretto, quinto dipartimento. Agente…

Agente… Lo chiamo due volte, niente da fare. Se n’è andato coi miei documenti. Non vedo ormai che le ombre delle cose, passi il convoglio, ma non distinguo i vagoni dalle persone… dunque convoglio merci, Tubor, binario sette, eccetera, eccetera.

Non mi lasci solo! Non vedo più niente… Chi poteva immaginare che in questo stralunatico posto la luce se ne sarebbe andata prima del tempo. Poco male. L’essenziale è essere sul treno. Sento che si muove, finalmente. Peccato la miopia, mi godrei il paesaggio. Nemmeno, già, me n’ero scordato, è notte.

Partiamo? Dico al tizio che mi siede vicino. Partiamo, arguisco dal suo sdegnoso silenzio. Ho una piccola curiosità… dico, parlo con lei, signore… questo treno va a Tubor? Cos’è questo fastidio alla schiena? Non vuole rispondere, è forse a causa di questa prolungata stanchezza? Ho capito, anche lei è passato dalla biglietteria e l’hanno trattenuta… in queste stazioni di provincia davvero non sanno come passare il tempo. Tenevo a dirle, spero non la infastidirà, ho una strana caratteristica, sono miope. (b.p.) Da un certo punto di vista mi si potrebbe giudicare cieco.

Non spari adesso… voglio vedere Tubor… l’abbiamo appena lasciata? Sì, la stazione, lo so… Due posti lei afferma non possono avere lo stesso nome? Forse però che due occhi non si chiameranno entrambi: bulbi oculari? Certo, può sembrare strano… ma anche non vedere bene… sappia che può giocare brutti scherzi… perciò non spari subito, la prego… vorrei arrivare a Tubor, prima di… dica lei il suo nome e se non le arreca troppo dispiacere anche il cognome… mi creda ho un’amante, a Tubor… non mi crede, lo so… nessuno mi crede… ah è una questione economica. Credere costa più che diffidare. Due posti devono avere un nome ciascuno, in tutto, se non sbaglio, due nomi.

Sapevo che l’avrebbe infastidita il mio modo di vedere le cose… anche l’agente deve aver sospettato qualcosina quando gli chiesi cosa ci fosse scritto sui cartelli, su quei segnali, e sul patentino, sul suo tesserino… anche lei mi consiglia dunque un paio di occhiali e anzi due? Non è quel che mi importa… a Tubor tutto è diverso… così almeno mi avevano detto… lì la luce è diversa, non c’è bisogno di lenti e semmai per vederci di meno… si vede proprio che è la luce, a essere diversa… perciò voglio andarci… non spari proprio adesso, lasci almeno che le spieghi… Perché non riesco a vedere le armi? Come glielo devo dire. A causa del fatto che non vedo un certo genere di oggetti… ah così io a suo insindacabile giudizio non vedo…

Eh sì dev’essere stato in guerra… un trauma, certo un trauma… lasci che riveda Tubor, lasci che almeno io se non proprio lei almeno io ci arrivi…

A quanto pare ho detto riveda, perché dunque ho detto riveda? Davvero non saprei… è poi così grave? Perché le ho detto che dev’essere stato in guerra? Capisco, questo la turba profondamente, ma non è certo per colpa mia che… odio la guerra… ho dovuto farla… vorrei rivedere Tubor, prima di dire il nostro nome tutti prima o poi tutti dobbiamo morire… ma non spari, lasci che sia io a morire, nonché a supplicarla… la mia amante mi aspetta: alla stazione – sì, alla stazione – così almeno lei disse (b.b.p.) che mi avrebbe promesso.

Ma certo a Tubor tutto è diverso, la luce è più intensa…

Non è mai notte… i riflettori illuminano il cielo… quando e in quali circostanze nominai innanzitutto i riflettori? Devo aver dimenticato qualcosa, è evidente… ah è addirittura grave? (b.p.) Un silenzio, il suo, che allude a una certa gravità… lo stesso nome… lasci che le spieghi… per due cose così diverse… partenza – traguardo.

Dio solo sa se a Tubor non ho passato gli anni più belli della mia vita, prima della galera…E io che non sono mai stato da nessuna parte, a fortiori perciò: mai stato in una galera. Prima: prima che ne costruissero una… vede, era chiaro a tutti… solo lei ha inclinato (guarda verso l’alto) per un’interpretazione tendenziosa, e anzi: tipicamente analfabeta… Ah perchè non ho con me i documenti? Ebbene sappia, si conoscono persone che sono, esse stesse, documenti… (trova un coltellino svizzero, lo apre, lo prova, e lo butta via) in ogni caso i miei li ha trattenuti il poliziotto. Sa, per ogni evenienza. Ma che io possa poi elencare tutto quel c’è scritto là dentro, questo posso escluderlo al novanta, novantacinque percento. Ah capisco, lei avrebbe preferito che io dicessi: no, non ricordo. Confesso anzi di non ricordare. Escludo che ci sia scritto… il posto dove… ah deve esserci scritta la città in cui uno è nato… di nuovo la precipitazione, il sottinteso, il sotterfugio… chi ha mai detto di esserci nato?

E tuttavia Tubor è pur il nome del mio paese… è stato bombardato dopo che io fui ricoverato all’ospedale militare per una ferita all’occhio… ah quale occhio. Lei intende e sia lei nel caso a smentirmi quale dei nostri due occhi…

Lo so, l’occhio è cioè entrambi gli occhi sono – nei paraggi del cervello, ma cosa c’entra adesso tutto questo… non crederà… non vorrà farmi credere… ah così io a suo insindacabile giudizio non vedo un certo genere di oggetti… Io voglio solo rivedere Tubor… a tal fine devo guardare questa mia fotografia?

Come lei stesso ha già avuto modo di confidarmi, io non vedo un certo genere di oggetti, i treni, per esempio…

…e le armi: anzi a questo proposito io stesso dissi di me che da un certo punto di vista mi si potrebbe giudicare cieco (fine del fischio di locomotiva).

(riprende la voce) E a tal proposito le feci anzi non uno ma ben due esempi: due fra i cento possibili… chi le ha assicurato che io avrei potuto vedere la sua… Cosa significa questa, eh? Come l’ha chiamata? Ah panto-mi-ma. A me era parso: pantomina.

E caso mai volesse un’ipotesi, lei è pazzo… L’ultimo uomo sulla destra? Non sono io… come faccio a dirlo? Intende, dopo l’ammissione di non riuscire a scrutare nel suo esecrabile fotogramma… lo dico e basta… ma non è già accaduto che io non riuscissi a spiegarle nemmeno i rudimenti della materia? Se sei tu stesso un documento non porti documenti – e non addosso: così se uno è lui stesso una prova: non ha certo bisogno di esibirne alcuna. Si rassegni, una buona volta.

