Silvia Ferbri
Poesie in mostra
Vuoto
Bottiglie vuote
Barattoli vuoti
Scatole vuote
Tutto il vuoto
– in questo pieno
di vecchi oggetti inutili,
fasulla compagnia –
che nulla sa riempire
Se potessi
Se potessi
strapperei da me
questa pelle
dolente
che ancora ti desidera
queste vene che pulsano
malate
attorcigliate
schiaccerei
le spine
di tutti quei ricordi
che risorgono
ogni mattino
nel dolore del risveglio
e oscurano il domani
nebbia densa che non si respira
mentre cadono i giorni
come foglie morte
In una curva del tempo
Alba avanzava a fatica in mezzo alla folla della stazione. Aveva accompagnato e salutato sua sorella, Elena, più giovane di lei di quattro anni, che quel giorno partiva per una vacanza con il suo ragazzo. Alba la invidiava un po’, pur sforzandosi di essere allegra e di partecipare all’entusiasmo di Elena. Alba si era separata da poco dal marito, e si sentiva sola e triste. Aveva trentacinque anni. Si chiedeva se sarebbe mai riuscita a rifarsi una vita, se avrebbe incontrato di nuovo l’amore. Camminava a testa bassa, verso l’uscita, immersa nei suoi pensieri. All’improvviso, notò tra la folla qualcuno che le sembrava di conoscere. Voltandosi per vedere meglio di chi si trattasse, Alba inavvertitamente urtò una persona al suo fianco. Era una donna di mezza età, che subito la apostrofò malamente. “Ma insomma, che modi! Cerchi di guardare dove va!” Alba balbettò qualche parola di scusa, e si allontanò in fretta, per raggiungere la persona che aveva attratto la sua attenzione. Si trattava di un uomo, alto, snello, con folti capelli castani e profondi occhi scuri. Alba era certa di conoscerlo, di averlo già visto, anche se non sapeva dirsi chi fosse, e dove mai l’avesse incontrato prima. Quando arrivò vicino a lui, l’uomo le sorrise, e le rivolse la parola. “Ho visto quello che è successo poco fa.” Disse, con una voce calma e armoniosa. Anche quella voce, Alba era sicura di averla già sentita. “Sono cose che capitano, con tutta questa confusione…” aggiunse, indicando la donna che ancora protestava, girandosi ogni tanto a guardare incattivita Alba. “Già… io mica l’avevo fatto apposta…” replicò Alba, un po’ imbarazzata. L’uomo la osservò con interesse. “Posso offrirle un caffè, qualcosa, per farle scordare il piccolo incidente?” domandò, e di nuovo le sorrise. “Grazie, si, molto volentieri” rispose Alba. Era emozionata, il cuore le batteva forte. Si avviarono al bar della stazione, si sedettero a un tavolino in un angolo. Sorseggiando i loro caffè, chiacchierarono del più e del meno, poi si raccontarono qualcosa uno dell’altro. Passarono rapidamente al “tu”. L’uomo si chiamava Ernesto. Era separato anche lui. Come Alba, non aveva figli. Alba lo guardava, affascinata, continuando a frugare nella memoria, ma non le veniva in mente nulla. Eppure, quel viso, il taglio dei capelli, le mani… tutto di quell’uomo le era familiare. Così accettò di accompagnarlo per una passeggiata. Restarono insieme tutta la sera. Andarono sul lungomare. Cenarono in un piccolo ristorante con vista sulla spiaggia, intimo e caldo. Alba, dopo tanto tempo, era felice. Non avevano fatto altro che guardarsi negli occhi. Finito di cenare si lasciarono, con la promessa di rivedersi il giorno dopo. Alba rincasò a malincuore. Avrebbe voluto passare la notte con lui. Provava un forte desiderio nei suoi confronti. Poi si disse che non doveva avere fretta. Anche Ernesto dimostrava di essere attratto da lei. Se non era stato precipitoso, significava soltanto che aveva rispetto per lei. E questa era senz’altro una qualità. Si coricò serena, con il cuore colmo di aspettative. Stentava a prendere sonno. Nel dormiveglia, ebbe come una visione. Vide se stessa assieme ad Ernesto, sulla spiaggia. Il sole stava tramontando. Ernesto era arrabbiato con lei, la rimproverava per qualcosa. All’improvviso, iniziava a colpirla. La prendeva a schiaffi. Lei piangeva. Poi Ernesto le cinse la gola con le mani e cominciò a stringere, sempre più forte, finché Alba non riuscì più a respirare. Alba si alzò di scatto a sedere sul letto, soffocando un grido. Era in un bagno di sudore. Convinta di avere sognato, si chiese come mai, inaspettatamente, avesse fatto un sogno così brutto. Poi, passata la prima inquietudine, si diede della stupida. Ernesto non le era mai sembrato un uomo