Simona Genovese

Poesie


E’ questo,
l’odore lussureggiante della notte
il respiro silenzioso dei cipressi
le stelle mute che allargano l’orizzonte.
E’ questo che mi riporta a te.
Quale frammento di pelle
toccheranno ora le tue mani,
lasciando così vuote le mie?

Nulla, dopo di te.
Nulla, dopo i tuoi vortici
se non la malinconia.
Nulla, dopo i tuoi silenzi
se non l’ossessione.
Nulla, dopo lo strazio
se non l’attesa di tornare,
tornare un’altra volta da te

Non posso ancora guarire dai tuoi occhi,
non riesco ancora a staccarmeli di dosso.
E come Euridice ti seguo nell’Ade
ombra invisibile dei tuoi passi
eco lontana della tua voce
amarezza di me stessa

 


 

Onde

Il guardiano del faro si svegliò, come ogni mattina, col rumore del vento. Un sibilo più insistente e più fastidioso lo aveva tirato giù dal letto: si aspettava che un certo chiarore apparisse dalla finestra, ma intravide, con la coda dell’occhio, un’atmosfera nebbiosa, quasi plumbea, che si affacciava dal cielo. Si tirò su ed inforcò i suoi vecchi occhiali, lievemente appannati, per guardare meglio: era ancora addormentato, intontito dall’insonnia che non gli aveva lasciato tregua per tutta la notte.
Non appena capì, ed osservò le prime onde alzarsi, prepotenti, sulla scogliera, decise che non c’era tempo da perdere: si precipitò sul tavolo, cercando di afferrare i pochi fogli rimasti là sopra, ed agguantò la penna sospesa sul piano della finestra. Buttò d’impulso le prime righe, dirette in paese, per avvisare che di lì a poco si sarebbe scatenata la tempesta: nessuno doveva uscire, nessuno doveva avvicinarsi, neanche per sbaglio, a quella spiaggia protesa sull’oceano.
Poi, solo all’ultimo, quando il pensiero si affacciò nella sua testa, come un nero presentimento, ricordò che Anna, la sua Anna, doveva essere in viaggio….

Doveva raggiungerlo, finalmente. Era passato più di un anno, da quando lei, chiusa nella sua dimora sull’isola, aveva provato a fermare il tempo nel cuore di sua madre. Non aveva potuto. Niente più paure, niente esitazioni: niente, ora, le impediva di prendere i bagagli, col peso della tristezza, per provare a rimettere in sesto la sua vita. Poteva scendere i gradini del porto, imbarcarsi sulla prima nave di passaggio ed affrontare la lunga traversata oceanica per tornare da suo marito. Poteva, ma forse non voleva: da quando il cuore di sua madre aveva smesso di battere, qualcosa le aveva impedito di muoversi e di tornare da Diego. Era come se, dopo tutto, volesse crogiolarsi un po’ nel dolore, restare attaccata alla casa e ai suoi ricordi, recuperare i mesi in cui era stata via.

La spiaggia distava miglia e miglia dal paese, inerpicato sulla collina, ma presto i primi pescatori sarebbero usciti in barca. Diego doveva sbrigarsi per evitare che il vecchio Hector, fiutato l’odore della tempesta, si inoltrasse fino a riva, spinto dall’onda dell’eccitazione.
Era il pescatore più anziano del villaggio: tutti i giorni, anche in condizioni di avversità, solcava con il suo battello le acque della baia, guidato dall’inesauribile forza della fame. Aveva un caratteraccio, inasprito dagli anni trascorsi in mare, dove nessuno poteva contraddirlo o frenarlo. Le sue dita, solcate da rughe e pieghe profonde, si erano logorate a forza di arrotolare le lenze e tirar su migliaia e migliaia di prede. Tutta la sua vita, trascorsa in mare, si esauriva nel breve spazio della barca e degli attrezzi.
Diego si chiedeva se un semplice divieto scritto sarebbe bastato a scoraggiarlo, ma in fondo ne dubitava. Hector era un osso duro, e a sessant’anni difficilmente si sarebbe fatto mettere i piedi in testa da un ragazzino. La sua testardaggine lo aveva sempre infastidito: era come se il vecchio, terribilmente orgoglioso, gli lanciasse, di volta in volta, una nuova sfida. Intanto il vento aveva iniziato ad incalzare le onde con un moto circolare, e le poche barche rimaste attraccate alla riva, già spossate dalla corrente notturna, cominciarono ad oscillare vistosamente. Si incamminò per la strada, con passo deciso in direzione della stazione di posta, sforzandosi di imprimere un ritmo più veloce alla sua andatura. I pensieri si affollavano nella sua testa, mentre le gambe, toniche ma leggermente affannate, procedevano spedite. In lontananza il mulo, legato alla vecchia casa colonica, lo aspettava.