E se la facessimo finita? Ma non spari subito, le due cose non vanno necessariamente a braccetto… dove ho fatto la guerra? Ma chi dice e con quale turpe licenza che io abbia fatto la guerra… che io abbia mai fatto qualcosa in vita mia cioè qualcosa d’altro che – vivacchiare? Tornando a bomba, e come cade a proposito questa sua proterva espressione!…  non ricordo… era un posto diverso da tutti gli altri… io cosa facevo? Illuminavo il paese… (confessa) sì, tutto il paese… (con sarcasmo) più una esigua porzione della pianura circostante… ma poi commisi un errore nella preparazione della miscela… non dovevo sparare… ah lei non mi segue? È naturale: sono io, a essere sulle sua tracce.

Secondo i miei calcoli, dovremmo essere quasi arrivati. Non è Tubor, questo brusio di luci in lontananza? Cosa sono allora? Un altro posto, è appena verosimile: e comunque – sulla strada per Tubor. Mi smentisca: ne avrà forse il coraggio. Non certo i mezzi.

Ma lei insiste. Afferma di possedere una mia fotografia, una prova a mio carico… E nemmeno si accorge di possedere una fotografia che è mia soltanto perché da me scattata, e nella quale perciò tutti potrebbero apparire fuorché il fotografo!

Ah da tempo esiste l’autoscatto… ne terrò conto, d’ora innanzi… e l’ho firmata sul retro? Può darsi, non mi interessa contraddirla… se l’ho firmata col mio nome? Io non lo ricordo, e ho una pessima calligrafia… guarda caso… già da bambino non ero in grado di rileggere i miei temi! Una vera fortuna per tutti, mi creda… e scusi la confidenza ah dopo l’interrogatorio decisero di cambiarmi nome. Può darsi: per sicurezza. Reciproca, sì. Non si fossero scordati di comunicarmelo.

Mastino! Non demorde. A suo giudizio finalmente si dimostra che io fui una spia? Quanto a dimostrare chi poi fosse colui del quale si dimostrò che fu una spia… Ah non propriamente, ah la seconda non sarebbe una vera e propria dimostrazione. Perché tornando a bomba là dove sempre tornano le bombe, ebbene, se lo dice lei. Questo, è importante? Oltre questa prova, vuol dire? Qui c’è una questione morale, ecco, è questo che significa… una spia non ha diritto a niente…e due spie? Ancora a meno – a meno che io io… al mio paese?! Lei bestemmia! E se qualcuno seminò, ci fu ben chi raccolse… (chino, la testa torta all’in su) Il mio paese ciò che amo di più al mondo… ah l’amore può spingere a gesti sconsiderati… ne terrò conto, anche senza considerare la sua ipotesi più recente, che io abbia amato qualcosa che al mondo non c’era affatto… lei ovviamente ha le prove? Dovevo prevederlo. Le prove che io ho dimenticato: del resto, si danno forse prove che alla fin fine non documentino qualche dimenticanza? (b.p.) Spetta a lei assentire.

Non fosse proprio la luce destinata alle cose più vicine, a farmi difetto, mi pare di averle già detto che ah! Così io illuminavo… mi pareva però di averle già detto che Tubor era allora molto molto lontana! Certo, ben più di adesso. E io credevo di fare la cosa migliore, era quello che mi avevano ordinato per il bene del mio paese, dicevano che era sempre buio, a Tubor, che lo Stato non aveva mai provveduto all’illuminazione di Tubor… serviva al nemico? Così… c’era un nemico… già allora… davvero io stupisco… non so nulla di quel che lei sin qui mi è venuto dicendo… sono miope, non lo sottolineo certo per implorare la sua pietà, non vedo quasi niente… come facevo senza occhiali a prendere la mira? Accuratamente evitavo di premere il grilletto. Come facevo in guerra a non sparare? Non rientrava nelle mie mansioni. Quando è cominciato il mio primo interrogatorio? Non lo so. Non è mai finito? Forse che potrei ignorarlo.

Eppure è ben strano, mi vorrà concedere, spifferare tutti questi indizi quando si è in possesso di prove inconfutabili. Una prova non è forse più di un indizio? E il fatto che io non veda… ma basta con gli esempi. Passiamo ad altro. Le armi, dico a caso, e gli occhiali, ecco due casi… eppure è strano. Ma io sono miope: come non rammentarlo? ah è la sola cosa che io mi ostini a ricordare… forse per convincermene io stesso, così suona la sua insinuazione… Come potrei dunque giudicare con sicurezza? Come, essere io il giudice di questa causa!? Mi dica lei, sempre che il pudore non le suggerisca adesso di tacere.

Può darsi… può darsi che lei abbia ragione… e tuttavia faccio presente che non mi interessa, davvero non mi interessa contraddirla… del resto lei sa tante cose su di me… anzi sotto di me (tenta una risatina)… che io invece ignoro del tutto.

Dica, siamo arrivati a Tubor? Eh, se non lo sento! Dal profumo: dei pini. Ecco dunque la prova che le mancava. E io che gliel’ho data: gratis! Perché allora si ostina a tenere puntata la sua pistola contro la mia schiena? Io (letterario, ripete un frammento di copione) appoggiato a un finestrino sbottonato sull’algido alcionio inverno, lei appoggiato – per lo scabroso tramite di una gelida canna di pistola – contro il caldo intabarrato cappotto di un – (improvvisamente se stesso) come, faccio finta di non capire? Non le ho chiesto niente… da allora… non so nemmeno chi lei sia… la sola cosa che voglio è rivedere Tubor… con tutto quel che contiene.

È sotto le macerie? Quel che Tubor – il solo tesoro che custodiva – sotto le macerie?! Lo dice solo per ferirmi. Lei mente. Le macerie del bombardamento? Assassini! Io ho e anzi addirittura avrei illuminato il mio paese perché potesse… potesse diventare… indifeso bersaglio di missili? Ho dimenticato una mia fotografia all’ospedale militare? Ho inoltre dimenticato la mia amante? Ma solo perché anche lei appariva in quella fotografia. L’ho prima abbandonata, poi tradita…

… Ah semmai il contrario? (b.p.) Questo io devo proprio ammetterlo, essendone lei così certo… non sparerà prima che siamo arrivati, non è vero? Una spia non merita pietà, questo è giusto, specie quando dimentica, per il comodo della propria coscienza… ma siamo poi così sicuri che sia per il comodo della sua coscienza, e non proprio per la sua stesa esistenza? Ah lei è diverso, lei non ascolta e perciò a fortiori non farà la spia… ma forse sparerà.

Lei non dirà alla mia amante che io preparavo l’illuminazione a giorno del paese… non è mai notte a Tubor… poi lei è così diverso, non ci sono domande nel suo interrogatorio… tutto è così morbido su questo (b.p.) soffice suolo…e le mostrerò la casa dove facevo… le farò vedere tutto di Tubor, vuole? Vede, è necessario che lei non prema il grilletto proprio adesso… la guerra non è mai finita, ma sfido: (b.p.) quando mai è cominciata.

Davvero non ho mai sparato. Ah ugualmente colpevole? E lei: davvero non vuole visitare Tubor? Ah non varrebbe la pena, per un cumulo di macerie e per…per lasciare le cose in sospeso lei è a dir poco inimitabile…e per i morti… li avranno pur tolti…non li avranno lasciati lì a bella posta, oso sperare.