violento, tutt’altro. Alba teneva molto a lui. E si fidava di lui. Decise di non dare alcuna importanza a quel sogno assurdo. Nel pomeriggio lei ed Ernesto si rividero, come d’accordo. Ernesto era affettuoso e gentile, e Alba non pensò più a ciò che aveva sognato. Con Ernesto stava bene, si sentiva in sintonia, molto più di quanto si fosse mai sentita con Giorgio, il suo ex marito. Quella sera lui la invitò a casa sua. Alba lo seguì senza alcuna esitazione. Non stava più in sé dal desiderio che aveva di lui. Dormirono insieme. Fecero finalmente l’amore, e tutto fu dolce e bellissimo. Ernesto si era rivelato un uomo appassionato e fantasioso. Presero ad incontrarsi ogni giorno, a passare sempre più tempo insieme. Alba, al settimo cielo, dimenticò del tutto quel sogno lontano. Una sera, molti mesi dopo, andarono a passeggiare sulla spiaggia. C’era un tramonto magnifico. Si sedettero sulla riva del mare. Erano soli. Ogni tanto un gabbiano volava rapido sopra di loro. Il rumore del mare era piacevole e rilassante. Abbracciati, stavano in silenzio, ammirando l’orizzonte davanti a loro, che colmava gli occhi con la sua bellezza. Era un momento magico, assolutamente perfetto. Qualcosa, però, da un istante all’altro, spezzò quella magia. All’improvviso, Ernesto guardò Alba in modo strano e le disse, serio: “Tu non sei sincera, Alba. Era già da un po’ che volevo dirtelo. Non mi vuoi bene davvero. Ti prendi gioco di me.” Alba sgranò gli occhi. “Ma cosa dici, Ernesto? Perché fai così? Che cosa ti salta in mente?” “Ti vedo, sai, come guardi gli altri uomini. Stai con me, ma già cerchi un’altra avventura. Tu vuoi divertirti, e basta.” replicò lui. Alba era esterrefatta. Non si sarebbe mai aspettata un comportamento del genere da parte di Ernesto. Dove era finito il suo sorriso? Dove erano i suoi modi gentili? Perché non si fidava più di lei? Una luce strana negli occhi di Ernesto la spaventò. E poi, tutto avvenne molto rapidamente, così come Alba l’aveva immaginato, o meglio, come le aveva mostrato quella sua visione di tanto tempo prima. La notizia dell’ennesima uccisione di una donna da parte del proprio compagno impressionò e indignò, come sempre, quando avvenivano delitti così terribili. Il nome di Alba si unì a quel lungo triste elenco di donne vittime di violenza. Non aveva minimamente compreso, Alba, quello che era davvero accaduto. Ignorava che a volte, per un imperscrutabile motivo, succede di riuscire a vedere il proprio futuro in una curva del tempo, senza rendersene conto, come se ci fosse una fessura, attraverso la quale il nostro sguardo può entrare, senza volerlo, per un momento. Non aveva mai pensato che il tempo fosse curvo, come lo spazio. Non avrebbe mai immaginato qualcosa del genere. Aveva confuso la sua visione con un sogno. Ernesto l’aveva già incontrato, e per questo riconosciuto, ma non faceva parte del passato, quel ricordo. Faceva parte del futuro. Un futuro a cui Alba, inconsapevole, aveva permesso di accadere.
Le parole perdute
Davanti allo specchio del bagno Laura si stava ritoccando il trucco, e già pregustava la festa di fine anno a cui era stata invitata assieme a Marco. Poche ore, e sarebbe iniziato il 2054. Era eccitata e allegra. Sentì il bisogno di comunicare a Marco le sue emozioni. Appoggiò l’eyeliner. Prese lo smartphone, aprì l’app MyWords, fissò lo sguardo sul display, e le sensazioni che provava si trasformarono rapidamente in parole, le più precise ed efficaci, quelle che lei mai avrebbe saputo dire. Digitò il nome del suo compagno e inviò. L’intelligenza artificiale aveva fatto passi da gigante. Sua nonna le aveva raccontato di quando le persone avevano iniziato a conoscerla e adoperarla. A poco a poco, tutti si erano resi conto di come avrebbe facilitato e semplificato ogni cosa. Poi era comparsa l’app MyWords, e in breve aveva raggiunto un successo strepitoso. In un istante trasformava le emozioni nelle parole più adeguate. Si registrava la propria impronta vocale, e l’app inviava il messaggio recitato esattamente con la voce di chi lo trasmetteva. Tutti ne erano entusiasti, tutti la utilizzavano. Tramite lo smartphone, lo smartwatch, il tablet, ma soprattutto attraverso i dispositivi che chiunque poteva installare a parete, in ogni stanza della propria casa. Comunicare non era mai stato così facile.
