Come stai ?
Io srotolo per te rotondi avverbi neutri
Bene… discretamente… sì.
Come tappeti morbidi e lanosi
sul lastricato sconnesso dei miei giorni:
tracce asimmetriche in ordinate file.
Che tu non sappia
del mio eterno inciampare
in vuoti aguzzi di perché, di come.
Nel filo, il tuo respiro che la fretta artiglia:
scarti una caramella.
E mi accartoccio anch’io
nella stagnola di una caramella
che ha il gusto acre dell’indifferenza.
Con suoni rotti, rauche note vocali
appese al rigo di inverse melodie,
intono ancora, per lasciarti andare,
Bene…discretamente…sì.
Un giorno qualunque
Stringere fra le ciglia
spavalde di mascara
sfilacci di carezze
nel tempo già impigliate.
Guardare sulla tovaglia
sghembe righe di sole
dorare d’importanza
le briciole di pane.
Sentirsi abbandonati
come una bicicletta
contro un muro scrostato
nel caldo della siesta.
Con l’alito annebbiare
i tratti nello specchio,
cogliendo solo l’idea
che ognuno ha di sé stesso.
Vivere di precario
in un caleidoscopio,
cromatiche equazioni
che un tremito scombina:
tremule schegge iridate
già in cerca d’altre luci.
Timide poesie
Bussano alle tempie, le parole.
Le sbatte il caos del vento
per asciugare le gocce d’impazienza.
Provo a stenderle in fila
su immaginaria corda da bucato.
Le trattengono deboli pretesti:
mollette di sintassi e ortografia.
Saranno mie ancora per un poco,
sorrideranno d’incerto e di tristezza
sul filo di un uscio cigolante
che fa confine al bisogno d’andar via
come alla timida voglia di restare.
Con rosse labbra dipinte d’imbarazzo,
con troppa polvere di cipria fra le righe,
andranno infine, vincendo la paura.
Orme nuove su consunti selciati
fatti di nulla e vetro,
dove risuoneranno forse solo
i tacchi a spillo della punteggiatura.
Apro le mani e il cuore
e se ne vanno così,
come innocenti prostitute felliniane,
queste mie oneste, timide poesie.
Ricordi in una scatola da scarpe
Forse… uno schiaffo di vento
o un vento d’emozioni
e all’improvviso si apre la finestra.
Non so perché
affiorano proprio adesso
vecchi ricordi che credevo inerti.
Sfilano sul muro della stanza,
nitidi come Ebrei con le treccine
sotto i neri cappelli con la tesa,
dentro l’abbaglio bianco d’Israele.
Chiudo di scatto gli occhi per fermarli.
Respiro un po’ a fatica. Deglutisco.
Ma già una frusta di verbi all’imperfetto
separa le figure in ombre e luci:
quello era il prima
e questo invece è il poi.
Fuori, nel cielo, nuvole soltanto.
Ferme nell’omertà, come fissate
a una tela di Magritte.
Ritornano sul fondo a respirare
vecchi e rauchi ricordi soffocati
da un diaframma di cartone:
il coperchio di una scatola da scarpe.
Rosso magenta, tacco medio, 36.
Eppur si vive
Di nuovo invecchia il giorno nella sera.
Folletti stanchi tornano
in punta di pensiero
verso stanze di alloggi popolari.
Parole nate all’alba in auspici di colore
sbiadiscono nel grigio dell’esausto.
Su giorni di fatica,
sul galoppo dei minuti
divorati a strappi e morsi.
Su perle opache stanche di rubare
schizzi di luce.
Sul geranio annichilito
che il giorno castigò di troppo sole e sete.
A dita aperte si allungano le ombre
per ghermire smarrite passwords
di accesso alla ragione.
Scende, senza bussare,
una lacrima che cancella tutto.
Così rientro nel teatro dei gesti
a rammendare sdruciti canovacci
a punti stretti di speranza e ostinazione.
Bucce di cipolla
Con gli occhi semichiusi fissati sul tagliere
culli la mezzaluna sulle note ritmate
di una legnosa nenia.