Non sento più il treno, e al suo posto se è per questo: nemmeno il terreno. Qualcuno dirà adesso: è perché siamo fermi. O piuttosto perché non siamo mai partiti? Facesse differenza. Nemmeno vedo più la sua ombra… dove sono la mia borsa e il mio cappello? Perché ha tolto la canna della pistola? Proprio adesso! Sì vede che siamo arrivati, il treno è fermo… in aperta campagna? Certo no, è fermo in stazione. Siamo a Tubor, finalmente. Mi scorti, mi accompagni lei stesso, così non desteremo sospetti… faremo finta che io sia suo prigioniero. Le va? Dirà che ha arrestato una spia, non le crederanno, naturalmente, ma basterà a farci passare inosservati. Anche perché lei avrà l’accortezza di dire, ecco un delatore. Ah non c’è bisogno di questi stratagemmi in tempi di pace. Lei non ha alcuna intenzione, non dico di accogliere, ma nemmeno di raccogliere i miei suggerimenti.

Lei ha allontanato la canna della pistola per non sbagliare la mira… in altre parole, per poterla prendere… non si può mirare a una schiena contro la quale ci si appoggia come a una spalliera. Come faceva a prendere la mira su una schiena contro la quale ci si appoggia? Azzardo che non rientrasse nelle sue mansioni. Quando è cominciato il suo primo – inoltre è stato zitto tutto questo tempo per farmi credere di aver confessato tutto… non le ho raccontato altro che fandonie! Non ho mai fatto la guerra, sono miope, non le sarei servito nemmeno a…

Cosa intende insinuare? Proprio ai ciechi si affidano gli incarichi più sporchi? Per chi mi ha preso, per una spia, forse? Gliel’ho lasciato credere per paura che mi sparasse…ma ora avrà finalmente capito che non sono il suo tipo. E che Tubor ah il mio racconto l’ha incuriosita, ah davvero. Addirittura: affascinato… Lei vorrebbe essere al mio posto… capisco in che senso. Io non ho mai sparato, e lei nemmeno. È comodo, così, diciamo anzi – stravaccato. Nemmeno al mio posto, avrebbe mai sparato. Il fatto è che io e lei non siamo la stessa persona. (b.p.) Questo dovrebbe esserle chiaro, ormai.

È comodo. Una spia non ha diritto a niente. Tubor è un cumulo di macerie, non hanno tolto niente… l’ho già vista così, non voglio più scendere: non spinga. Faccia come crede. Se potessi vederla mi farebbe orrore, per fortuna sono quasi cieco… appena parte… si decida, non intendo fermarmi qui. Ah, lei è così sicuro che tornerò a Tubor senza la minaccia di una pistola? Si sbaglia di grosso. Non tornerò più. Mai più. C’è troppa luce in questo posto…ha messo via la sua pistola? Ha dunque cambiato idea? E – quando? Così per semplice curiosità.

Perché allora mi diede l’ordine di illuminare Tubor? Sapeva che non c’era più nessuno… solo una donna che dormiva… né poteva ignorare che fosse la mia amante… Ah e invece nemmeno lo sospettava! (b.p.) Perché era anche, ah anzi principalmente?, la – sua. (Con rabbia) Perché non ha il coraggio di sparare adesso? Tubor è forse qualcosa per lei?

Se questo è il mio treno, io salgo. (b.p.) Ah dunque lei resta qui.

 

Tre secondi, si fa buio. Uno sparo nel buio.


 

 

FILO A TORCERE

una voce per il pensiero

 

Scena: interno metallico, astratto, asettico e quasi sgombro. Sarà la luce grigiazzurra a disegnare l’ombra di una sedia, di un tavolo e di una lampada in stile ‘avvenirismo anni ’60’. L’uomo, alto, magro, allampanato, vestito di nero con la camicia bianca senza cravatta, occhiali anni ’60 montatura in ferro o neri con lente quasi quadrata, penna argentata al taschino esterno della giacca, fermacravatta vacante appeso a metà camicia sotto la giacca slacciata. Fazzoletto bianco senza pretese al taschino, copre la penna. Il solo oggetto reale in scena – un appendiabiti – ospita il suo cappello, un Borsalino grigio senza pretese (facoltativamente anche un trench bianco, o un Burberry senza cintura). A discrezione del regista e del light designer, tavolo e sedia potrebbero essere reali pur sembrando ombre – per esempio nello stile ombre cinesi, dietro un telo, o poste in una zona di forti contrasti luce-controluce. In assenza di specifica indicazione, fra una battuta (numero) e l’altra verrà osservata una breve pausa ‘tecnica’, quasi come se leggesse, o rimemorasse senza eccessiva difficoltà. L’illuminazione dovrà per quanto possibile fare in modo che la quarta parete sembri bianca: sembri una pagina bianca. L’uomo ha sempre una sigaretta in bocca, ne accende una poco prima della prima battuta utilizzando una sigaretta accesa che stava già fumando, e così farà per tutta la pièce (come Belmondo in A bout de souffle di Godard), con la peculiarità: fa solo il tiro iniziale necessario ad accendere la nuova sigaretta, che poi si consumerà fra le sue dita e servirà ad accendere la successiva. Può accadere che accenda la successiva subito o poco dopo la precedente, senza lasciare che si consumi, o molto poco, perché accende per ragioni ‘espressive’ e non fuma.

Legenda: bp = breve pausa, cs = come sopra.

Nota bene: ogni frase in carattere normale è una battuta (fatta eccezione per i richiami a battute citati in didascalia), ogni frase in corsivo (di solito fra parentesi) una didascalia; nel caso di nuove accensioni di sigaretta, nuova accensione figura anche in grassetto; le battute e le azioni cominciano sempre dopo il primo trattino a dx del numero in cifra a inizio riga; quando nel corso di una battuta un numero si riferisce a un pensiero (battuta), è espresso in cifra. Facoltativamente e secondo il taglio registico prescelto, i numeri che precedono ogni battuta possono essere pronunciati dall’attore.

 

1 (buio, accende una nuova sigaretta con la vecchia, durante l’azione lenta dissolvenza a luce, colpetto di tosse o schiarimento di voce) – ultima sigaretta – il filo di cui si parla, è bianco, e per intenderci alla buona diciamo bianco fumo.

2 – parlare del filo offre ai conversatori una fonte di sostanziosa consolazione.

3 – è però impossibile parlare del filo, giacché esso è bianco e adagiato sopra una superficie come lui bianca (alza appena gli occhi verso la metà superiore della quarta parete, muovendo la testa come a seguire una retta e a tratti la scia di fumo)

4 – la superficie su cui giace il filo è costituita dalla stessa indeterminata materia di cui è fatto (enfasi su parentesi e virgolette) (è ‘tessuto’) il filo.

5 – in un certo qual senso, il Filo andrebbe scritto con l’iniziale maiuscola (breve gesto a verificare la presenza della penna nel taschino).

6 – nell’espressione perdere il filo si cela una importante verità a proposito di cosa poi sia il filo, e della sua stretta parentela con la pulsazione continua dell’Origine.