Dopo la morte della madre, il lavoro per Anna non era finito. C’erano state le veglie funebri, le visite, l’organizzazione del funerale. Ore ed ore passate accanto al feretro, accompagnata dalle litanie che, scandite a ripetizione nell’angolo buio del salone, rompevano il silenzio nelle sue orecchie. Aveva scritto a sua sorella, che da anni viveva in città, pregandola di venire. Ma Violetta, che era nata sette anni prima di lei, era impegnata nell’ennesimo concerto fuori dal continente e non sarebbe tornata indietro, col suo violoncello, prima di due mesi. Neppure suo marito poteva lasciare il faro, e del resto non valeva la pena affrontare la traversata fino a Madera per pochi giorni. I funerali si sarebbero tenuti lunedì mattina.

Il prete, un vecchio scontroso, pieno di rancore, avrebbe indossato la sua solita stola bianca, rifinita ai bordi da una sottile striscia di passamaneria, che correva senza fine dalla testa ai piedi. Della sua attività di pastore, gli anni avventurosi della gioventù e l’entusiasmo per la politica, era rimasto ben poco. Ormai vicino alla pensione, sempre accompagnato dalla sorella, una bisbetica signorina con un passato di insegnante, celebrava matrimoni e funerali con lo stesso acceso furore di un tempo, ma senza l’illusione di riuscire più a smuovere un singolo granello nella sabbia. In fondo, si sentiva circondato dalla più profonda indifferenza.
Quella mattina, quando indossò la stola, il suo pomo d’ adamo si bloccò, fermo nel ricordo in cui, cinquant’anni prima, la giovane madre di Anna, chiusa nella sua bottega, gli aveva pazientemente cucito quel nastro dorato, ora così consunto, con un sorriso ad accompagnare il rigore meticoloso della mano destra.

Diego non aveva certo il tempo di sedersi sul muricciolo, né di aspettare l’arrivo dell’impiegato: erano appena le sette, e probabilmente nessuno si sarebbe fatto vedere prima di un’ora. Continuava a stringere, con piglio nervoso, le due lettere racchiuse nella mano, e non si dava pace. La carta gialla, increspata tra le dita, sbatteva rumorosamente contro la sua tasca.
All’improvviso si riaffacciò, di nuovo, il pensiero di Anna, ed il timore che quel mare, con tutta la sua violenza, potesse davvero inghiottirla. Aveva tentato di distrarsi, spostare l’attenzione verso Hector, ma sapeva che, in fondo al suo animo, nient’altro lo preoccupava di più. Quella tempesta inaspettata rischiava di mandare all’aria tutti i suoi piani. Il vento, sempre più agitato, con un’aria di sottile minaccia, soffiava e pettinava la sua inquietudine.

Afferrato il mulo, lo slegò dalla casa colonica e si lanciò sul suo dorso senza esitazioni. Non ne aveva cavalcato mai uno, prima di allora, sempre chiuso nella solitudine del suo faro. Sentì le zampe muoversi a fatica sul terreno ghiaioso, calpestando la polvere che saliva ad intorpidirgli gli occhi. Con quel passo flemmatico, non sarebbe andato lontano. Doveva raggiungere la capitaneria di porto in città, costeggiando tutto il litorale, per riuscire a spedire la sua lettera. Dove diavolo era finito il postino?

