Simone Beretta - Poesie

La caduta di Salza’har

 

L’attesa stava logorando Salza’har giorno dopo giorno. Pietra dopo pietra. Con il suo consunto mantello si trascinava per le viottole solitarie della roccaforte e al suo passaggio nuove crepe ricoprivano i muri come ragnatele. Nuove rughe solcavano le maschere estenuate dei saggi anziani, rintanati come ratti nelle loro buie dimore. Si respirava un’atmosfera densa di trepidazione, una febbrile malattia raccontata dal velo di silenzio che si stendeva aderente sui tetti delle case, sul mercato spoglio, sui brulli campi abbandonati, fin dentro le bocche affamate e asciutte degli abitanti. Il ponte di Godwyn imperava mansueto al di fuori del portone principale, come da anni a quella parte, ma da settimane il copioso rivo di commercianti che era solito calcarlo e inondare la città per la fiera autunnale si era prosciugato. Non per le fitte piogge, le quali scoraggiavano solo una misera porzione degli affaristi assetati, bensì per la minaccia dormiente che sonnecchiava all’ombra delle maestose mura, sul lato occidentale. I bambini avevano smesso di trottolare nei cortili, le donne di prestare generoso servizio all’ospitale. Le botti della famosa birra dorata di Salza’har invecchiavano stipate nelle locande spopolate, in attesa di tempi più propizi. Di tanto in tanto qualche ricciolo di vento carezzava il terreno spettinando i fili d’erba che spuntavano isolati fra le pietre del selciato, resistenti all’incedere del freddo tardivo.

Chiunque, persino il più attento osservatore, avrebbe potuto, alla vista della roccaforte rannicchiata fra i suoi quattro torreggianti baluardi, ingannarsi credendo di star mirando un quadro figlio d’una abile mano, tant’era marcata l’immobilità che tracciava le linee del paesaggio, nello spazio e nel tempo. Solo i cupi ghirigori di fumo che spumeggiavano costanti sopra le case dei nobili parevano lasciar trapelare una velata e stonata vitalità, nel modo in cui si intrecciavano movimentando l’orizzonte spento.

Quel giorno nuvole aspre e scure lambivano l’estremità delle torri di osservazione che vegliavano pazientemente sulla cittadella, lasciando comunque sufficiente libertà alla vista, la quale poteva librarsi fino al nemico e rabbrividire per il brulicare delle migliaia di formiche armate intensamente indaffarate a spostare, costruire, affilare, pregare. Sembravano calpestarsi l’un l’altra tant’erano numerose. Per una settimana circa, pareva ricordare Francis, fra le tende dello schieramento lontano aveva viguto una quiete sacrale. Ma qualcosa si era spezzato, tanto fragorosamente da instillare nello spirito del ragazzo che assisteva alla scena un profondo ed oscuro timore. I soldati erano tornati a calpestare l’erba marcia con foga apparente, non appena i primi tiepidi fendenti di luce mattutina si erano scagliati sulla distesa desolata. Nulla rivelava nemmeno il più insignificante tentativo di celare le operazioni di organizzazione, le quali procedevano a ritmo impetuoso mentre si innalzavano i primi fieri stendardi. Come Francis paventava, si preparavano all’assalto, non c’era altra spiegazione a portata di ragione.

Al cospetto di questa distruttiva certezza sentì le labbra prosciugarsi, le ginocchia possenti si fecero steli e ondularono in armonia con gli sparuti fiori superstiti che coloravano vivacemente la tela ombreggiata della pianura sottostante. Iniziò a comminare nervosamente in un senso e nell’altro in cima alle mura, senza mai distogliere lo sguardo dalla chiazza d’inchiostro nero che si addensava a poche centinaia di metri. Francis si sentì scrutato a sua volta, come se laggiù, tutte quelle figure microscopiche lo stessero osservando torvamente, aggrappate alle loro lance e agli ordini che vibravano urlati nell’aria giungendo a lui in flebili sussurri. Mentre i suoi passi muovevano incerti, ragionò sul da farsi. Sotto la cotta di maglia i muscoli si contraevano caoticamente, fibrillanti, e così il pensiero, che non fluiva con scorrevolezza. Destabilizzato da un remoto turbamento impiegò una manciata di minuti per decidere che avrebbe prontamente aggiornato l’emissario del re sulla situazione.