La festa volgeva al termine, a breve si sarebbe brindato al nuovo anno. Laura si sentiva irritata, Marco a un certo punto si era allontanato da lei e aveva ballato un po’ troppo con Anna. Quando Marco si recò nella zona bar, Laura cercò la sua borsetta, la aprì e recuperò lo smartphone. Voleva fargli sapere quello che provava. Aprì l’applicazione, la fissò come di consueto, e attese che si formassero le parole più adatte ad esprimere il suo disappunto. Passarono alcuni istanti. Troppi. Non stava accadendo nulla. Come era possibile? Si allarmò. Sapeva che in passato era esistita l’“assenza di connessione”, ma adesso, con l’evoluzione della tecnologia, questo non succedeva mai, in nessun luogo. Si guardò intorno smarrita. E subito si rese conto che c’era qualcosa di strano. Anche gli altri osservavano con ansia i loro smartphone. Nessuno osava parlare. Ma in breve il problema esplose in tutta la sua drammaticità. L’app MyWords aveva smesso di funzionare!
La conclusione della serata era stata disastrosa. Tutti erano agitatissimi, e dopo un rapido brindisi si erano rapidamente dileguati. Qualcuno aveva tentato di incoraggiare gli altri, senza riuscirci – Sarà un malfunzionamento temporaneo! Rimedieranno al più presto! – A casa, Laura non riusciva a prendere sonno. Distesa nel buio, con gli occhi spalancati, guardava Marco dormire e ascoltava il suo respiro tranquillo e regolare. Avrebbe voluto svegliarlo e dirgli quello che aveva provato alla festa, ma non sapeva trovare le parole. Si sentì penosamente impotente.
Il giorno dopo, l’applicazione non riprese a funzionare, e così per i giorni seguenti. Si vociferava di un potente virus informatico. L’agitazione e il panico divennero collettivi, sembrava di vivere un autentico incubo. Dentro di sé, Laura avvertiva come un moto di ribellione, e iniziò a frugare nella memoria, disperatamente, cercando di ricordare frasi e parole che spesso l’app aveva creato e trasmesso per lei, spulciò vecchi libri e vecchie poesie, interrogò se stessa. Deve essere possibile utilizzare la nostra intelligenza per esprimerci! Si ripeteva come un mantra. E un’idea insistente la tentava, e infine si impadronì di lei. Una sera, mentre attendeva che il robot della cucina servisse già pronta la cena, Marco rientrò dal lavoro stranamente allegro. – MyWords ha ripreso a funzionare! – annunciò trionfante. Invece di gioirne, Laura avvertì un senso di fastidio. Si rivolse a Marco, con una convinzione di cui lei stessa si stupì. – Senti…io… voglio fare un esperimento. – Marco spalancò gli occhi, perplesso. Laura diede un colpo di tosse e cominciò a parlare. All’inizio incespicò nelle parole, ma infine riuscì a dire a Marco quello che provava. Lui la scrutava sbalordito. Qualcosa, pian piano, anche in lui mutò. Guardò Laura e, goffamente, iniziò a scusarsi per quanto accaduto la notte dell’ultimo dell’anno, finché lei non si sentì tranquilla. Laura era emozionata. Incredibile! Stavano… parlando! Stavano comunicandosi le rispettive sensazioni, senza bisogno dell’app! Le parole magari non erano perfette… ma erano le loro parole! Non solo la loro voce, ma le loro parole! Si abbracciarono, felici, sorpresi, confusi. Infine, Marco le sorrise, e disse: – Cancelliamo l’app MyWords. Non ne abbiamo bisogno! – Si Marco… facciamolo – disse lei in un soffio. Prese lo smartphone, selezionò l’app e la eliminò. Marco la imitò senza esitare. – Invitiamo anche i nostri amici a farlo!!! – annunciarono all’unisono. Poi si guardarono, dubbiosi. – Ma… ci ascolteranno? Pensi davvero che vorranno tornare indietro? – Non lo so. – sussurrò Laura con un brivido. – Però dobbiamo tentare. -
Natale al binario 12