Il giorno del funerale Anna aprì gli occhi all’alba, quasi terrorizzata: con stupore si rese conto che, da quel momento in poi, sarebbe rimasta completamente sola.
Si alzò, si vestì e mangiò gli avanzi che le avevano portato i vicini, colmi di premure. Era in attesa di udire il suono della campana, quando il prete bussò alla porta, cogliendola di sorpresa: di solito non si preoccupava di accompagnare il feretro in chiesa. Si mise subito in moto, affannandosi a procurargli un’insolita sistemazione tra la cucina ed il salone, ma era talmente stordita da sembrare, a tratti, persino inospitale. Più tardi in chiesa, durante la lunga cerimonia, ancora stupita dall’ affetto del pastore, Anna non riuscì a versare una sola lacrima.
Al termine del funerale, che le sembrò durare un battito di ciglia, aspettò che la folla uscisse dal portone, raccogliendo sulle sue braccia i pochi fiori rimasti, e si incamminò decisa verso il cimitero, con lo sguardo fiero e controllato di chi non vuole tradire un’emozione.

Non appena il postino si accorse che Diego era in sella al mulo, dall’alto del sentiero, capì che doveva essere successo qualcosa di grave. Non aveva mai visto il guardiano allontanarsi dal faro, né il suo padrino, Jacinto, fare altrettanto. Il mare in burrasca non prometteva nulla di buono e la giornata si annunciava impegnativa: non avrebbe avuto tregua nel recapitare lettere, per dipiù senza l’ausilio del mulo, che gli era stato soffiato sotto il naso. Ma in fondo, camminare su quei sentieri scoscesi non gli dispiaceva: poteva dimenticarsi della sua, di burrasca, che soffiava turbolenta dentro casa da qualche mese.

Dopo le scuole, avviata al mestiere di sarta dalla madre, Anna si era trasferita in città per lavorare in un negozio di cappelli. Era lì che aveva conosciuto Diego, giunto dall’altra parte dell’oceano con il suo padrino. Il lavoro le piaceva: poteva passare le ore dietro le quinte a cucire oppure posare con i cappelli per le clienti, un passatempo che le costava poca fatica e per cui veniva pagata profumatamente. Quando, qualche mese prima, aveva iniziato ad aiutare la madre in bottega, Anna aveva percepito con chiarezza che di lavoro, in paese, ne era rimasto ben poco.

Spinta dall’esempio di Violetta, aveva deciso di raggiungerla nell’appartamento di Grandola, per provare a trovare un impiego in città. Il negozio le era sembrato un regalo del cielo, e ne aveva subito scritto entusiasta alla madre, narrandole il breve cammino che la separava, ogni mattina, dal suo alloggio. D’inverno poteva fermarsi a comprare le castagne all’angolo della strada, per poi proseguire, a passo svelto, fino alla piazza principale, dove si meravigliava dinanzi al fumo della corriera mescolato al leggero vapore dell’aria. Infine si inoltrava sino ad un vicolo seminascosto dove, alla fine dell’angolo, comparivano i suoi cappelli.

Alla fine, Jacinto- il suo padrino- si era convinto a portarlo con sé. Per Diego era il primo viaggio in mare, dopo tutti quegli anni trascorsi a scrutarlo dall’alto della torre di guardia, quel posto riparato dal mondo dove era stato confinato, da bambino, tra le braccia di Jacinto. Il viaggio lo eccitava, al limite dell’euforia: il suo padrino doveva recarsi a Grandola per rifornirsi di carte geografiche e tornare alle Azzorre dopo un paio di giorni, per riprendere la sua attività di guardiano. Così, una mattina di febbraio si avviarono all’imbarco, dove li attendeva un imponente traghetto che sarebbe giunto a destinazione, a distanza di qualche giorno, sulle scogliere portoghesi.

