Rossana Ida Di Paolo
Poesie e Racconti
Piatto di coccio
Sei un piatto di coccio
urtato nella mia vita;
prima delicatamente
e poi irrompendo gli spazi.
Quante schegge hai seminato
e non trovo colla
che neutralizzi le giunture,
La tristezza
Come un manto senza tono
Come un velo senza pieghe
Scende la tristezza infrenabile e insinuosa.
L’ha preceduta così tanto rumore
da rimanere impassibile ma non indifferente.
Ha imploso il coraggio, ha reciso i sogni,
ha provato sgomento di fronte a tanta disumanità.
Deposita le sue armi come il calciatore le scarpe
e si rifiuta di dialogare:
non c’è ragione che possa risollevarla
dai sentimenti calpestati.
Continua il suo religioso ritiro,
un rifugio senza nomi e senza volti chiamato dignità.
Ultimo
Nato per errore
Combatti per far capire che esisti
Non ti spieghi come tu possa lasciare
quell’indifferenza intorno e,
nel peggiore dei casi
antagonismo.
Quando tutto intorno a te progredisce naturalmente
tu stai sprecando quel tempo
per disinnescare la mina
A testimoniare che in quel mondo
esisti anche tu.
Quello schiaffo
Non dimenticare quello schiaffo
Non fartelo scivolare
Combatti con forza quel dolore
Più potente del più nefasto malessere fisico.
Lavoraci a duello come un nemico
Implementa schemi di difesa
e rielaborali continuamente
a seconda dei suoi adattamenti
nelle posizioni del tuo cuore,
della tua mente,
dei tuoi ricordi e delle tue difese.
Resisti!
Quando faranno di tutto per neutralizzarlo e,
ancor peggio, mistificarlo
Non crederci…
Puoi perdonare ma non assecondare,
dimenticandolo.
La cosa più nobile che puoi fare di fronte a tanto
è chiamarlo per nome secondo una dignitosa verità:
violenza.
E poi
E poi passa il tempo
lento eppur così veloce
inafferrabile ma potente
come una diga sconfinata dagli argini.
Spazza via,
fluisce violento,
si riassetta e si ridimensiona
dopo aver scomposto impetuoso
l’ordine atavico delle cose,
quella quiete fragile dello status quo.
Eppure,
ancora quel retrogusto di antico.
Catapultato, disseminato, imbarazzato e stordito
incurante riemerge.
L’esperienza e la coscienza
Sono cambiate tante cose. “L’esperienza deve diventare coscienza!”. Questa frase del mio “amico” Ignazio Silone mi ha sempre destato uno stupore, il quale stupore è segno di profonda corrispondenza tra quello che senti dentro e quello che incontri, che vivi.
L’esperienza è un incontro, un incontro spesso imprevisto e proprio per questo suscita stupore e ti commuove. Tanti incontri non producono niente, o comunque poco. E di questi ce ne sono troppi e ti senti scialbo dopo averli avuti. Ma ci sono incontri che ti cambiano la vita perché i tuoi occhi guardano qualcuno che improvvisamente ti spalanca la realtà.
Mi è accaduto proprio questo: ho incontrato un uomo che è la parte migliore di me! Sì, di quella Donna nascosta dentro di me, una donna-bambina o una bambina-donna, che non ha mai smesso di cercare la vita, di guardare dentro le cose, di assaporar il gusto delle piccole cose e lasciarsi andare. Guardare le foglie ingiallire, fermarmi colpita da un papavero sul ciglio di una strada trafficata, incantata dalla ginestra in fiore, colpita dalle rughe scalfite sul volto di un’anziana…. ritornare senza malinconia a tutti i momenti in cui ignara guardavo alla via con curiosità mai sazia. Tante volte volevo gridare la felicità o il dolore, troppe volte quel grido è rimasto in gola.
E’ difficile gridare se non c’è nessuno che raccoglie il tuo grido! Guardandomi indietro provo misto di tristezza per attimi non vissuti e gioia per sguardi corrisposti, per mani strette, per parole vere!
La fatica della realtà
La più grande fatica di un uomo è lo stentare l’abitudine al greve senso dalla precarietà.
Un’abitudine che in tutta sé stessa comporta un’eterna tristezza dal momento in cui la stessa realtà viene percepita. La realtà comporta necessariamente il gustoso mistero dell’utopia: è come una carta d’espatrio alla quale accedono quanti si accorgono di essere circoscritti da angusti confini, piccoli quanto l’uomo.