7 – dire cosa sia il filo è impossibile, ma non però parlarne (annuisce): chi ne parla anzi precisamente in tal modo lo fa esistere. (bp) Per così dire – essere.

8 – fra le innumerevoli cose capaci di abitare uno spazio, il filo è la sola ad avviarsi verso i propri (brevissima sospensione dubitativa) i suoi – confini.

9 – nel 5 fu detto che filo andrebbe scritto maiuscolo, ma non credo di aver mantenuto il suo stesso e anzi il suo proprio impegno. (bp) Forse che lui ha mantenuto il mio? Da ridere!

10 – che poi li raggiunga (nuova accensione), ultima sigaretta, è tutt’altra questione.

11 – il numero 10 è eretico, perché non lo nomina.

12 – il numero 11 era due volte eretico: imputava al 10 di non nominare il filo, evitando di nominarlo a sua volta. A propria volta.

13 (rasserenato, quasi sorridente) – di nominarlo in prima persona.

14 – nel 13 pare rinfocolata la brace dell’eresia, che pensavamo estinta per sempre (si avvia verso l’ombra della sedia e si siede, lui stesso ora mera ombra).

15 – idem per il 14, il 15, il 16 e il 17. Pur essendo solo il 14 passato, solo il 15 in corso e solo il 16 e 17 futuri. Solo perché nominati. (raccoglie la cicca e la riaccende). Chissà. Dovessimo passare il tempo a chiamare per nome tutti i pensieri futuri… 18, 19, 20… non sarebbe consumarlo (nuova accensione) ultima sigaretta come una candela tenuta accesa per un cieco? (spegne precocemente, nuova accensione). Ultima sigaretta, in vita per un morto.

Pausa

16 – può accadere che, parlando del filo, si cada in contraddizione. E potrebbe essere altrettanto bene una domanda.

17 – che si sbaglino le previsioni.

18 – nel 9, o nel 10, come si può pretendere che mi ricordi con esattezza, la verità si intrecciava all’errore e l’intuizione alla tentazione.

19 – è impossibile tenere il conto di tutti i pensieri passati presenti e futuri che cadranno nella contraddizione di non aver nominato il filo.

20 – la strada imperiale incaica offre un abbagliante indizio sulla doppia natura del filo.

21 – le corde dei quipucamayos vi aggiungono un’importante conferma.

22 – rinunciando a chiedere cosa sia o cosa è il filo, scopriremmo cosa fa. (muove alcuni passi osservando ‘distrattamente’ la quarta parete e poi subito le proprie scarpe)

23 – il filo è eterno e ubiquo, e presenta inoltre una terza fatale qualità.

24 – quello di cui parli è una linea (bp) Quello di cui devi tassativamente tacere ha due facce o superfici come un foglio e tre più una dimensione come un universo, o un quaderno. (china la testa, come se avesse detto qualcosa di vergognoso).

25 – in un certo qual modo e maniera, il filo esce sempre un po’ dallo spazio per entrare nel tempo, sebbene nessuno abbia detto, né si sia mai sognato di pensare: ‘per poter entrare nel tempo’.

26 – e (nuova accensione) ultima sigaretta, viceversa (si volta, spalle al pubblico).

27 – il 26 non si regge sulle sue gambe e nemmeno merita- (breve ‘singulto’) -va di venir menzionato.

Pausa. Si avvicina al tavolo, si siede – in modo che le silhouette di corpo e oggetti risaltino a discapito della massa.

28 – ma qualcuno l’ha pur fatto.

29 – un quipucamayo si sarebbe rifiutato (smorfia di incipiente affaticamento mentale, si tiene la testa).

30 – cosa è un quipucamayo (come se svenisse, barcolla ma si muove nella direzione opposta alla sedia).

31 – non è lecito chiedere due cose contemporaneamente, (bp) sembra quasi di (nuova accensione) ultima sigaretta contraddirsi. (bp) Forse che invece lo si farebbe limitandosi a una?

32 – si possono fare domande? (siede al suolo, se c’è una quinta al limite appoggiandovisi, e comunque in maniera tale da generare un’ombra anche con il dito, che farà scorrere a o verso terra come un tracciante mentre osserva la quarta parete, come se trascrivesse in gesti quel che vi viene vedendo)

33 – il silenzio del filo è simile all’ombra che darebbe una fessura praticata nella luce. Lei stessa non fosse continua come invece è, e eminentemente, il filo.

34 – ulteriore e notevole prerogativa del filo è di aiutarci a rispondere alla domanda che chiede se si darebbe ancora uno spazio, nel buio più assoluto (di colpo si fa buio, lui si alza e si sentono due passi).

35 – il filo è in un certo senso ciò che ci aiuta (stop passi, nuova accensione).

36 – o che ci invita? Ultima sigaretta.

37 – a traversare la tenebra stessa come uno spazio (cozza contro qualcosa di misterioso, dato che la scena è vuota: rumore confuso registrato) e anzi uno sin troppo luminoso.

38 – (riprende a camminare ma con maggiore prudenza: passi più lenti e insicuri) nulla impedisce a nessuno di promettere che si fermerà – quale che sia l’azione da lui compiuta – all’azione numero 40.

Pausa

39 – il filo rettifica, ops! terrifica perché, mancando (improvvisa riapparizione della luce, identica a quando disapparve, per lui non è cambiato nulla, nessuna interruzione o cambio di tono), induce il pensiero del terrore che comporterebbe la sua (nuova accensione) – ultima sigaretta – presenza.

40 – avvicinarsi al numero 40 sembrava costituire il pericolo maggiore.

41 – il pericolo supremo.

42 – 42 (bp – Nota: nel caso facoltativo in cui legge ogni numero di battuta, qui lo ripeterà) Vuoi vedere che non sono più capace di contare?

43 (si avvia al proscenio) – non si può interrompere alcunché!

44 – unica esclamazione ammessa (bp, si guarda intorno) benché tutto sia unico. Un cappello (lo indica), una cappelliera (cs), un tavolo (cs), una sedia (cs), una lampada (cs), una scatola di fiammiferi (la cerca e non la trova), un-una (si tasta) penna, una-un fazzoletto (idem). (bp) Un (si leva gli occhiali con la mano libera, si frega gli occhi con il dorso di quella in cui tiene la sigaretta e li rimette) – uomo. Non dimentico nulla (eccezionalmente fa un tiro di sigaretta, poi subito nuova accensione) Ultima sigaretta. Ah forse un filo (tossisce) per guidarti verso l’uscita.

Pausa. Forte mal di testa, poi ‘esplosione’ all’indietro e ripresa dell’assetto composto

45 – tutto è unico, dunque, fuorché l’unicità. E il filo: persevera. (bp) Ad onta di tutto.

46 – soppesando l’ipotesi che egli sia non già il sentiero ma invece uno dei suoi corrimano – quale? Verrà subito fatto di domandare. Il destro? Il sinistro? (bp)

47 – si vede bene che è meglio, occupare il centro. Occupare, cioè essere, non lascia adito a equivoci, e poi: sempre meglio una constatazione che un’invocazione, o domanda che dir si voglia (si guarda le gambe, alza lentamente la testa lungo la quarta parete osservandola come fosse uno specchio, fa per aggiustarsi il nodo alla cravatta e constata di non indossarla. Allora appoggia con molta cautela la sigaretta sulla scarpa, si rialza si ‘specchia’ si aggiusta il fazzoletto, riprende la sigaretta).