Jacinto trascorse quasi dodici ore all’interno della buia tana di Ignacio, dove si rifornì di tutte le carte stampate nell’ultimo anno. Il suo mentore illustrava pazientemente, sotto lo sguardo attento del padrino, le sottili differenze che correvano tra le carte portoghesi e le novità spagnole, e Jacinto ascoltava, quasi incantato, osservando alla lente d’ingrandimento le minime variazioni tra l’una e l’altra. Diego aveva provato a mostrare interesse per tutti quei minuscoli segni sulla mappa, per le rotte delle navi e la rosa dei venti, ma era irresistibilmente attratto dalla città e non vedeva l’ora di tuffarsi tra quelle piazze e strade sconosciute, vedere un po’ il mondo da cui era stato escluso, a forza, da ventidue lunghi anni. L’idea di rimanere un giorno intero chiuso là dentro aumentava ancor di più il suo senso di oppressione. Jacinto se ne accorse solo dopo qualche ora, e lo lasciò libero di scorrazzare per la città fino al calar della sera.

Fu allora che, girovagando entusiasta di via in via, Diego si intrufolò, per caso, nel negozio di cappelli. Lo attirò dapprima la vetrina lucida, dove si riflettevano, vivaci, i cappelli piumati, quindi la figura di Anna, profilata in blu, che si muoveva concitata attorno allo specchio.
Quando Jacinto venne a riprenderlo, erano già trascorse un paio d’ore: Diego, che avrebbe dovuto visitare Grandola in lungo e in largo, non si era mosso dal negozio.
Era riuscito, prima dell’arrivo del padrino, a lasciarle un biglietto con il suo indirizzo, e ad ottenere, con molte preghiere, la promessa di scriversi, a breve, per tenersi in contatto. E sicuramente, non sapeva neanche lui bene come, era riuscito a far divampare, sulle guance di Anna, un inaspettato rossore. Jacinto non si bevve le sue scuse: dov’era andata a finire, tutta quella smania di passeggiare per la città? Perché mai aveva pensato di chiudersi dentro un’altra bottega, e di cappelli, per giunta?

Mentre Diego era ancora in sella, finalmente arrivò il portalettere. Lo vide spuntare dal sentiero che precipitava, con un’enorme curva, giù verso il mare. Era alto, allampanato, e poteva avere al massimo vent’anni. Si dava il cambio, da un paio di mesi, con un altro ragazzo del posto, per recapitare le lettere su in paese: non era un mestiere che li appassionasse, ma se n’erano fatti una ragione. Quando arrivò faccia a faccia con il guardiano, scosse con la mano i suoi riccioli biondi per scacciare via il vento ed allargò il saluto in un sorriso. Senza perdere un attimo, Diego gli mise in mano la prima lettera. «Hector» disse. Non ci fu bisogno di altre parole.

Il raglio del mulo, che continuava visibilmente ad arrancare come se fosse zoppo, lo riportò alla realtà. I ricordi lo avevano distratto, annebbiandogli la vista. Hector, grazie all’arrivo del portalettere, sembrava sistemato: ora doveva solo trovare il modo per raggiungere la guardia costiera, dall’altra parte del litorale. Mentre il mulo avanzava, con la consueta lentezza, Diego si torturava alla ricerca di una soluzione, che gli parve apparire al bivio del sentiero. La rivelazione, dietro la curva, dei binari della vecchia ferrovia, sembrò un improvviso regalo del destino: era dismessa, ma forse valeva la pena fare un tentativo.

“Orate pro defunctis”, scandivano le voci sommesse delle compaesane. Erano tutte in fila, una decina di vesti nere in rigoroso lutto, il volto contrito in una forzata espressione di dolore, che sfoderavano con insuperabile maestria ad ogni funerale. Chissà perché, pensò Anna, i vecchi ricordi le bussavano alla porta nel momento in cui la madre stava per scendere sotto terra. Le tornarono in mente i pomeriggi trascorsi con Violetta, dinanzi alle tazze di tè fumante, ed il sorriso delle clienti, quando trovavano il cappello giusto, persino il lume che una sera si era spento, lasciandola sola al buio, dentro il negozio. Le venne da ridere, a pensare come se l’era cavata.

Sui binari della ferrovia, abbandonati da decenni, i rottami si affastellavano in un caos fuorviante. Il vagone dell’unico treno superstite era fermo all’imbocco di una galleria, in apparente stato di immobilità. Diego si avvicinò alla cabina, giù in fondo alla strada, per vedere se qualcuno era rimasto a sorvegliare la stazione, e finì per imbattersi nel tranviere. Raul, in evidente stato di ebbrezza, giaceva riverso sul pavimento, con un cappello penzolante sulla testa ed i pantaloni slacciati, in mezzo all’ odore stantio della stanza. Il guardiano, veloce come un fulmine, gli diede una scossa per scuoterlo dal torpore, ed uno schiaffo si abbatté violento sulla sua faccia, costringendolo a spalancare gli occhi semichiusi e a riprendere coscienza.