Si lotta per accettare la realtà, si fanno conquiste solo quando l’uomo di fronte ad essa si rende cinico, pragmatico, con forte spessore terreno o eterno ma sempre ancorato alla consapevolezza dei limiti del reale.
Così lotti per un qualcosa in cui credi, per un giorno, un mese, un anno, una vita ma da un momento all’altro tutto cade avvolto dalla dalle sabbie mobili.
I sentimenti sono uno spazio che al reale non è concesso, sono ramificazioni inermi e vane che finiscono inevitabilmente nel baratro del reale: prima o poi la realtà ti mostra il suo conto e tu non puoi fare altro che pagare.
E in questo non si contano le conquiste o le vittorie e non si contano il gol o i tiri in traversa, si contano solo i falli e le sconfitte. Queste prevalgono fino a determinare tutto quel cantuccio che avevi trovato nel profondo del tuo cuore, quel cantuccio che ti si staccava dalla schifosa realtà e che apparteneva solo al tuo mondo, alla tua sensibilità, alla tua anima, alla sfera dei tuoi sentimenti.
“E come è solo un uomo, lo so solo io”. Il prezzo di una vita costruita sui sentimenti è la solitudine.
Capire questo mondo, così diverso e uguale dal reale, è privilegio di pochi, dei più.
Cosa pretendi uomo?
Momenti di illusione: il tempo
Assaporo pochi attimi di tranquillità, mi perdo nel silenzio del tempo, mi affaccio nel nulla del suo scadenzario ma non mi ritraggo.
Osservo e vedo tante forme che si muovono a rallentatore come se fossero in uno spazio senza gravità. E da quanto mi serviva assaporare il non-nulla del tempo, il suo illusionismo tendenzioso e personale….
Ma qual è il suo linguaggio? Non è più univoco, così confutabilmente interpretabile… è il tutto o il niente, il bene o il male, l’ansia o il riposo, la tranquillità o l’affanno. E io dove sono in questo spazio dove c’è o non c’è tempo? Sono a distanza dal nulla, a distanza dalla percezione dell’infinito del tempo, sono al centro.
Ma in equilibrio tra le due opposte pressioni che si avvicendano erratiche ma costanti. Non ho bisogno di resistere, sono solo semplicemente in armonia. In armonia significa fermarsi un attimo e cogliere il lento scivolare del tempo e poi subito dopo la sua frenetica corsa e rimanere spettatori incorruttibili.
Il tempo non mi ha corrotta. Sono salva, almeno per ora.
Riflessioni: il valore dell’esperienza umana
Sono fortemente convinta che il valore dell’esperienza umana sia assolutamente incommensurabile. Pretendere, cioè, di misurare in qualche modo significa pretendere di ingabbiare tutto un mondo fatto di mille risvolti che lo rendono, appunto, non classificabile. Una delle operazioni che senza dubbio sono destinate a fallire nel corso di una esistenza, è quella di schematizzare tutto e tutti, è quella di pretendere di “spiegare” tutto in base a pregiudizi e a preconcetti, in base a “logiche” che male si addicono all’uomo. Uno dei cardini di ogni riflessione sull’uomo deve essere il pensiero che “ogni uomo è irripetibile”. Se volessi usare un’espressione biblica, “il cuore dell’uomo è un abisso”. Credo che entrambe racchiudano una verità facilmente riscontrabile da chi riflette solo un po’ su quello che è il mondo interiore, il mondo nascosto nella propria anima, il mondo della coscienza. Tutto questo non significa per me una rinuncia a capirci qualcosa, bensì significa essenzialmente un atto di umiltà nei confronti di tutta la realtà e, soprattutto, significa un atto di amore verso quello che è la vita, l’uomo, la natura stessa. Sono convinta che solo seguendo le piste dell’Amore e dell’umiltà si possa giungere a capirci qualcosa sul significato della vita in tutte le sue dimensioni. Questa sul significato e sui perché della vita, è una domanda vitale e sarebbe da considerare malato colui che afferma di non essersela mai posta. Ognuno, nei momenti più svariati della sua giornata, non può fare a meno di porsi delle domande, delle riflessioni sul senso del vivere umano. Queste riflessioni vogliono svilupparsi intono alle tematiche esistenziali, tenendo alta la soggettività di tutto questo: non vogliono essere riflessioni a freddo bensì esperienza data nella certezza che ognuno ha in sé altrettanto materiale pari o superiore al mio.