48 (sguardo quasi negli occhi del pubblico) – non si può mettere il filo fra virgolette (enfasi su nota parentetica, mani a mimare le parentesi) (stessa domanda per le parentesi) – non ha senso alcuno scrivere (ci ripensa un attimo, dita che mimano le virgolette) dire ‘il filo’.

49 (nuovo gesto come se ci fosse la cravatta, abbottonandosi la giacca con la mano libera un bottone si stacca e cade al suolo con un rimbombo abnorme e metallico) – sin qui giunti. Filo permettendo, ignoriamo se ad attenderci è in agguato qualcosa o nulla del tutto.

50 – consideriamo doverosamente: se nulla ci attendesse, non potremmo dire se sarebbe nuovo o vecchio, principio o ripetizione. Ma solo di qualcosa.

51 – (nuova accensione) ultima sigaretta. Nuova intuizione. Sigaretta a cavallo tra qualcosa e nulla, sempre vecchia, sempre nuova.

52 – medita (china la testa e di colpo la solleva).

53 – fiat lux (si fa buio cs, simultaneo tuono e forte scroscio temporalesco)

54 – ecco una prima evocazione della nascita come equivoco. (muove qualche passo verso il tavolo, coperto dal rumore di forte pioggia battente)

55 – ed ecco un esempio calzante del filo come sola-cosa-che-sempre-vada-presa-alla-lettera. Calzante? Viene da calza, come filo che va verso filante. (sedendosi con affanno, bp) E se tutto venisse da una calza? Da qualcosa deve pur farlo. O da un cappello. O da un omb- (interrotto da un nuovo tuono terrificante e nuovo scroscio, che lo zittisce)

56 – prendere le cose alla lettera (pugno sul tavolo, torna la luce, lui è in piedi lì accanto) è come prendere la collottola per il cane. O viceversa, altrettanto – (nuova accensione) ultima sigaretta – impossibile. Nel primo caso perché la collottola sfugge e – se proprio dev’esser presa per il cane – anzi scompare, nel secondo perché il cane stesso guaisce e anzi morde. E – in definitiva – nemmeno lui si fa non diremo afferrare, nemmeno prendere.

Pausa. Esplora la strana luce intorno, fa per alzarsi ma qualcosa urta il tavolo e si sente una detonazione (se si può un filo di fumo esce dalla tasca), lentamente ma senza scomporsi si tasta i pantaloni e trova un piccolo revolver nella tasca.

57 – lo vedi. C’è anche l’altro cane. Anche lui con la sua brava collottola (carezza il grilletto e spara, non si sente nulla, la luce scompare e immediatamente dopo appare nel buio il lampo della scacciacani) – ma senza capo né coda.

58 – in entrambi i casi, impossibile. Il 57 non passa più. Non per questa fermata. Lo sapevate? Forse perché hanno abolito la fermata. Certo non possono aver abolito il 57. (ridacchia stentatamente) Come numero, si intende. (bp, alza improvvisamente la voce rivolgendola a qualcun altro, come rispondendo a una domanda) Come pensiero, è chiaro! (si ‘ricompone’) al più avranno (nuova accensione riuscita a metà) ultima cambiato (accensione completata) sigaretta itinerario.

59 – è impossibile prendere la collottola per il cane (nuovo accesso di mal di testa) o l’ordine invertire e per scrivere un esempio scrivere per esempio ’95 – 59′ o ’60 – 06′ o (bp) ’66 – 66′.

Bp. Tenta goffamente di imitare il suono della macchina da scrivere che va a capo. Buio sull’a capo. Nuova imitazione più riuscita. Luce.

60 – quel che vorresti dire (a sé) è che non ti aspettavi la mia voce. (breve accesso di affaticamento mentale, porta le mani alle orecchie, si sente un sibilo nell’aria che presto svanisce, parallelamente si attenua la luce sino a una media penombra)

61 – tu continua a nominare il filo. Non farci caso, se io non sono riuscito a non smettere, e non smettere. (nuova accensione ‘muta’ e conseguente bp)

62 – è impossibile infilare la parola filo in ogni frase. (bp) La cruna dell’ago non è la cuna del lago, e si fa più piccola via via che la stessa parola le viene infilata. L’asola a sua volta non reggerebbe un bottone sfilato, nemmeno ricucendo la A sulla I di Isola. Le cose si stancano al nostro posto. E a quanto sembra al nostro posto soprattutto si ribellano.

63 – continua, per favore. Bella soddisfazione. Ti prego. Non perderlo, perché io… (si china, quasi accovacciato, quasi delirante)… sento di essere giunto nei pressi di una sorgente.

64 – vai a capo, adesso. Lascia questa riga in bianco. (forte inspirazione) L’ho detto (brevissima impennata di luce), in bianco, (si fa buio su bianco).

65 – lasciala respirare.

66 – adesso scrivila a voce alta.

67 (col tono di chi cita) – “Il filo è ciò che non può mai tacere, perché è il silenzio in persona, il silenzio stesso”. (mestamente, testa china, si alza, guadagna il proscenio)

68 – pelle e ossa. (nuova accensione)

69 (tenta di scimmiottare un dialogo ‘interiore’) come scusa? Ultima sigaretta.

70 – pelle e ossa solamente.

71 – il silenzio.

72 – non è il filo. È la voce.

74 – cosa? Il filo non è il silenzio o il filo è la voce?

Pausa

75 – Pausa. Si avvicina al tavolo e si versa un sorso d’acqua dalla caraffa nel bicchiere (bp) Tutto questo accade o dovrebbe essere accaduto nel 75, che qui ha termine. (riflette e accenna una risatina, poi seriamente) Che qui ha il suo capolinea (incipiente sferragliare di tram e luce che torna in crescendo parallela al suono).

76 (in piedi al proscenio, la testa immobile mentre ‘passa  il tram’, fine sferragliamento) – sì o no?

77 – il filo di cui si parla, è bianco e –

78 (come se fosse stato interrotto, enfasi tonica su dove) – dove ho già sentito queste parole.

79 – e dato che anche lo sfondo su cui si muove è bianco, è come se fosse –

79 – – avresti dovuto dire quando, non dove ho già sentito. (bp) Pausa. Si avvicina al tav- ma che gradita sorpresa! Il 75 ha ripreso a passare.

80 – – trasparente. Non ci avevo fatto caso – come se non esistesse – benché mi pare che fosse non il 75 bensì il 57, a non passare più. Prima un ragazzetto, poi nemmeno in gestazione! (nuova accensione). Ult- (interrotto bruscamente)

81 – avrai avuto gli occhi chiusi e avrai visto quella fessura di cui si parlava nel 33.

82 – io nel 33 non ero ancora nato.

83 – ne son successe delle belle, nel 33. “Una fessura praticata nel corpo stesso della luce”.