Hector si era svegliato presto. Come tutte le mattine, aveva preso l’attrezzatura ed era sceso in spiaggia, portando con sé tutto il necessario. Dalla costa vide con sorpresa che la sua barca, sospinta al largo dalle onde, si stava staccando sempre più dalla riva.
Era quasi un pezzo d’antiquariato, ormai: l’aveva noleggiata vent’anni fa, dal suo vicino di casa, e l’aveva aiutato a sopravvivere a tutte le intemperie. Velocizzò il suo passo, e grazie ad una fune, si aggrappò all’imbarcazione, tirando forte per avvicinarla alla riva. La vernice della barca, quell’azzurro stinto venato di strisce rosse, si stava staccando erodendo il legno. Hector controllò che non vi fossero guasti, e iniziò a sistemare le travi, portate a fatica sulle spalle per tutto il tragitto. Il suo martello arrugginito, che continuava a scivolargli dalle mani incrostate di sale, le inchiodò al fondo, con un rumore secco e deciso, per assicurarsi una maggiore stabilità. Solo a lavoro finito, Hector si voltò a guardare il faro, e scoprì con stupore che del guardiano non sembrava esserci traccia.

Dopo la sepoltura, Anna era tornata mestamente a casa. Aveva attraversato, con calma, le strade che separavano il cimitero dalla sua abitazione, sentendo il rumore dei passi scandire il ritmo del suo cuore. Ogni battito, un passo: non aveva fretta, ora. Un paio di giorni le sarebbero bastati a sistemare i bagagli e ad organizzare la partenza.
Decise di fermarsi in un caffè per gustare uno spuntino e, una volta entrata, si mise ad osservare dall’angolo opposto, una fila di suore incappucciate di bianco, che attraversava la sala fino al bancone. Anna si andò a sedere dietro un paravento giapponese, come se si volesse nascondere dagli occhi indagatori delle nuove arrivate: in fondo, lei voleva solo bersi un caffè in santa pace. Le portarono un tovagliolo azzurro, che ripiegò sulle gambe, ed una scatola di biscotti, appena usciti dal forno. Dall’altra parte del paravento una bambina, occhi color nocciola, cominciò a scrutarla con attenzione. Poteva avere meno di sette anni, e la sua testa, obliqua sull’anta, ciondolava sul legno con uno sguardo ammaliante. Anna addentò un pezzo di biscotto, e sentì la sua fragranza esploderle in bocca.

Passò meno di mezz’ora, e Diego si ritrovò catapultato sul vagone. La carrozza, guidata da Raul con mano traballante, sbandava a più non posso, dando l’impressione di poter precipitare, da un momento all’altro, dentro un burrone. Lo stridio delle ruote sui binari, quel rumore metallico a cui l’orecchio lentamente si abitua, continuava a ripetersi strada facendo, generando attrito sul terreno, sino a provocare impercettibili scintille dorate. Nel panico più assoluto, Diego si chiedeva se le oscillazioni fossero dovute alle pessime condizioni della ferrovia, o al più temibile stato d’ebbrezza del tranviere. Tuttavia, si rendeva conto di averlo trascinato in un bel pasticcio: nessuno si avventurava da tempo sui binari, e Raul doveva assolutamente evitare che qualcuno vi transitasse.
Lo guardò, e capì che era talmente sbronzo da non accorgersi di nulla. Se solo glielo avesse chiesto, si sarebbe buttato lui stesso, volontariamente, giù dal precipizio.