Accogliere, ergo ostentare?
Come ci si può trovare oggi, facendo fede ad uno spontaneo senso di solidarietà e rispetto del Diverso, ad essere considerati ostentati nell’anticonforme comportamento di accoglienza e inclusione? In una società in cui il diverso sembra essere avverso, in cui il rispetto verso l’altro lo si calibra al contesto socio-culturale, soprattutto quando la sua frequentazione o il suo contatto presuppone un annacquamento apparente delle proprie vesti del “politicamente corretto”, la mia sensibilità ed il rispetto di cui la mia formazione si intinge, mi ricordano che non sono venuta al mondo con la pulsione di sopraffare l’Altro, né tantomeno di possederlo. Capisco che chi ascolta la vita, in primis accoglie ma che quest’accoglienza è un dono, quello che ti fa passare direttamente all’altro senza bisogno di ri-conoscerlo, sarebbe già questo un filtro, ma alla pari. La verità è che io esercito simpatia ex-ante e questo mi fa felice. Questo esercizio è concreto, continuo, volto a rimuovere continuamente gli ostacoli. Parigi, nel quartiere della Halles, davanti alla chiesa di Saint Eustache, un’enorme testa in pietra appoggiata su un altrettanto mano gigantesca impera nella Place René-Caissin. Un testone pensieroso che sembra immagazzinare voci e suoni che lo circondano, si identifica con un nome significativo: Ecoute (ascolta). Ho pensato che oggi questa immagine ci rappresenti nei più importanti deficit della società moderna: ascolto (l’orecchio) e accoglienza (la mano). Non sarà un caso se nella Bibbi la parola ascolta sia ripetuta ben 183 volte e altre coniugazioni del verbo ascoltare compaiono 593 volte. Accogliere qualcuno diverso da noi significa aprirci ad un linguaggio non nostro e non in senso strettamente linguistico. Io mi sono costruita il mio linguaggio verbale, il mio linguaggio corporeo che dipende dalla mia storia (famiglia, ceto sociale, amicizie, studi, carattere…) ma, a volte anche se involontariamente, esso può costituire un muro più resistente delle porte e dei mattoni alla comunicazione. Cosa rende così ostentato un comportamento accogliente? Il fatto che, come ogni sport che meriti, ci vuole allenamento e questa è una società poco disposta a perdere tempo per allenarsi. Ho la sensazione che “la difesa della propria identità” sia uno slogan con cui mascherare la paura di integrarsi con comunità diverse dalla nostra storia, cultura, religione, moralità e che lo stesso ci stia portando all’isolamento come il riccio di una castagna. Ci sono delle antiche consuetudini, presenti in tutte le culture, come dovere sacro e questa è una di quelle che sta scomparendo. Se ci pensiamo bene, “diverso” e “divertente”, hanno la stessa derivazione etimologica: diverso deriva da “devertere”, andare in direzione opposta, allontanarsi dalla regola imposta dalla società. “Diverso” stessa radice da cui deriva la parola “divertimento” ergo, il loro significato è accomunabile: il contrario della serietà e delle regole imposte. Chi si “diverte”, chi è “diverso”, è contro le regole, non si omologa alla massa, ride, esagera, “ostenta” la propria condizione. Ostenta. Appunto. “Ostentare”, a sua volta, deriva da ostendere: obs, davanti e tendere, volgere. Voltarsi in avanti, rivelare, in senso lato, accennare quel passo in più rispetto a chi non ne è capace perché è fermo allo stesso punto. Un atto che pone una verità rispetto a chi non vuol vedere. Per questo è un atto che dà fastidio, che a volte pone di fronte ai nostri fantasmi. Il passaggio che ciascuno deve fare è quello di ampio respiro che non riconosca il diritto di esistere ma che riconosca il diritto di vivere. Ostentare è far “sapere”, che ha come accezione anche quella di portare sapore. Il sapiente è colui che sa e che sa di qualcosa. Tra le cose da sapere, a mio avviso, ci sono le nostre origini, la nostra storia, conoscere da dove arriviamo. Siamo solo esseri umani e, in quanto tali, non dobbiamo essere ospitati. L’ospitalità di un uomo, dunque, non va posta mai su un piano estrinseco, è piuttosto un Dovere Umano.
Rossana Ida Di Paolo