84 – non diceva proprio così, il 33. Tu ne conservi un ricordo un po’ osé.

85 – è sempre il filo, anche se è una lama (facoltativamente, attenuazione della luce o buio e apparizione di una luce sagomata a lama sul fondale), anche quando è la cosa che ci fece dire quella fessura nel corpo della luce, v a g i v a.

86 –  (pausa) Breve pausa. (pausa) Ult- (c.s., la sigaretta nuova gli pende dalle labbra)

87 – malgrado il filo, a causa del filo o grazie al filo? Io trovo che questo (incipiente e crescente penombra), sia il vero mistero.

88 – non quindi l’enigma che fui invece io a risolvere? Allora tornerai solo, e il filo ti avvolgerà come un baco e come una mummia.

89 (bp) – 69

90 – come, prego?

91 – 67

92 – tempo (bp, si gira, va al tavolo, estrae da sotto una delle zampe un mazzo di carte e lo smazza, in piedi) – leggo.

93 – (voltandosi verso il pubblico, la luce si sposta da lui al tavolo, che potrebbe rivelare – se non è realizzato stile ‘ombra cinese’ –  il panno verde) conosco il tuo gioco.

94 (mentre si siede) – “sfregalo a voce alta”. (si accende la sigaretta con un fiammifero dalla scatola ‘ritrovata’, comincia a distribuire le carte sul tavolo, come per un ‘solitario collettivo’, e fuma)

95 – mettere i miei pensieri fra virgolette (comincia a ‘giocare’) non ti servirà ad appropriartene, né a schiarirti né le idee né la voce (si schiarisce la voce, luce più a tema su di lui).

96 – 17, che si sbaglino le previsioni – era dunque una domanda, anzi una preghiera acciocché per esempio le Ande rimangano qui con le loro Aconcaguas e il colombo non precipiti più dal cielo, non più. (aspira, vento e stridio di uccelli in crescendo)

97 – è la fine, 97, la previsione non sbaglia mai perché non fa che dire quel che ci fa segretamente ripetere. Non sbaglia perché vuole che ci sia qualcosa purchessia, e dinanzi a questo che per lei è il Dono, è disposta a rispondere. Con la gratitudine.

98 – non capisco (aspira, luce che scema).

99 – il filo è questo qualcosa-purchessia, sempre del mai, ieri dell’oggi e del domani, (bp) eccetera dell’Ultimo. (la luce scema e si fa più calda e concentrata sulle sue mani che muovono le carte)

100 – adesso capisco. (toglie e rinette la sigaretta fra le labbra) Mi hai dato del filo da torcere (disegna nell’aria una specie di simbolo con la sigaretta quasi finita), ma finalmente capisco che capisco perché ripeto – sebbene mi faccia arrossire – parola per parola l’eccetera dell’ultimo.

101 – e dire che non mi sono mai accorto, né di quando scoprimmo di essere uno solo, né di adesso che è il pensiero 101. (bp) Sebbene il ‘patto’ fosse di far cifra tonda, e di finire a 100. (bp) Si vede bene che a questa stregua i conti non tornano. (bp, la luce si fa aurorale, tentativo di risatina c.s.) La caccia alla volpe deve continuare, ben oltre l’alba (bp, quasi buio, voce ormai quasi inudibile). Si è mai visto uno che la fa finita a 100? (bp, buio, solo la brace della sigaretta che si muove con le sue labbra) – come se uno potesse cominciare da zero e non da uno… se è uno, comincerà da sé (spegne la sigaretta al suolo sotto una scarpa), o no? (risatina) Sia pure senza nient’altro, ma almeno a questo non dovrebbe mai essere indotto a rinunciare. (spegne l’ultima sigaretta e – facoltativamente – raccoglie da terra un filo sinora impercepito, lo raggomitola, lo mette in tasca e esce di scena con luci a svanire).

 

 

L’APPUNTAMENTO

trillo per tapis roulant

 

 

Scenografie, arredi e costumi.

 

Un tapis roulant nascosto da un tappetino d’erba sintetica variamente conformata e in tonalità cromatica e in altezza. Lei cammina nel centro esatto di quella che dovrà quindi apparire come un’aiuola immobile: un’aiuola incolta, selvatica, campestre, un’aiuola che la segue come un’ombra, come una nube personale.

Dall’alto potranno penzolare farfalle in plastica o cartone, insetti multicolori, rondini. Allo zenit della linea di proscenio pendono due gabbiani, che simuleranno un volo contrapposto: uno nella stessa direzione di lei, l’altro in quella opposta.

Il bordo inferiore del proscenio dovrebbe evocare il greto di un torrentello che nel corso dell’azione si fa vero fiume, e che procede verso la foce nello stesso senso di marcia della viandante. La sua presenza sarà significata, oltre che dai suoni, da ciuffi di vegetazione tipici: canne, steli ondeggianti, ciottoli levigati etc. Il vento soffia, debolmente all’inizio, contro di lei, da sinistra verso destra.

La quinta di fondo è arredata con una mensola nascosta esattamente come il tapis-roulant, da un manto di vegetazione finta. Sul quale sono allineati, come in una serra per bambole, fiori di ogni sorta e colore, ovviamente finti: e tanto più vivaci allo sguardo. Potrà essere sormontata da una ‘tovaglia’ di finte frasche, su cui saranno allineati simboli stilizzati delle quattro stagioni: a destra una fiamma di camino ormai quasi spenta, al centro fiori vivaci e sagome di uccellini sospesi, a sinistra foglie secche e ramoscelli spezzati.

Lei veste un abitino campagnolo, l’equivalente femminile del completo di velluto maschile per la messa domenicale: il cui panneggio, la cui stoffa, i cui colori devono sì schermirne il corpo, ma non il fascino. Polacchine di pelle grossa e calze colorate in vista.  Nel suo costume saranno visibili i colori delle quattro stagioni, ma specialmente delle due più prossime al Simbolo: la primavera, e l’autunno.

La luce è quella dei pastelli, tenue, tenera, capace di evocare quel che di segretamente comune hanno l’aurora e il crepuscolo.

Il suono: un intreccio garbato di vento e di flebili scrosci, tenui correnti. Se c’è una musica, un sottofondo confuso ai rumori d’ambiente: una Fuga di Bach, o l’Offerta musicale, eventualmente alternata a melodie malinconiche (Debussy e Satie, per esempio).

La scena è fissa, ma la luce deve sottolineare il mutamento cromatico del pannello sul fondale, illuminando sempre e soltanto una zona parziale, cominciando da destra per finire a sinistra, nello stesso senso di marcia della viandante. I colori così manifestati riveleranno in successione: l’inverno (a destra, l’inverno sul finire, ghiaccio in lontananza, primo verdino a fondovalle), la primavera, un rapidissima estate (al centro), l’autunno (a sinistra).

Lei cammina con passo quanto più possibile indipendente dal congegno sul quale si muove, con un’andatura variabile secondo le necessità dell’azione.

Lei (né declamando né parlando, ma solo accennando a una flebilissima melopea, che si intreccerà appena dissonante con l’eventuale musica di sottofondo, o viceversa ne creerà una):

 

Com’è bello il cammino

di chi non ebbe un giardino!

com’è lungo il vialetto

di chi più non ha letto!