Il postino aveva contato, passo dopo passo, le miglia che formavano il percorso sino alla casa di Hector. Teneva in mano il pezzo di carta del guardiano, che certamente sarebbe servito a poco: l’unico modo per scoraggiare il vecchio ad uscire, era prenderlo di petto e costringerlo a desistere.
Attraversato il sentiero, si accorse immediatamente che la collina sembrava deserta: urlò a perdifiato il nome del pescatore, e sentì il timbro della sua voce ripercuotersi inutilmente tra le pareti delle stanze, sino a quando l’eco non gli rimbalzò addosso con violenza, senza alcuna risposta. Si voltò di spalle, guardando il mare che, là dietro, continuava ad agitarsi. Sospirò: stavolta gli toccava correre verso la spiaggia.

Mentre sorseggiava il suo caffè, Anna continuava a sentirsi gli occhi addosso. Il chiacchiericcio delle suore, sedute a pochi metri da lei, risuonava vivace nelle sue orecchie, scacciando il pensiero della madre. L’odore del caffè, che era riuscito a scuoterla dal dolore, si impregnava veloce nelle sue vesti, accompagnato da un ticchettio di passi che la faceva sobbalzare, a tratti, risuonando all’interno della sala. La bambina si agitava dietro il paravento, e a volte si sporgeva per curiosare, lo sguardo fisso sulla scatola di biscotti che invadeva il piano del tavolo. Alla fine si avvicinò, quasi a tentoni, con l’aria distratta di chi passa per caso: aveva un vestitino corto color crema, allacciato in vita da un nastro verde spento, e indossava ai piedi un paio di scarpe vecchie, troppo larghe, che ne accentuavano il passo ciondolante.

Sulla barca, la visibilità era scarsa. Dalla prua, dove si era sistemato a scrutare l’orizzonte, si scorgeva poco o nulla. Il vento gli incuteva un leggero stato d’agitazione: non accennava a calmarsi, e tirava l’imbarcazione impedendogli di fare manovra e virare verso il largo, dove l’acqua sembrava più calma. Il fragore delle onde, che continuavano a sbattere sulla barca, sospinte dalla furia della corrente, copriva il martellio tremolante del motore, che pareva sul punto di incepparsi. Quando anche le travi cominciarono a sobbalzare sotto il peso dell’acqua, Hector dovette considerare a malincuore l’idea di tornare indietro. L’assenza del guardiano, che in un primo momento lo aveva sollevato, gli suscitò un filo di inquietudine.

Senza rendersene conto, Diego era arrivato in città. Era sopravvissuto agli scossoni del viaggio, e aveva salutato Raul con una pacca sulle spalle, pregandolo di aspettare per il ritardo. In pochi minuti raggiunse il capannone abbandonato che ospitava la cabina della guardia costiera, dove poteva finalmente imbucare la lettera per Anna. Bussò una, due, tre volte. Niente. Decise di avventurarsi fino al molo, dove la nave era già attraccata, per provare a rivolgersi all’equipaggio. Sulla balaustra, un uomo sulla trentina, dagli insospettabili capelli bianchi, sventolava con energia una bandiera, in attesa del suono della sirena. Il guardiano, che lo aveva adocchiato da lontano, si sporse in avanti con tutto il peso del suo corpo, agitando le braccia per attirare l’attenzione su di sé. Possibile che nessuno gli desse ascolto? Nello stesso istante in cui l’uomo, con un rumore secco, lasciava cadere a terra la bandiera, Diego vide la sua lettera prendere improvvisamente il volo e roteare leggera nel cielo, perdendosi dentro una soffice spirale d’aria.

La bambina si accomodò accanto a lei. Alzò la testa, e senza preamboli le chiese come si chiamava. “Anna. E tu?”. “Non lo so. Posso prendere il cappello?”. Anna afferrò il suo copricapo, che aveva abbandonato sulla panca di fronte, per sistemarlo sui riccioli di lei. Abbassò la veletta trasparente, e le pizzicò la guancia col dito, aspettando che il caffè si raffreddasse. Le suore, distratte dalla colazione, si accorgevano a mala pena della loro presenza. All’improvviso la bambina si alzò, ed iniziò a correre tra le ante del paravento, costringendo Anna ad inseguirla, uno sportello dopo l’altro. Si divertiva a sollevare ed abbassare la veletta, solleticandole la nuca sotto i capelli ondulati, in un giro vorticoso di risa soffocate. Lei si sottraeva, ma poi ricadeva divertita tra le sue braccia e la fissava dritto negli occhi, con le lunghe ciglia che si agitavano senza sosta. “Vieni con me?”