Si fiondò con decisione ad imboccare l’infinita scalinata elicoidale che, incavata all’interno della Torre di Kairòs, lo avrebbe condotto direttamente al cospetto di Edmund Biancomanto. Non appena si fu lasciato alle spalle l’ultimo spigoloso gradino, percorse il corridoio che alla sua destra si distendeva fino all’arco monumentale in cui era adagiata la massiccia porta in assi di quercia, su cardini d’oro. Una tenue luce rossastra filtrava dalle altissime finestre adiacenti al cortile principale. Si arrestò, protendendosi in un inutile tentativo di sgomberare dalla sua espressione i segni evidenti della concitazione. Un respiro a pieni polmoni prese corpo per poi infrangersi sui fini intarsi decorativi raffiguranti Kairòs in tenuta da battaglia. Francis si calmò parzialmente, riacquistò parte del contegno che gli era sfuggito; quantomeno a uno sguardo disattento. Solo in quel punto afferrò i battenti con tanto vigore da rendere le nocche livide e bussò. Nel mentre, con la mente appannata, si sforzò di disegnare un discorso che avrebbe reso onore alla sua posizione sociale e mascherato le sue profonde radici contadine.

Benché nel corridoio imperasse un silenzio vitreo, Francis non udì il ticchettio di passi che lo raggiunse balenante alle spalle, fino a sfiorargli le spalle. Non ebbe il tempo di voltarsi, due braccia affusolate gli cinsero con amorevole delicatezza il collo e un rovente schiocco di labbra gli inumidì la nuca.

-Eccoti finalmente-

-Cosa fai qui? Non dovresti essere con i bambini?- rispose Francis riconoscendo la voce mielosa di Ellen, con un pizzico di ingiustificata intransigenza.

-Sono con Marie, non ti preoccupare. Avevo solo voglia di vederti- disse Ellen passando le mani vellutate sulla sua mandibola tesa. Non appena le labbra di Francis si animarono, il giovane dito di Ellen si posò su di esse, a placarne il moto nervoso.

-Non dire niente. Sai, a volte in tutto questo trambusto ho solo paura che tu ti dimentichi di noi, della nostra promessa. Quando tutto questo sarà finito…-

Lo stridulo cigolio che invase l’attenzione di entrambi invitò Ellen a nascondersi dietro uno degli imponenti arazzi porpora che, dal lato opposto dei finestroni ogivali, pendevano dal soffitto in un elegante drappeggio recante lo stemma reale. Rimasero così, incompiute, fluttuanti come granelli di polvere le sue parole. Senza risposta. Certamente avrebbe voluto spiegarsi Francis, raccontare cosa aveva visto, cosa provava. Sputare la paura che come una tenaglia gli stritolava le viscere, liberarsi degli infiniti aghi che si tuffavano in formicolii agli arti. Invero viveva in quei minuti in una bolla d’irrequietezza in cui il tempo scorreva e si contorceva in insensati saliscendi, che strappavano ora all’amore il tempo che meritava.

I due grevi battenti dischiusero alla vista di Francis uno spicchio della scena che lo aspettava varcata la soglia ed egli ripromise a se stesso che sarebbe tornato da Ellen non appena avesse potuto. E si sarebbero scambiati la pelle e sfiorati con l’ardente gagliardia che infuocava il loro sentimento.

-Entrate, prego, sir Francis, vi aspettavo- proruppe Edmund Biancomanto.

Accompagnato dal tintinnio del metallo che lo vestiva, Francis entrò.

La nobile figura del cavaliere imperava al centro dello stanzone ottagonale. La sua nivea e prosperosa barba illuminava la penombra e lo stesso effetto avevano gli ormai radi capelli lampeggianti sul tessuto vermiglio del trono, arricchito dalle note eccelse finiture in bronzo di Salazar lungo tutti i profili. La schiena possente di Edmund poggiava su uno schienale dalla forma fumosa, bizzarra, vertiginosamente alto. Il tutto non sminuiva l’aura di fermezza assoluta che emanava l’uomo; non il badiale trono, non i vivaci candelieri che sulla sua pelle adombrata dipingevano figure frizzanti.

-Sire, si preparano, ci attaccano-

Le parole sgorgarono in un farfuglio dalla bocca arida di Francis, ma nondimeno dai suoi occhi sbarrati, dalle mani innaturalmente contratte, dalla maschera di terrore che ora inconsciamente rappresentava. In un fiato spazzò via gli abbozzi di frasi architettate per maneggiare maldestramente una dignità che non possedeva e scagliò con il vigore intenso dei suoi nervi tesi la nuova tagliente verità a chi sperava avrebbe potuto gestirla; e impugnare saldamente le redini sfuggenti del destino di Salza’har e del suo popolo.

-Non serve che mi chiami così, non sono io il tuo re- mormorò Edmund Biancomanto.

-Non è certo questa la questione importante, se permettete- rispose Francis pacato.

