Cantare del lupo (2013)
A Eriana
I
Accucciato sotto tronchi d’abete,
estinto l’alto ululato, mi lecco
le ferite; malinconicamente
guaisco sotto la sferza del vento
di tramontana aspettando decida,
tra il dolore e la mia carcassa, quale
per primo portarsi via, o insieme
II
Non la mia lingua, quella della madre
lontana, perduta, la sua mammella
saprebbero medicare, o colmare
questo cuore che lento va spegnendo,
lo squarcio che il cervello crepa, affonda.
O la compagna mia dolce di un canto
d’amore che si allontana al tramonto
l’orma della quale neve ricolma,
pietrifica il gelo l’alito ambrato.
Giorno dopo giorno sempre ritorno
al luogo amaro dei nostri convegni
d’amore; ma nulla ritorna, tutto
è spaccato, come roccia che il sisma
sgretola, e non ripara
III
Lo sgelo ancora non è questa neve
che dimoia; ma uno squarcio nel cielo,
il sole che la coda sbatte e scopre
gli sterpi, l’umido mugo, e trattiene
l’odore di lei che all’olfatto torna.
Muso radente percorro il sentiero
d’angosciata speranza. Ecco, qui sono
le pietre, lo spiedo, i sigari spenti,
le cartucce scartate.
L’orrore vela, oscena cateratta,
nel passato rovesciati i miei occhi;
tutto rivedo, riodo ogni suono:
le strida feroci, i latrati, il sangue,
l’amore infrangersi, spaccarsi, lei
fuggire, morire, tutto finire
IV
Quando urla la foresta alla luna
tra il cirmolo corro all’impazzata
e il borro che allo schianto mi chiama.
Si popola di spettri il terreno
sollo, il pacciame solleva il muso,
l’ugola espelle il pianto, il rimpianto
di lei, dei giorni odorosi, gli occhi
pietosi, i riti amorosi. Tarda
l’alba, troppo tarda; il sangue in vena
tenebra spegne, nero veleno
V
I miei cuccioli, sono quelli, adulti
e solitari ormai, pronti a sguainare
a digrignare i denti su me, il padre
che li ha protetti e allevati; ma un giorno
mentre davo a un cervo o a un sogno la caccia
del tenero odore ho persa la traccia,
e il nuovo olfatto smarriva la mia.
Oggi, a loro straniero, di lontano
guardo, ripiego triste tra le zampe
la coda, nell’abbandono mi lascio
VI
Non girano più le stagioni, solo
rossa neve calpestano le zampe;
ovunque l’inverno e gelo di pietra
sugli aghi dei larici e nei miei fianchi.
Punge anche la bava pietrificata
dentro il penero come stalattite.
Stanco, sempre più stanco, stanco, stanco
ritorno alla tana, rimuovo i rami,
i tronchi d’abete, ultima dimora.
Attendo qui la notte estrema; voglio
tornare terra, concimare fiori.
Natura mi assorba, mia ultima dea