Lentamente, l’acqua iniziò ad invadere la barca. All’inizio era solo una piccola pozza, e riuscì presto a sbarazzarsene. Si domandava perché mai avesse deciso di uscire in avanscoperta proprio quella mattina, una mattina come tutte le altre, certo, ma decisamente più piovosa. Amava il rischio, sì, ma a volte, quando si ritrovava da solo in mezzo al mare, si chiedeva il senso di tutto ciò, e a quel punto era difficile riuscire a non odiare se stesso. Il vento continuava a scompigliargli la barba, infilandosi tra i pori, e dandogli l’aspetto di una nuvola arruffata. Tornò a concentrarsi sulle travi, corrose dalla lingua del mare, che ormai erano sul punto di cedere: tentò di fissarle nuovamente con il martello, chiodo dopo chiodo, mentre l’acqua, alle sue spalle, si depositava sul fondo, rendendo l’imbarcazione più pesante.

Diego si buttò per terra, sconsolato. Tutta la sua corsa, dal mulo sino al vagone, dove aveva raccattato Raul a forza, si era rivelata inutile. La nave, che fino a qualche minuto prima sostava nel porto, era partita trascinando con sé il proprio rumore sordo. In più lui, dopo quel viaggio estenuante, non era riuscito a trattenere la lettera, volata via nel più stupido ed assurdo dei modi, lasciandogli addosso un’impareggiabile frustrazione. Il suo ultimo tentativo, il desiderio di riuscire a scongiurare la partenza di Anna, sembrava miseramente fallito.
Raul, che si era appena ripreso, seppur a fatica, dall’ennesima sbornia, aveva accettato di riaccompagnarlo indietro sullo stesso vagone. Imperturbabile, Diego non si lasciava più sconvolgere dal sobbalzare del treno ed il viaggio, alquanto laconico, lo ricondusse velocemente alla stazione di partenza. Chiuso nel suo muto silenzio, il guardiano sentiva ora il peso dell’attesa, ma nonostante tutto sperava ancora nel lieto fine.

In prossimità della baia, il portalettere vide che l’imbarcazione di Hector era alla deriva, e che stava sbandando senza controllo, completamente in balia delle onde. Il pescatore era sparito, senza lasciare traccia di sé. Si guardò attorno e, senza pensarci troppo, montò d’impulso su un battello abbandonato, servendosi dei suoi vecchi remi per raggiungere il largo. Remare era tremendamente difficile, e il vento, che gli soffiava contro, contribuiva ad accrescere la sua fatica, sbattendogli in faccia acqua, sale, salsedine e costringendolo ad avanzare quasi ad occhi chiusi. Avrebbe potuto aspettare e chiamare i soccorsi, ma sapeva che non sarebbe servito a molto, e che Hector stava ormai rischiando di annegare.

Non sapeva che cosa le fosse successo: d’un tratto aveva deciso che non sarebbe riuscita a separarsene, e l’aveva trascinata a forza nel retrobottega. Con le dita congiunte, l’una nell’altra, avevano aperto insieme l’ombrello blu scuro, ma poi se n’erano liberate, lasciandosi bagnare dal ritmo ininterrotto della pioggia. Le suore, che venivano dalla città, non avrebbero tardato ad accorgersi della loro scomparsa, ma non potevano sapere dove abitasse Anna ed avrebbero impiegato parecchio tempo a fare le loro ricerche. La piccola non si era fatta troppe domande, e con docilità si era affidata alla sua mano, improvvisamente sicura, scevra da ogni timore.