 

(prosastica, in tono colloquiale): E tu? Amor mio, tu non lo credi? Non mi ascolti, tu che attendi?

 

Tu che attendi la sera

sei una statua di cera!…

che si scioglie nel sole

e concima le aiuole.

 

Pausa. Scorge un roseto, scende dal tapis roulant e va a cogliere una rosa. Di nuovo.

 

Sarà per un nuovo mazzolino

ch’io rinuncio al giardino?

sarà questa la rosa rossa

che ti darà vibrante scossa?

 

Pausa. Pensa, ‘come se’ stesse componendo lei le parole della poesiola.

 

Sarà per il tuo bel camino

ch’io avrò colto nel cammino

cinque petali mancanti

perché tu ne rida e canti!?

 

Il sole splende più di prima, la luce illumina la zona primaverile del fondale e del pianale.

 

Nel camino dell’anno prossimo

brucerem come se fossimo

la fronda d’un solo ramo

che stormisce col suo ‘ti amo!’.

 

Pausa. Un passo più faticoso degli altri. Si ferma, scende dal tapis roulant, si china a terra, rimanendo nella sua aiuola.

 

Toh! Un sassolino. Ma è normale, in campagna! Non è forse normale, un sassolino in campagna? Un sassolino sotto la scarpa? Quanto sarebbe peggio se fosse dentro!

 

Breve pausa, quasi in ingresso in un coro immaginario. Riprende a camminare.

 

Quanto sarebbe peggio

se fosse stato dentro

oggi che siam di maggio

oggi che il rododendro…

 

Pausa. Non riesce a proseguire. Rallenta il passo. La luce sottolinea la zona centrale del fondale, piena di fiori in sboccio, quasi una ghirlanda artificiale-naturale.

 

Rododendro…chissà perché ho detto rododendro…nemmeno ne ho mai visto uno! E tu, amor mio, lo conosci, il rododendro? Sì? Davvero. Tu sai tutto, ci avrei giurato, che lo conoscevi, tu. Vorrà dire che sarai tu a darmene uno, vorrai? (canticchia senza parole la stessa ‘melodia’ di prima, accelera leggermente. Nota: la ‘melodia’ dev’essere il più possibile improvvisata nell’hic et nunc della rappresentazione, e non affatto memorizzata da una partitura rigida. Può essere un tema rudimentale, di quattro note al più, sulle quali la sua voce esegue trilli e flebili variazioni).

 

Vorrai, vorrai

darmene uno

saprai, saprai

farmene un pruno?

 

Pausa. Sorride con compiacimento. Ripete: farmene un pruno. Accelera leggermente.

 

Farmene un pruno

saprai saprai?

darmene uno

vorrai vorrai?

 

È buffo come si possano rigirare le parole! Come calze. Come nelle capriole.

 

Come nelle

capriole

sono snelle

le parole.

 

Pausa. Ripete fra sé senza tono né ritmo: come – nelle – capriole – sono –s-n-e-l-l-e-le parole. (breve pausa) Mi ascolti? Amor mio, mi stai ascoltando? (breve pausa col naso un po’ all’in su)…mi ascolti tu almeno, anche se chi ti parla sembra dimenticare ciò che ti ha detto? Ascolta, allora, le parole di chi ti ama.

 

Le parole di chi ti ama

non son quelle di chi ti chiama?

Nel silenzio che pur le duole

(pausa infinitesima ma percettibile)

scricchiano sempre le sue suole.

 

Pausa, lentamente: suole, suole…e che sudore! Sudore costa il passo, fra la pietra e l’erto sasso (parla al ritmo con cui cammina solo perché cammina al ritmo con cui parla. Ora prova il ‘passo in prosa’, stile marcetta quando comincerà a spezzare le parole) Mi ascolti, mio amore?…Mi nascono in grembo le tue ore…(quasi un’eco)…ore…ove…ove tu ora sei, nudo è il tuo corpo laggiù, così io vorrei. Non stancarlo. Non stancarti. Non stancatevi. Non andate via. Sto arrivando. Qui è pieno di fiori, e lì? Come dev’essere bello dove tu sei! Dove sei ora tu io non sono mai stata. Ti troverò mai? Ritroverò la strada, quando smarrito avrò il cammino?

 

(Il sole è allo zenit estivo. Il vento cresce in intensità. Trasognata, à la Mary Poppins):

 

Com’è bello il cammino

di chi non ha nulla più

di un petalo del fiorellino

che intero sei tu!

 

Breve pausa. Con mesta intensità: sei tu? Sei tu che mi parli? Sono dunque io che ti ascolto. (improvvisamente vezzosa, distratta ad arte) Ma guarda! Un cespuglio nuovo! Com’è buffo: non sembra un leprotto? (scende dal tapis e va alla mensola con i fiori: che infatti compulsa come un libro illustrato) ma guarda poi! Un fiore secco! In un prato? (raccoglie fra due foglie verdi il fiore secco, lo porta delicatamente al naso):

 

Lei: stupida che sei! I fiori secchi non odorano! Sono fiori fieri, però: malgrado tutto. Fiori che non appassiscono mai! (stranamente pensosa) E nemmeno fioriscono, però. E che strana luce emana questo solo fiorellino! (sinceramente stupita) E com’è opaco: ma non spento. (il fiore le scivola via, lei resta immobile a osservarlo. È caduto proprio fra i suoi piedi).

 

(brevissima pausa, con scioltezza)

 

Quale gracile stelo

fra le dita ghermivo!

Tale  vita a un disgelo

troppo facile offrivo.

 

Anzi sembra che brilli più del sole! Sì: che brilli come una piccola luna. (intensa, sentimentalmente conclusiva) Forse questo tipo di fiori luccica per la notte, o profuma per gli spiriti. Per i ciechi, per i perduti: per chi non ha naso né mani, e forse…(lo raccoglie) cosa dico mai!…nemmeno un corpo. Fiori piatti! (depone il fiore nell’incipiente insenatura dei seni, badando a non penetrarvi: ma il fiore non vuole stare e scivola ancora via) Bah. (lo lascia cadere e riprende il cammino). Vai un po’ dove vuoi.

 

Sono fiori per i perduti

per i candidi e per gli astuti

sono fiori già finti eterni

per i mille e poi mille inverni.

 

La luce sbiadisce lentamente, e illumina meglio, orizzontalmente, la mensola delle stagioni.

 

E per i vermi. (breve pausa) Ah questo no. Ai vermi proprio no! (se possibile, inverte il senso di marcia camminando sempre sul tapis, torna nel luogo dell’ultima sosta, altrimenti scende dal tapis e simula due passi, raccoglie il fiore secco, sfila dal polsino sinistro un fazzoletto, ve lo avvolge, ripone il fazzoletto sotto il polsino, riprende la marcia). In terra…

 

In terra ci vanno gli aghi

degli istrici e dei pini,

(brevissima pausa poco più che respiratoria)

laggiù è la cruna dei laghi,

(quasi scivola col piede, e con la voce sulla parola duna, che accentua)

laggiù la duna dei porcospini.