L’incontro inaspettato con Ellen aveva provocato in lui un tumulto di emozioni. Deglutendo tentò di reprimerle per rimanere lucido e per un motivo che non afferrava sentì affiorare un torbido senso di colpa. Sebbene scosso fin nelle fondamenta dai rullanti avvenimenti in cui era naufragato, seguitò a spiegarsi:

-Ne sono certo sire, ero di vedetta sulle mura occidentali. L’assalto inizierà fra due ore penso, tre se siamo fortunati, stanno preparando i trabucchi e…-

-Quale assalto?-

Francis, che nel frattempo aveva scoperto la sua setosa chioma castana e reggeva l’elmo fra l’anca destra e l’avambraccio, rimase interdetto da quelle parole.

-Le truppe di Ralph presto ci attaccheranno, si preparavano alla battaglia- ripeté.

-Battaglia? Credi davvero che dovremo combattere?- domandò Edmund.

Sulle braccia poderose di Francis affiorò con violenza un labirinto di vene, i denti si serrarono in uno scatto per l’incomprensibile e sfacciato atteggiamento neghittoso del suo interlocutore. Si chiese il motivo di tanta ostentata oscitanza, invano. Perché non lo ascoltava? Nel contempo un senso di rabbia gli lacerò il petto, come un fulmine gli divelse le costole per defluire viscoso sul lubrico pavimento, in serpentine sanguigne. Gli parve dopo quel breve scambio di battute di annaspare in un incubo, che con fervore gli impedisse di svolgere il suo compito, di risparmiare il sangue della sua gente. Un incubo incarnato nella sola persona che aveva lo sconfinato potere di decidere univocamente per un intero popolo.

-Certamente sire, come vi dico, se permettete andrei a dare l’ordine agli arcieri di schierarsi sulle mura-

Più che mai deciso a rompere la sterilità surreale in cui la situazione si era cristallizzata, Francis si produsse in un inchino abbozzato e voltò le spalle a Edmund, preceduto dalla volontà di agire con precisione e dirigere con accuratezza le operazioni di difesa.

Era conscio del fatto che una tale mancanza di rispetto avrebbe potuto demolire completamente la sua reputazione, ma le ripercussioni avrebbero avuto corso solo al compimento della salvezza di Salza’har. Se e solo se Salza’har fosse stata salva. Francis non vedeva dunque motivazione per esitare un istante di più mentre i cittadini tutti imploravano aiuto in coro. Ammutoliti nei loro bugigattoli, stavano marcendo lentamente, nell’attesa che li raggiungessero le ali angeliche della libertà o gli artigli affilati della morte. In attesa che il cangiante destino si concedesse loro, sotto qualsiasi forma che non fosse quella che da mesi li prosciugava.

Edmund osservò immobile il cavaliere dirigersi verso l’uscita. Francis, ormai in procinto di sparire dalla sua vista, tremava nascosto nella sua armatura, ma era salda in lui la certezza di agire per il migliore dei fini. Oltrepassò il portone, che si richiuse con il solito magico scricchiolio. Ellen guizzò fuori dal suo nascondiglio con ammalianti movenze sinuose che fecero danzare i capelli neri. Avidamente frugò fra i lineamenti di Francis provando a intendere le sue impressioni, le sue intenzioni. Aveva sentito tutto. Si strinse a lui con l’urgenza della compassione, forte, quasi volesse penetrargli nella pelle. E trovò quello che cercava. Francis la sollevò, lasciò cadere l’elmo, stritolandola in un abbraccio di dolce dolore. Il suo volto ora era sgombero da ogni timore, dalle ombre della peritanza che si intravedevano non appena aveva varcato la soglia per uscire dalla Sala del Trono. Solo un baluginio tenace illuminava le sue giovani iridi verdognole.

-Sarò io- sussurrò all’orecchio di Ellen -Se nessuno, o chi dovrebbe non è in grado di svolgere il suo dovere, allora sarò io a svolgerlo per lui-

Infuocata da quelle parole, Ellen lo baciò sul collo con la delicatezza che le apparteneva, arricciando la pelle di Francis di roventi brividi. E appiattì ancor di più contro la sua armatura le curve generose. Con le gambe snelle gli avvolse agilmente la vita. E per un attimo il tempo s’arrestò, nel suo folle gioco di irrazionali torsioni. Si fermò a osservarli.

-E ce ne andremo- continuò Francis con un filo di voce- ce ne andremo ad ovest, come ti ho promesso. Noi e i bambini. Nessun’altro, lasceremo indietro tutto questo-

Ellen non rispose, non ce n’era bisogno. Credeva che a volte bastasse solo permettere alle parole di posarsi sul fondo del cuore, e fermentare. Che a volte il silenzio fosse la migliore risposta; ed era, quello che seguì, un silenzio carico di passione, di agitati sentimenti.