Approdato in stazione, Diego ringraziò Raul e risalì in sella al mulo, che era rimasto legato al suo posto, seppur scalpitante per la fame. In poche miglia, accompagnato dal ritmo delle zampe che battevano sulla ghiaia, giunse nuovamente nei pressi del faro, scorgendone da lontano il profilo celeste che svettava alto sulla scogliera. Accostandosi al litorale, sentì che il vento si era calmato e aveva lasciato il posto ad una brezza leggera, più piacevole, quasi primaverile.
Si appostò dietro la curva della baia e, strizzando gli occhi, vide la figura di un ragazzo biondo, in cui riconobbe il postino, chino sul corpo di un uomo, riverso supino sulla sabbia. Il portalettere, quasi a cavalcioni sul busto, tentava di comprimergli il torace, con un movimento tanto impetuoso quanto affannato, che sembrava lo stesse completamente sfiancando.

La pioggia batteva forte sui marciapiedi: un gran tempaccio si era scatenato sull’isola. Anna la guardava scendere giù dalla finestra, e rigare i vetri con un fruscio impercettibile.
Era il giorno della partenza. Aveva scritto nuovamente a Violetta, e recapitato a Diego un telegramma con l’annuncio del suo arrivo. Il transatlantico, ancorato al molo di Madera, sarebbe partito la mattina seguente, per giungere dall’altra parte dell’Atlantico dopo due giorni. L’idea del viaggio, accompagnato dal maltempo, non la entusiasmava affatto. Aveva sempre odiato il mare, lei, sin da bambina: era cresciuta sull’isola, sì, ma aveva il terrore dell’acqua. I suoi bagagli l’aspettavano in corridoio: una scatola piena di cappelli, naturalmente, e qualche scialle per proteggersi dal vento, che sulla torre del faro non cessava mai di battere. Aveva preso qualcosa per riparare la bimba dal freddo, e si era decisa a partire nel cuore della notte, per dare meno nell’occhio. Avrebbero dovuto aspettare ore ed ore nei pressi del porto, ma era meglio non rischiare.

Quel corpo muscoloso, virulento, giaceva immobile sulla sabbia. Aveva combattuto sino all’ultimo, si vedeva, come se non volesse davvero lasciare questa terra, ma i suoi polmoni si erano riempiti di acqua, e gli sforzi erano serviti a ben poco. Il ragazzo era crollato, e sembrava ormai inconsolabile. Diego, dopo aver riconosciuto Hector, si fermò, restando immobile per qualche secondo.
Chiuse gli occhi, e sentì il suo respiro farsi pesante. Il rumore del mare, quei flutti che si infrangevano violenti sul bagnasciuga….si rivide bambino, su quella stessa spiaggia, con lo stesso rumore del vento. Il suo padrino Jacinto, che conosceva a stento, lo aveva preso per mano, e lo aveva allontanato dal padre che, impassibile, continuava a racimolare il suo bottino con le reti. Da allora, i suoi contatti con Hector si erano progressivamente diradati, e Jacinto si era calato a tutti gli effetti nella parte: lo aveva tirato su, fino a quando Diego non era diventato abbastanza esperto da prenderne il posto al faro. Riaprì gli occhi, e capì che quel che restava di suo padre se n’era andato via per sempre.

Anna e la piccola erano arrivate al porto. La donna era in ritardo di un giorno sulla sua tabella di marcia e, a meno di un’ora dalla partenza, sentì l’ansia salirgli alla bocca dello stomaco. Abbandonò i suoi bagagli nelle mani di una sconosciuta, e si avventurò in città, per chiedere un pezzo di carta e qualche giornale. Il senso di colpa, che per tutta la notte non si era fatto vivo, cominciò ad attanagliarla. Raccolse quel che le serviva, si procurò un paio di forbici ed attaccò le lettere, ritagliate ad una ad una dal giornale, su un foglio bianco, scrivendo l’indirizzo del convento, che conosceva a memoria, in cima alla busta. Guardandosi attorno con finta noncuranza, con la bambina ancora attaccata alla sua mano, infilò l’involucro sotto il portone della stazione di posta, e si riallontanò a passi veloci.
Per quanto si sentisse ignobile e cercasse di mettersi il cuore in pace, al riparo dai futuri rimorsi, non riusciva a pentirsi fino in fondo. La bambina le saltellava accanto, felice, senza un’ombra nel volto. La sua vita, che dentro quel caffè le era sembrata così banale, ordinaria, a tratti persino disperata, ora sembrava aver trovato una parvenza di splendore.