Ti scende qualche lacrima ma tu non te ne curi,
ferma nel tuo dovere.
Ben altri pianti vennero da una mala stagione
che volse presto al nero.
<<Mamma, tu stai piangendo>>.
Da te, soltanto un gesto tracciato con la mano,
vago…accarezza l’aria come un’assoluzione
al poco che hai avuto.
Chissà quant’è lontano, se pure mai c’è stato,
il tempo della gioia: acqua che esalta i sassi
di più vivi colori,
come i lontani pizzichi che davi alle tue guance
per farle un po’ più rosa.
Un filo conduttore che stringe il prima al poi
se ora di rosa e liscio resta sul tuo tagliere,
ricopre il tuo arrancare, statica nevicata:
brucianti falde rosa di bucce di cipolla.
Autunno
Sentori di giallo, di rosso e non so
in un liquido autunno.
Il rude sapore di un aspro dittongo
sul calmo velluto di qualche vocale.
E il vento già straccia d’azzurro
un cielo che mostra la schiena.
Vergogna nel rosso di foglie
e un vago sorriso di sole che assolve
un accenno di nebbia e di rughe,
sul volto stupito dei campi,
su scarni vitigni aggricciati.
Appesi a monconi di attesa
volteggiano sogni e domande.
Riflesse, su viscidi asfalti,
le tinte sbavate del neon delle insegne:
colori di sogni caduti
con tonfi di stracci bagnati.
Mi guardo allo specchio del vago,
mi affaccio a un bicchiere di vino
e bevo l’autunno a piccoli sorsi
che sanno di caldo e di sole,
che sanno di fiotti d’estate,
che sanno di amori finiti.
Alba
Galleggia nella tazza
il beige del caffellatte
in una neutra quiete
ancora da spezzare.
Il rubinetto gocciola
acquatici secondi
che s…cadono in un piatto
lasciato nel lavello.
Stridono contro i vetri
metallici singhiozzi:
il camion dei rifiuti
strattona i cassonetti.
Chiudo gli occhi di legno
e tengo fuori il giorno
per un secondo ancora,
il nulla di un sospiro.
E nella luce incerta
della cucina all’alba
riaffioro con gli oggetti
in geometrie di seta.
Ma già il sole illumina
la polvere sui vetri,
sembra nobilitarla
in un gesto d’amore
di cui m’incanto…e vivo.
Lungo i novantanove grani di un rosario musulmano
Suo fratello mi aveva scritto. <<Vieni. Lui ha lasciato qualcosa per te e ho promesso di consegnartelo di persona>>.
Non andai subito, la mia mentalità occidentale mi indusse a dilazionare la partenza per farla coincidere con un periodo di ferie già programmato.
Aereo, treno e poi corriera. Rivivo quel viaggio.
La corriera, un vecchio modello scassato dalle forme arrotondate, si infila come una supposta vagante nel quasi vuoto che abbiamo davanti: distese giallastre a tratti interrotte da piante di assubbar, fichi d’India che sembrano esprimere una desolata rassegnazione volgendo le pale spinose al cielo, come braccia trafitte e dolenti. Mi colpisce una coincidenza: in arabo fico d’India e pazienza hanno le stesse consonanti.
Nel riquadro del finestrino, palme spettinate come la capigliatura di una vecchia sfilano davanti a me quasi a sottolineare la strada polverosa.
L’autista non sembra per nulla turbato dai sentimentalismi che invece opprimono me e procede balzellonando con il suo vetusto mezzo sulla strada sconnessa. Ha l’aria allegra come se, dopo, qualcosa di bello l’aspettasse. Con un fiore di gelsomino issato su un orecchio, ascolta estasiato uno struggente motivo, una canzone di Fairuz che mi traduce.
Ti ho aspettato in estate
e i tuoi occhi sono l’estate.
Ti ho aspettato in inverno
e i miei occhi sono l’inverno
dopo l’estate.