Così, su un tappeto di silenzio mossero leggiadri i loro passi. Tenevano le dita avvinghiate, e anche i cuori. Prima di spingersi oltre il portoncino che si affacciava sulla via principale, Francis si ricoprì il volto, dopo aver raccolto l’elmo dal suolo. Con rocciosa decisione sperò che potesse essere l’ultima volta; che più, dopo quel giorno, avrebbe dovuto limitare la luce delle meraviglie che lo circondavano a due strette aperture in una maschera. Assorto in queste inverosimili fantasticherie, uscì all’aperto.

La Via Maestra, sulla quale sbucarono, era in selciato e dalla Sala del Trono, in cima a una collina smussata, digradava dolcemente verso il portone principale, senza ostacoli alla vista. Ai suoi lati si affollavano le vie minori e le abitazioni squadrate si raccoglievano a grappoli sui loro cigli; più vicini ad essi le case dei contadini, più lontane quelle di nobili e borghesi, che non necessitavano accesso diretto per carri e bestiame ai loro cortili. Peraltro, ben volentieri la mondanità fuggiva dal chiasso da cui le strade erano inondate, quantomeno qualche mese addietro. Da quel punto erano visibili nella loro interezza le mura giganteggianti, snodate tutt’intorno come un monile al collo dell’altura.

Non appena il sole ferì gli occhi di Francis con i suoi abbaglianti dardi, un disumano urlo di puro terrore riempì la sua sfera sensitiva. Era Ellen, ma bastò un attimo perché il panico attecchisse anche su di lui. La scena che si stagliava insormontabile di fronte a loro non era contemplata nemmeno dai più cupi presagi. Le mani della donna sbriciolarono le falangi di Francis, l’eco del suo grido gli perforò il cranio. Lungo tutta la Via scorribandavano ululanti i cavalieri di Ralph, i fanti si accalcavano all’entrata della roccaforte, il portone era inspiegabilmente spalancato. Quasi fossero belve fameliche, a cui una preda è stata promessa, sgomitavano e si calpestavano. Si muovevano alla rinfusa, con gli occhi sbarrati e le fauci disumanamente spalancate ad alimentare un clamore ferale. Un fiume di morte di riversava sulla Via Maestra traboccando in tutti i viottoli laterali. In colonne di fumo denso mutava il vivo fuoco dei numerosi incendi appiccati. I tetti di paglia ardevano, divorati dalle fiamme le cui esalazioni si mischiavano al miasma del sangue che già ribolliva in rigagnoli fra le selci e nel fango smosso dagli zoccoli. Francis, statuario non poteva che osservare il macabro spettacolo impotente, senza reagire né comprendere; ma più ardita fu Ellen. Infatti, mentre l’animo scioccato di Francis, demolito nelle fondamenta, sprofondava nella desolazione insieme a ciò che in anni di sacrifici avevano costruito, ella stringeva già le redini del baio con cui era giunta fin lì. La mente di Francis era invasa di domande. Qualcuno doveva aver tradito Salza’har, l’esercito aveva avuto accesso alla roccaforte in una manciata di minuti. Qualcuno doveva aver evitato loro uno scomodo assedio.

-Andiamo Francis, andiamo!-

-Non possiamo lasciarli qui- urlò a se stesso.

-Guarda, la nostra casa sta già bruciando! Scappiamo ora, prima che ci vedano! Non c’è più nulla che possiamo fare-

A un palmo uno dall’altra, gridavano, sbraitavano per sovrastare il clangore delle trombe funeste e dei corni che accompagnavano gli schianti delle spade, i tonfi sordi sulle inermi figure dei cittadini. Per zittire il crepitare dei loro cuori, che ardevano anch’essi con le case. Il saettare delle armi si faceva via via più vicino, i soldati stavano sbranando la salita al ritmo macabro dettato dai fiati, a cui si miscugliava il tonfo di cadaveri disarmati. Non si limitavano a colpire i soldati, frugavano nelle viscere con la lama, a cercare la vita e strapparla senza ritegno.