Non era un appassionato di treni e stazioni, Giovanni, però alla stazione ormai trascorreva gran parte del suo tempo. Da quando aveva perso il lavoro, e anche Anna, sua moglie, lo aveva lasciato, ogni giorno i suoi passi lo portavano in stazione. Si sedeva sulla solita panchina, al binario dodici, e guardava arrivare e partire i treni. Soprattutto i treni in partenza lo affascinavano. Sognava di salire su un treno e andare via. Ma non avrebbe saputo quale destinazione scegliere. Si sentiva solo, e pensava che la sua solitudine lo avrebbe seguito ovunque. Osservava affascinato le persone che arrivavano e partivano con i loro bagagli, che avevano una meta, un’aspettativa; invidiava chi scendeva dal treno e trovava qualcuno ad attenderlo, chi si salutava con un abbraccio, con la promessa di rivedersi presto. Non sapeva davvero che farsene della sua vita. Diceva a se stesso che non avrebbe dovuto abbattersi e perdere del tempo prezioso, presto avrebbe finito i pochi risparmi, doveva darsi da fare, trovare un altro lavoro. Ma qualcosa lo paralizzava. Un senso di angoscia lo opprimeva. Riusciva a star bene solo lì, alla stazione dei treni, al binario dodici. Non aveva scelto quel binario a caso. Il primo giorno che si era trovato chissà come in stazione, su quel binario aveva assistito a una scena che lo aveva commosso. Un uomo di mezza età era sceso da un treno, e una donna, appena più giovane di lui, gli era corsa incontro. Pareva che i due non si vedessero da tanto tempo. Pensò, dall’espressione sul volto dell’uomo, che lui non si aspettasse minimamente quell’incontro e quell’accoglienza. Si erano riuniti in un abbraccio che era durato a lungo. Piangevano. Ogni tanto si staccavano uno dall’altra, si guardavano, si sorridevano, poi riprendevano ad abbracciarsi, con le lacrime agli occhi. Ridevano e piangevano nello stesso momento. A Giovanni si inumidirono gli occhi. Da quel giorno, era tornato sempre su quel binario.
Giovanni era triste, quasi disperato, ma era sempre gentile con tutti. Se gli chiedevano una moneta, o una sigaretta, non diceva mai di no, se le aveva. Il giorno del suo cinquantesimo compleanno, si concesse un piccolo vassoio di paste. Uscì dalla pasticceria con il suo prezioso pacchetto, e si recò come di consueto al binario dodici. Si sedette sulla “sua” panchina, scartò delicatamente il pacchetto e ne estrasse un bignè al cioccolato. Il cioccolato gli tirava su il morale. Mentre stava per dare il primo morso al bignè, con la coda dell’occhio vide qualcuno avvicinarsi. Si voltò piano. Una ragazza alta e bruna, avvolta in un cappotto rosso un po’ logoro, stava raggiungendo la “sua” panchina. Si guardarono. La ragazza aveva un’espressione triste e smarrita. Giovanni si perse per un istante in quegli occhi scuri, profondi, senza fine, così li descrisse a se stesso. “Posso?” domandò piano la ragazza. “Certo, prego, si accomodi!” rispose Giovanni, e si scostò per farle posto. Si sentiva un po’ in imbarazzo. Istintivamente, porse il vassoio alla ragazza. “Le posso offrire una pasta?” chiese, intimidito. Alla ragazza si illuminarono gli occhi. “Grazie…. Lei è molto gentile. Ne prendo una molto volentieri.” E senza esitazione scelse la pasta più grossa, la addentò, tuffandosi avidamente nella crema. Giovanni pensò che probabilmente se la passava male anche lei. Avvertì un moto d’affetto nei suoi confronti. Desiderò abbracciarla e tenerla stretta. Ma non osava, e restò fermo al suo posto. Mangiarono in silenzio le paste, che Giovanni divise generosamente con lei, una a testa, finché non le ebbero finite. Finito di mangiare, la ragazza si alzò, scrollò via con le mani le briciole che le erano rimaste sul cappotto, sorrise, mormorò un “grazie” e si allontanò. Giovanni avrebbe voluto trattenerla, ma non ne ebbe il coraggio. Rimase immobile a guardarla andare via. Osservò le sue caviglie sottili, le sue scarpe un po’ consumate, il suo modo di camminare, che trovò particolarmente elegante. Da quel giorno, Giovanni trascorreva ancora più tempo al binario dodici della stazione, sperando di incontrare di nuovo la ragazza. Era ormai passata una settimana, quando, un tardo pomeriggio di novembre, Giovanni vide nuovamente quella misteriosa ragazza. Quasi si scontrò con lei, mentre usciva dalla stazione. Stava venendo buio. Le luci artificiali dei lampioni gettavano ovunque la loro luce fredda. Si fermarono entrambi, si guardarono. “Buonasera!” disse Giovanni dopo qualche