Si gira a guardarmi per valutare se e quanto apprezzo la canzone. Apprezzo e glielo dico.
Ha occhi scuri, senza confine fra iride e pupilla e lo sguardo è mobilissimo, quasi una danza di neri jinn, i folletti della tradizione popolare araba.
Per fortuna la barriera dei miei occhiali da sole non gli fa sapere quale stagione passa, al momento, nei miei occhi.
<<E’ lui ? >> Aveva chiesto l’ufficiale dell’esercito che presidiava il paese, in cerca dei rivoltosi.
<<Sì, è lui, è Aziz.>> Così aveva risposto in un soffio vergognoso la voce che puntava in diagonale al pavimento, come del resto gli occhi, forse già pentiti del tradimento.
Ripercorro con la mente frammenti della vita di Aziz ed è come tastare con le dita della memoria i novantanove grani di un rosario musulmano. Su ogni grano, il flash del ricordo imprime un’immagine.
Lui bambino alla scuola coranica, poi ragazzino a vendere pasta di sesamo, frittelle e zucca candita con
suo padre, al mercato. Lui giovane all’Università italiana, poi uomo che sceglie la ribellione e con un gruppo di Shebab organizza la rivolta.
Mentre ci avviciniamo al centro abitato si palesano i segni della distruzione: la guerra prima e la guerriglia poi. Case diroccate, distese bruciacchiate, muri tirati su alla svelta e male, campi che nessuno cura più. Saracinesche sghembe, arrugginite e talvolta deturpate da vistose lacerazioni. Rotonde.
Qualche finestra, però, è ancora ingentilita da graticci sui quali si avviluppa un gelsomino.
Intanto, un senso di oppressione si insinua nel mio petto e si concentra lì, fra le costole che avverto come una gabbia di legno.
Compio l’ultimo tratto del viaggio a piedi e non ho più la barriera metallica di mezzi di trasporto a dividermi da persone e luoghi. E’ un brusco passaggio attraversare il mercato che sembra un caleidoscopio dove non solo i colori ma anche i suoni balzano in avanti e sfiorano i sensi.
Colori di Aleppo si rifrangono su bottiglie d’olio in cui languono erbe aromatiche. Qua e là chiazze cromatiche occhieggiano dai sacchi di juta, colmi di spezie che non conosco.
L’aria è pervasa da una sommatoria di fragranze che tento di scomporre: latte cagliato, incenso, peperoni, caffè speziato al cardamomo, limoni, legno pregiato che arde nei bracieri…
Sulla mia testa si incrociano come sciabolate, suoni e grida di richiamo carenti di vocali. L’unico suono
che posso riconoscere è lo stanco zoccolare di un asino che avanza piano in quel marasma. Muove la testa in un costante “sì”, accentuato dal dondolio dei basti.
Ritrovo infine il fratello di Aziz, il ragazzo che mi ha scritto e l’oggetto posto fra noi non basta a colmare i nostri silenzi.
E’ un pacchetto di foto e fogli, scritti nella tortuosa eppure armonica grafia araba che nel tempo imparerò a decifrare. Il pacchetto è malamente tenuto insieme da uno spago. Aziz, il cui nome significa
“caro”, sorride nelle foto dove compaio anch’io, l’amica e compagna di studi. Sullo sfondo, il vissuto condiviso, l’Università italiana.
E’ lui anche il ragazzo ritratto nell’immagine che appare al centro di una corona di fiori, omaggio che
qui riservano a chi è caduto con onore. Anche a chi, come lui, è stato fatto esplodere nel suo cucinino, dalla violenza del gas e non solo, come in un banale incidente domestico.
E’ tempo di tornare e non è il pacchetto di foto e fogli ad appesantirmi il viaggio.
COME I GIGLI DEI CAMPI
Interno di una cucina, aroma di caffè e chiazze di luce fra le tende.
Con il mio aiuto muovi i tuoi primi passi.
La notte ha lavato tutto con le sue aeree, silenziose acque e il mattino ne esce pulito, di un rigore quasi luterano.