-Sali Francis! Sali!-

Con un balzo Ellen si era portata in sella al cavallo e tese la mano a Francis. Le sue braccia giacevano però immote lungo i fianchi e lo sguardo spento rimase invischiato nell’inferno a lui dinanzi. Ellen si aggrappò alla sua testa, fino a strappargli l’elmo e poi ai capelli rossicci, torcendogli il capo in modo che fosse obbligato ad ascoltarla. I suoi zigomi alti erano straziati da fiumi di lacrime e le sue labbra di pastello deformate dalle implorazioni disperate. Li aveva raggiunti il fumo, impastava ora i suoi capelli e strozzava la sua voce in un rantolo. Ma le lacrime no, quelle non erano causate dalle esalazioni.

-Ascoltami Francis, ti prego!- gridò in un ultimo impeto, la voce spezzata da un pianto dirompente.

Sebbene senza destarsi dallo stato di trance che si leggeva sulla sua espressione esanime, Francis montò sul cavallo.

Ci volle poco per raggiungere il passaggio sotterraneo per le campagne. Furono fuori in pochi minuti. Fuori da Salza’har. Fuori dalle loro vite, andate in frantumi. Salza’har aveva temprato le loro menti, i loro corpi acerbi. Li aveva allattati quando avevano fame e cullati quando il sonno non sopraggiungeva.

Durante tutta la fuga, Francis rimase accasciato sulla schiena di Ellen, più vicino alla morte di quanto fosse mai stato in mille battaglie. E quando voltandosi vide, alle spalle delle mura, l’esercito di Ralph inginocchiarsi al cospetto di Edmund Biancomanto, non sorse in lui alcun odio, alcun senso di rabbia. Sorse solo un improrogabile bisogno di morire. Dormirono all’addiaccio quella notte. Francis e Ellen. Francis e la fiamma che disciolta in due languidi occhi dorati non pareva più calda abbastanza da salvarlo. Fecero l’amore, al cospetto dei grandi pini, accoccolati nell’erica bagnata, e pareva a lei di giacere con uno dei cadaveri disseminati per Salza’har. Pianse senza sosta, Ellen. E così fece il cielo, colmo di stelle. Pianse sangue e disperazione sui pallidi volti dei due, consci ora che il firmamento non aveva riservato per loro nessuna astro.


D’attesa si vive

 

Anche quella sera Gustave non mangiò. La fame ogni tanto lo solleticava, ma il frigorifero era vuoto, fatta eccezione per uno spicchio di formaggio dall’odore ambiguo e dall’età incerta che sua madre probabilmente aveva dimenticato lì prima di uscire. Passò due ore con gli spavaldi riccioli biondi incollati al cuscino sgualcito della sua branda, incastrando gli occhi cristallini fra le linee d’inchiostro di “20000 leghe sotto i mari”. E gli pareva davvero di trovarvisi, nelle profondità marine, visti i cavalloni d’aria gelida che disordinavano la stanzetta. Quando spingeva lo sguardo nell’infinità di quelle pagine Gustave arricciava dolcemente il naso e un abbozzo di sorriso colorava il suo viso candido di fanciullo. Gli occhi erano quelli di sua madre, dicevano. Vitrei, guizzanti. Incastonati in lineamenti di rara delicatezza, ravvivati da una insaziabile curiosità.

Voltò pagina, l’ennesima. E come sempre, nel farlo, avvicinò lentamente il mento alla carta ingiallita dal tempo, per assaporarne l’odore. Era il suo rito, il suo piacere. Ogni pagina aveva un’identità propria; la 12 era diversa dalla 45, la 67 dalla 113. Ognuna con le sue sfumature di significato.

Quel povero scricciolo si perdeva in quell’universo. Si faceva cullare, protetto dall’infelicità malinconica che pioveva sul suo capo ad ogni sorgere del Sole. La sua unica compagnia era la solitudine. E il libro. Il suo unico libro.

 

“Quindi ti fermi anche per stasera?”

“Sì Jo, grazie, lo sai che ne ho bisogno. Grazie”

Ad Anita servivano davvero quei pochi spiccioli in più. Lavorava ininterrottamente oramai. Da mezzogiorno fino alle prime luci dell’alba, con una o due brevi pause di mezzo, durante le quali non sapeva mai dove andare, cosa mangiare. Due occhiaie bluastre la accompagnavano ovunque, mascherando la sua giovane età. Ma bastava una delle sue violente pennellate di trucco ed era di nuovo desiderabile. Non lasciava mai che Jo la vedesse struccata, forse per paura, forse per vergogna. Quando due sere prima era venuto a comunicarle la sua intenzione di licenziarla, Anita era ripiombata nella situazione vertiginosa di angoscia da cui con infinite difficoltà si era quasi definitivamente divincolata. Solo le lacrime l’avevano salvata. Jo sosteneva di dover pensare ai suoi affari, soprattutto in quel momento in cui i clienti scarseggiavano e non consumavano, ma aveva ceduto alle striature compassionevoli del suo cuore morbido. “Sei una mela marcia”, era solito dirle con affetto. E lei si sentiva davvero una “mela marcia”, inutile e fuori luogo. Anche per il fatto che Jo, quello stravagante e criptico quarantenne che le aveva dato un’occasione, la pagava miseramente. Ma comunque più di quanto lei rendesse, di questo erano sicuri entrambi e per questo Anita gli era grata. Infinitamente grata.