 

In terra…com’è difficile occuparsi di quel che succede in terra! E quant’è più bello il cielo! (brevissima pausa, sguardo sulla punta dei piedi) o forse no, non è il cielo a essere bello (nube di dolorosa scoperta, rinserra la veste sul seno, come se avesse freddo). È la bellezza, a essere celeste.

 

Il cielo con la sua luce

vela ritaglia e cuce;

nido che nutre e sfama

la bocca di lei che ama…

 

(alza lo sguardo e lo fa scorrere lungo la quinta di fondo, rallentando impercettibilmente la marcia. La luce illumina la zona di confine fra la mensola estiva e quella autunnale). Anche il cielo, anima mia, meriterebbe una sua pellegrina! (pausa. Leva lo sguardo e tosto lo ripone a terra) T’ho chiamato anima. Mio Dio, amor mio: cos’ho fatto (ride) Che cos’ho fatto! Anima, t’ho chiamato. Quand’è al tuo corpo che tutta io aspiro! Quand’è a te, alle tue mani, alle tue labbra, che io affannata porto le mie povere gambe, e quei piedini che così tu ami chiamare, e che sempre tu dici di amare tanto. Ma se non li hai mai visti! (breve pausa) No, non li hai mai visti…(si ferma, scende dal tapis, esce dall’aiuola, sul greto si toglie le polacchine e le calze, nasconde entrambe in un ciuffo di canne, risale e riprende il cammino):

 

Presto il detto, lesto il fatto

alle scarpe scacco matto!

Alle calze diam l’addio

tutto per l’amore mio!

 

Ahi! Di nuovo il sassolino? (rallenta) O cos’altro questa volta? (si ferma senza scendere) Un macigno? Una rupe? Una forra? (il vento soffia ora dalla quinta destra alle sue spalle, agitandole i capelli, le vesti):

 

Un macigno una rupe una forra

non saranno la tua zavorra:

per chi va dall’amore suo…

(breve pausa)

…per me che vò dall’amor mio

non c’è che il vento col suo fruscio.

 

Che strano. Ora sembra che la terra scivoli sotto i miei piedi! (accelera, come se fosse in discesa) Che strano. Ora mi sembra di volare! E ora invece di cadere. E non è forse un volo quello di chi corre incontro all’amore? Corre, incespica, cade…corre, s’innalza, s’invola? Al sole come quel greco…

 

Al sole come quel greco,

ma senza il suo sciocco osare,

lei guarda recando seco

la stella d’un altro andare!

 

Cieca…Però questo vento! Ora par quasi troppo. Ma forse sei tu un amico suo? L’amico dell’amor mio? Vento, vento che affretti il mio già affannoso passo: dimmi, vento, è già lui di me lasso? Dimmi, tu che avesti nome d’Eolo…(pausa. Vuoto, anche il passo si fa incerto e stanco, il sole ormai basso sull’orizzonte transita verso la parte sinistra della quinta di fondo, e illumina sempre più debolmente uno strato di foglie autunnali)…tu che d’Eolo avesti il nome: dimmi come, dimmi tu come…ma perché non rispondi? O non a me rispondi? Sei tu, colui al quale io parlo? Sei tu, lui? O è lui, a essere te? Dio, ma cosa accade?

 

(breve pausa) Com’è che faccio così fatica adesso? (passo più lento e appesantito, come se camminasse in salita). Com’è? Forse che la terra…forse che il cielo…qualcosa che mi tira…qualcosa che mi respinge…chi è che mi parla adesso? (breve pausa) È il silenzio stesso. No: non ancora. (il vento comincia a soffiare in direzione contraria, e la ostacola. Guarda le foglie e l’angolo del pianale ora sempre più debolmente illuminato).

 

Da quando non vedo più fiori lungo questo bel sentiero mi dolgono le gambe, sai tu amor mio perché? E perché la luce si fa così fioca, così tenue, così pallida, languida quasi…E solo foglie: foglie secche (breve pausa) e tu non mi parli. Tu che non mi parli più. Mi aspetti però ancora, vero? Vero? Mi senti, e non mi ascolti: o nemmeno più mi senti. Lo sento: lo so. (pausa) Dio. Dio. Lo so.

 

Debole fiore, fragile tegola di terracotta.

(breve pausa intensa)

Rossa era tua gola, scarlatta tua gota focosa.

(breve pausa scolastica)

Niente più ne rimane.

(pausa ritmica)

Non un fiore, non un petalo,

solo un nugolo dal greto.

 

(si ferma, con un sospiro guarda il greto)

 

Non un fiore

non un petalo

solo un nugolo

dal greto.

 

(rallenta, non ce la fa quasi più) Dio, ma si sgretola!

 

Non un petalo

non un fiore

nel dedalo

del dolore.

 

(breve pausa): nel mio dedalo: di dolore.

 

(si ferma, scende, guarda oltre il boccascena)

 

E questo bel torrente? S’era fatto un fiume, e guardalo: non un canale, non un rigagnolo. Un letto senza risveglio, una brocca senz’acqua (sfila il fiore secco dal polsino, lo getta oltre la sponda).Rigido capezzale di un sogno.

 

(emaciata, sfinita):

 

Un letto senza guanciale

ecco un ben triste capezzale:

brocca senza bevanda,

profumo senza lavanda.

 

La luce cala, lei non vede né capisce, e continua a poetare. Il fiume che l’ha accompagnata sino a qui col suo dolce scroscio smette di parlarle, e così gli uccellini. Il vento ha smesso di soffiare. Scende dal tapis roulant, quasi a tastoni intorno alla sua aiuola:

 

Dunque sono giunta? (pausa) Era questo il posto dove dovevamo incontrarci. Anzi, conoscerci. Eh sì: non li avevi mai visti, i miei piedini (la luce illumina ora solo la zona dove posa i piedi nudi) Un poco di luce è rimasta: solo per loro. Mi riconoscerai? (con flebile affanno) Mi saprai – mi vorrai – mi potrai riconoscere? Io non vedo più nulla (brevissima pausa) e tu? (inciampa in qualcosa che sino a ora era rimasto in ombra) Cos’è? (quasi completamente buio) Cos’è? E questo silenzio! Come potrai riconoscermi, se non avrai la mia voce? (pausa) Eccola. Eccomi.

 

Al buio

 

Hai le mani ancora tiepide

e le unghie rosa rosa

che carezzano la lapide

ove il sonno pur riposa.

 

Hai le mani calde calde

e le dita lunghe un lume

sono queste alle mie falde

le tue nevi sciolte in fiume.

 

Torna il fiume alla sorgente

torna al nido l’aquilotto

tiene in bocca col serpente

della vita l’aspro motto.

 

Scroscio pluviale, cinguettio, luce improvvisamente primaverile. Lei china sulla ‘lapide’ – i piedi che poggiano sulle punte e spingono in fuori i rosei calcagni – sorregge la rosa che aveva còlto nel cammino, immobile come una statua nell’atto di deporla. Due secondi sulla rosa a mezz’aria. Buio. Due secondi. Silenzio. Sipario.