istante di indecisione. “Buonasera”, rispose con un filo di voce la ragazza. “Come sta? Tutto bene?” domandò Giovanni. La ragazza lo guardò senza rispondere. Giovanni non sapeva che altro dire. “Venga, le offro qualcosa di caldo” propose, e, senza attendere un suo consenso, la prese delicatamente per il gomito e la condusse al bar della stazione. Si sedettero a un tavolino in fondo al bar. “Cosa gradisce?” domandò Giovanni. “Una cioccolata calda, per favore” rispose la ragazza. “Ottima scelta!” osservò Giovanni, e si alzò per andare ad ordinare. Per sé ordinò la stessa cosa. Adorava anche lui il cioccolato, in tutte le sue forme. Sorseggiarono la cioccolata bollente senza parlare. Le vetrate del bar erano appannate. Fuori deve fare freddo, pensò Giovanni. Quando ebbero finito di bere la cioccolata, Giovanni si fece coraggio e le chiese: “Posso sapere il suo nome?” La ragazza si pulì le labbra con la mano e sorrise. “Mi chiamo Isabella” disse. Poi aggiunse: “E tu?” Giovanni si sorprese per un attimo, ma fu subito felice di quel “tu”. “Io mi chiamo Giovanni” rispose. Lei annuì. Per un po’ restarono in silenzio. Giovanni non voleva sembrare indiscreto. Lei era così giovane… Esitò qualche minuto, poi azzardò: “Posso sapere qualcosa di te?” La ragazza sorrise nuovamente, e, sembrando quasi sollevata, come se avesse bisogno di liberarsi di un peso che la opprimeva, gli raccontò d’un fiato la sua vita. Giovanni pensò che le loro storie fossero molto simili. Aveva perso il lavoro anche lei. E il suo ragazzo l’aveva lasciata per un’altra. Era sola, e il futuro la spaventava. Giovanni avvertì una stretta al cuore, e sentì di nuovo il bisogno di abbracciarla. Si limitò a prendere una mano della ragazza tra le sue. Era una mano magra, con le dita lunghe e affusolate. Era fredda, e Giovanni d’istinto la sfregò delicatamente, per scaldarla. Lei non chiese a Giovanni di raccontarle di sé, e Giovanni scelse di non dire nulla. Si salutarono, con la vaga promessa di rivedersi.
Passò un altro po’ di tempo. Si stava avvicinando Natale. Giovanni era più triste che mai. Le luci natalizie, la confusione, l’allegria della gente intorno a lui lo stordivano. Non sperava quasi più di incontrare Isabella. Il giorno della vigilia, si recò come al solito al binario dodici della stazione. C’era una gran ressa. Chi partiva, chi arrivava. Questa volta Giovanni si sentì fuori posto. “Che ci faccio qui?” si chiedeva. Stava per andarsene, quando improvvisamente vide Isabella. Era arrivata al binario quasi di corsa. Lui restò immobile ad osservarla. La ragazza di colpo si fermò, sbirciando i vagoni in mezzo all’andirivieni della folla. Poi il suo viso si illuminò. Giovanni la vide correre verso una delle carrozze. Un giovane con lunghi capelli biondi scese dal treno e restò lì sul binario, senza muoversi, guardandosi intorno. Poi anche gli occhi di lui si illuminarono, e Giovanni pensò che fosse lì per incontrare proprio Isabella. E fu così. I due giovani si gettarono uno nelle braccia dell’altra. Ridevano. Erano felici. Quella felicità contagiò in qualche modo Giovanni, se pur avvertiva dentro di sé una punta di amarezza.
Si alzò dalla “sua” panchina e se ne andò. Uscì dalla stazione, camminò per un po’ senza meta, in mezzo alla folla frettolosa, alle luci colorate, ai pacchi natalizi che quasi tutti avevano con sé. Non sapendo bene neppure lui come e perché, a un certo punto prese una decisione. L’incontro tra i due giovani aveva prodotto in lui un effetto diverso da quell’altro incontro, un po’ di tempo prima, che lo aveva in qualche modo legato al binario dodici, e lo aveva spinto a trascorrervi così tante ore, ogni giorno. Da quel momento non tornò più al binario dodici. Era stanco di veder partire i treni. Da domani voglio riprendere a vivere, si disse. Era davvero arrivato il tempo, il momento giusto. E dopo mesi e mesi di notti insonni, quella sera stranamente si coricò sereno. Nel sonno sorrideva tra sé. Gli occhi di Isabella brillavano nel buio, gli sembrò che lei fosse lì, e ricambiasse il suo sorriso.