-Vado a mangiare qualcosa, torno tra dieci minuti esatti- promise Anita.

-E cosa pensi di mangiare in dieci minuti? Poi An, lo sappiamo entrambi che non hai un soldo in tasca. Se vuoi, le altre hanno ordinato qualcosa, sono di là nei camerini, metto io la tua parte-.

La ragazza non seppe come ringraziarlo. La metteva un po’ a disagio il fatto che le colleghe non l’avessero invitata, ma non mangiava dalla sera prima e l’idea di una cena pagata la stuzzicava, così accettò.

 

Chiudendo il libro a notte inoltrata, Gustave esplose in un’ordinaria crisi di panico. Serrò i denti e si strinse nelle coperte sgualcite. Solo il suo respiro affannato graffiava il silenzio di quella camera, di quel disordine eterno. Succedeva ogni volta. All’arrivare all’ultimo sorso di quel libro un senso di incompiutezza tentava di soffocarlo. Era una sensazione che si ripresentava sempre uguale, un mostro che gli si parava davanti infinite volte, quasi a volergli ribadire che oltre quella pagina il mondo per lui non aveva riservato nulla. Che vissuta anche quell’ultima distrazione l’angoscia si sarebbe rimpossessata di lui.

A Gustave pareva di rivivere il medesimo giorno, lo stesso dolore, da quindici anni. Si destava la mattina quando le prime luci filtravano ribelli dalle tende che a fatica provavano a contenerle. Per un minuto non si muoveva. Fantasticava con le forme di ovatta che i raggi dorati del Sole proiettavano fluendo attraverso i buchi delle tende impolverate. Fissava lo sguardo su quelle brillanti e gioiose macchie e riusciva a scorgervi il capitano Nemo nella sua fierezza. Per un attimo sentiva lo sciabordio dell’acqua salata giocherellare lungo i fianchi maestosi del Nautilus, pronto a salpare. In quei soli momenti un’ingenua felicità lo accarezzava, dolce e malinconica come il suono di un carillon. Si sentiva parte di qualcosa. Gli sembrava che soltanto in quegli istanti pietosi gli fosse permesso di vivere. Istanti che nell’affanno di quel momento erano dannatamente lontani.

Silenziose due lacrime bagnarono il cuscino rattoppato. Altre due le seguirono svelte, correndo mano nella mano dagli zigomi di Gustave agli spigoli della sua boccuccia increspata. Il ragazzo affondò il viso nel guanciale, fino a non respirare, e cercò nell’odore stantio che lo avvolse un abbraccio familiare, un ricordo di momenti più sereni. Con la lingua assaporò le lacrime amare che inzuppavano la tela della federa e finalmente sentì i muscoli rilassarsi. Una consistente parte della tensione che lo ingabbiava si dissolse e una tranquillità nuova si mischiò al sapore di salsedine. Con leggerezza Gustave si distese sfruttando tutta l’ampiezza della branda, il quale in questa aveva forse il suo unico pregio, e liberò la mente da qualsiasi pensiero. Sentiva solo il rumore del silenzio pungergli i timpani e le onde del mare infrangerglisi sulla punta della lingua. Mentre quelle sensazioni intonavano una dolce ninna nanna di sottofondo, Gustave si assopì.

 

Nel locale si affievolirono le luci degli ultimi faretti, fino a che Jo, al centro del palco, si trovò invischiato nell’oscurità. A quel punto sollevò le mani ossute e battendole produsse un suono appena percettibile, ma abbastanza vibrante da far azionare Jimmy e Molly. Due fasci di luce fendettero netti il buio denso e si incontrarono sul viso scuro dell’uomo che prontamente provvide a difendersi gli occhi sollevando le braccia. Jo tirò un sospiro di sollievo. Negli ultimi giorni alcuni spettacoli erano saltati a causa del malfunzionamento dei due proiettori e i brillanti occhi di bue che in quel momento lo accecavano odoravano di liberazione. Almeno quella serata si sarebbe svolta regolarmente. Significava soldi in entrata e si poteva percepire l’eccitazione di Jo che invano si impegnava a non mostrarla nei suoi movimenti effeminati. Quando il tecnico assunto da quest’ultimo aveva opinato per sostituire i due fari, il proprietario dell’HornyMoon non ne aveva voluto sapere. Il giorno dopo l’elettricista di fiducia del locale si era ritrovato disoccupato, e Jo aveva incaricato il suo segretario di cercarne uno nuovo, specificando che fosse più competente. Niente lo avrebbe spinto a rottamare Jimmy e Molly, erano gli unici reduci del locale al tempo della gestione di suo padre. Erano gli unici oggetti che lo riportavano a lui. Così diceva.