Appaiono nitidi i sentimenti, gli alberi, le case. Il prato, umido di rugiada, è un grande viso verde dopo un pianto ormai consolato.
Chiazze di sole di un giallo stridente danno luce alle tendine di pizzo della finestra, come la speranza ai pori dell’anima e tutto, a quest’ora del mattino, sembra bello e possibile. Il giorno brilla come una risata.
In cucina aleggia l’aroma del caffè ma anche una vaga scia di disagio che si va facendo sempre più consistente fino a colpirmi come una sassata. E’ il ricordo del nostro scontro di ieri sera. Una “singolar tenzone” come tante, in questi ultimi tempi.
La tua faccia ha impressa un’espressione di sfida, è un rotondo cartello di divieto che non consente l’accesso alle mie parole e che sembra non dondolare mai al vento del dubbio.
Com’era bello guardarti dormire. Apparivi così indifeso eppure forte nella tua serenità di bambino.
Ora che non mi è più consentito spiare il tuo sonno, posso cogliere quella lontana espressione di serena debolezza solo quando esci dalla doccia con i capelli umidi. Subito dopo, una congrua dose di gel andrà a pietrificare la tenera umiltà della capigliatura: l’unica parte morbida del tuo corpo di adolescente spigoloso. Che fatica essere madre, un ingaggio a vita da cui non si recede e…se si potesse, vorrei?
Sulla porta di casa giri di tre quarti la testa dalla pettinatura scolpita ad elmo crestato, in un frettoloso cenno di saluto. E già il “fuori” ti cattura come un magnete che non esaurisce mai la sua forza di attrazione. Prima che la porta si chiuda (sbatta) vorrei dirti che ti voglio bene comunque. Invece, con toni da feldmaresciallo prussiano, riesco solo a dirti .:“vedi di non fare troppo tardi come al solito”.
E ancora penso, con le mani abbandonate in grembo, come farfalle stanche e deluse.
Se tu facessi, dicessi, ammettessi. Se fossi…
Ancora non muore la speranza che il groviglio di fili che ci tiene vicini ma lontani, si dipani prima o poi in più morbidi sentimenti. Per ora si tratta solo di fugaci sprazzi come luce su “cocci aguzzi di bottiglia”.
Così le mie emozioni vacillano ancora. Sono caviglie sottili su tacchi troppo alti.
Tu, invece, avanzi con una sicurezza che forse è solo apparente: passi spavaldi dentro anfibi neri.
Cala la sera, Il mio viso ne assorbe le ombre e si fa triste come una città sotto la pioggia.
Nella pioggia di parole che ieri sera ha inzuppato entrambi, una nota stridula nella tua voce rivela che forse sei stato colpito nella tua suscettibilità per qualcosa che ho detto. Mi sfiora il carezzevole dubbio che tu non sia insensibile. Certo, sostieni le tue ragioni con mala grazia, annulli le mie domande con altre domande di cui aspetti le risposte solo per convenzione, senza ascoltarle davvero.
Dimmi perché…Ma tu sfuggi alle mie parole e osservi intento il volo di un’ape ubriaca che non trova più il varco della finestra.
Basta, sto zitta. Non voglio che le emozioni siano contaminate da parole che inchiodano e pongono in quarantena.
Eppure, per quanto stranamente, provo per te gratitudine per non avermi permesso di varcare il confine che difende la tua soggettività di individuo quasi adulto.
Sulla linea che separa il diritto dal dovere, mi sono fermata in sospensione su una frase che viene da lontano e che invita a non preoccuparsi più del dovuto: “Guardate i gigli dei campi”.
Se è davvero così, il mio compito è solo quello di darti luce, aria e un terreno non troppo arido dove tu possa affondare le tue radici di giglio dispettoso. Quanto all’acqua..quella di una lacrima potrà forse bastare.
Interno di una cucina, aroma di tisana e chiazze d’ombra fra le tende.
Con il tuo aiuto muovo i miei ultimi passi.