Nel frattempo, mentre si preparava puntigliosamente per la serata, passandosi il rossetto bordeaux cupo sulle labbra carnose, Anita si mise ad ascoltare i discorsi delle colleghe. La aiutava a distrarsi. Dio solo sapeva quanto odiasse il suo lavoro, se lavoro si potesse chiamare quel dimenare senza pudore il fondoschiena per un pubblico di mezzi uomini con la bava alla bocca. Nella stanza affianco le altre cinguettavano fastidiosamente, già pronte a uscire tronfie dalle quinte e deliziare la platea, ma Anita tardava. Pensava ai motivi che la obbligavano a svendere la sua immagine, a suo figlio, a quando avrebbe affondato le dita fini nei suoi capelli potendo sentirsi finalmente orgogliosa di ciò che aveva fatto. Per la millesima volta da quando le avevano assegnato quel camerino spoglio si convinse, non senza difficoltà, a recitare la sua parte dignitosamente. Sistemò le calze e infilò i tacchi smaltati. Guardandosi allo specchio le sembrò di non vedersi, sotterrata sotto un trucco eccessivo e dei vestiti che mai avrebbe pensato e sperato di riempire. Quella sorta di umiliazione non gliela ripagava nessuno, se non suo figlio. Non gli applausi, che comunque poche volte per lei scrosciavano, non gli sguardi rapaci degli spettatori. Solo il sorriso lucente della sua creaturina seduta davanti a un pasto caldo che lei avrebbe potuto con quella fatica immensa comprare. Anita inspirò, chiuse gli occhi di zaffiro e li riaprì immediatamente. Esprimevano ora convinzione, null’altro. Prese un piccolo ritaglio di carta, su cui apparivano parole incomprensibili scarabocchiate da un bambino, se lo assicurò con cura nel reggiseno e aspettò che venisse il suo momento.

-Tocca a te- sentenziò Jo sottovoce qualche minuto dopo, sporgendo la folta chioma afro dallo stipite della porta.

 

Gustave si svegliò presto, dovevano essere le sei o le sette, pensò osservando le lancette immobili dell’orologio che da anni si rifiutava di fare il suo dovere. Un cielo plumbeo copriva la città e nascondeva il Sole. Sul pavimento non c’erano macchie di luce, la pioggia feriva i vetri delle piccole finestre, ma nessuna smorfia di delusione comparve sul volto del ragazzo. Al contrario, un sorriso raggiante gli illuminò il viso, gonfiando appena le guance scarne e rosate. Gustave schizzò fuori dalle coperte, liberando una nuvola di polvere che si dissolse non appena vi passò in mezzo sgambettando. Aprì l’armadio e con gesti scattanti estrasse l’abito migliore che aveva, l’unico che non viveva di cuciture improvvisate. Indossò maglietta e pantaloni in tutta fretta, con un sorriso vivo come accessorio, poi arrotolò le maniche fino ai gomiti, per non dare a vedere quanto fossero lunghe e adulte per un ragazzino gracile come lui, e si strinse i pantaloni all’altezza dell’ombelico.  Li fissò con la stringa di una vecchia scarpa che conservava in tasca per l’occasione e, dopo vari tentativi, riuscì a domare i riccioli esuberanti, ingabbiandoli in un basco di feltro grigiastro.

Uscì di casa a passo spedito, senza neppure sciacquarsi il viso e con residui di sonno come bagaglio.  Lo sbattere della porta si perse nel suono vibrante delle campane che suonavano le sette e mezzo.

Era in perfetto orario, ma correva. Ansimava, ma continuava a saltare da un marciapiede all’altro, spensierato come non era da tempo. Non si sarebbe annoiato quel giorno, non avrebbe pianto, o dormito. Non avrebbe nemmeno fatto visita a Nemo, che lo aspettava fiducioso poggiato sul comodino. Aspettava quel giorno da un anno.

 

-Lo sai che non mi piace discutere di queste cose alla fine della serata, ma dammi due motivi buoni per cui dovrei lasciarti un giorno libero e puoi andare- sbottò Jo, puntando con lo sguardo ai nuvoloni severi che non davano cenni di tregua.

-Non parliamo di un giorno intero, ma solo…-

-Ei, guarda che scherzo, vai pure. Stai un po’ con lui- concluse lui prima che Anita potesse terminare la frase.

Anita lo ringraziò, come faceva infinite volte. Lo ringraziava per qualsiasi cosa, ma le pareva che fosse giusto così. Entrò in camerino e si svestì lanciando abiti ovunque. Provò a ripulirsi la faccia inzuppando di acetone un pezzetto di carta. Era pallida, assonnata. Decisa. Inforcò un paio di occhiali da sole per coprire le occhiaie evidenti, di quelli che gli erano stati dati in dotazione e che gli era stato detto di non portare fuori dal locale. Si riavvolse nei suoi abiti morbidi e sgattaiolò fuori dall’HornyMoon come un fantasma. L’aria calda e umida del mattino le pizzicò il naso e un pizzico di felicità le colorò il viso. Le campane suonarono le sette e mezzo.

 

C’era quasi, oramai la vedeva. Al di là dell’incrocio, fumava. Probabilmente aveva chiesto una sigaretta a un passante che si era sciolto nei suoi occhi penetranti, Gustave sapeva che lo faceva spesso. Nell’attesa infinita che il semaforo si vestisse di verde il ragazzo si mise a sbracciare e con la vocina stridula attirò la sua attenzione.

“Mamma!”

Anita riconobbe subito il gracchiare amorevolmente fastidioso del figlio e dopo aver gettato la sigaretta con un movimento goffo si avvicinò al ciglio della strada. Voleva abbracciarlo, baciarlo. Sapeva che per lui quello era un giorno speciale, sapeva che era venuto per augurarle buon compleanno.

 

Non glielo augurò mai però, Gustave, un buon compleanno. E non si rintanarono neanche nella trattoria economica che li aspettava dietro l’angolo e che a loro piaceva tanto, quel giorno. Lo sapeva Anita che non era colpa sua. Lo sapeva che può capitare, che un incosciente ubriaco si metta alla guida. Ma non doveva succedere a lui. A lui no. Gustave non lo meritava. Ancora lo vedeva sorridere, sdraiarsi sul letto e isolarsi nella sua corazza di pagine. E sorridere ancora. E poi leggere e stropicciarsi gli occhi.

Lo avrebbe aspettato Nemo, ancora su quel comodino. Non sarebbero salpati senza di lui, a costo di sfidare l’eternità di un attimo. Un fatale attimo per la vita d’una madre, unica persona che avrebbe sofferto del solco scavato dalla sua mancanza. Ma quanto, quanto…


… al dolore ritorna

 

-La vostra, come dire, condizione. Sì, la vostra condizione. Nasce, penso, qui- si poggiò il dito unto e scheletrico sul petto, all’altezza del cuore. Ci guardava negli occhi, uno alla volta. Li penetrava, svuotava ciascuno dei propri segreti, ne setacciava l’intimità, con un vago disinteresse. Il suo sguardo non si posava su altro. Solo sui nostri sei occhi. In quel momento erano la nostra debolezza, li leggeva con una lucidità impressionante. Provavamo a evitarlo, ma era ovunque, una liquida ombra fluttuante pronta a sgretolare i nostri inani tentativi. Non c’era scampo, né nascondiglio, né possibilità di resistere.

Le quattro pareti ammuffite si accartocciavano su di noi, ultimi sopravvissuti serrati in un ripostiglio senza tempo. Ai quattro angoli della stanza angusta si affollavano gocce di condensa, lanciate in una corsa sfrenata verso il suolo sudicio, a zigzag fra le ragnatele. Scorticavano la vernice porpora e la ingurgitavano vestendosi di tonalità sanguigne.

– Qualcuno di voi… tu! Tu! – incollò il viso di cera a quello del fanciullo biondo – Da quanto non lo provi? Da quanto non provi… dolore! – scandì le parole riempiendo l’atmosfera umida con la sua voce sibilante. Era un sussurro assordante. La piccola bocca si muoveva con precisione, il solco rivoltante dell’ustione che la incrociava si protendeva e ritraeva come la schiuma sulla riva d’una sabbia bianchissima. Delineava parole taglienti, bramose di una risposta. Puerili emozioni affiorarono sulle mani emaciate di Jack, che si dimenarono rigidamente in cerca delle giuste parole.

-N-n-non lo so, penso…-

-Non lo so! Non lo so! Oh bene, non lo sai! Avete sentito? Il vostro amichetto non lo sa! Immagino non ti importi quindi!- con una fine e malata isteria estrasse dalla cintura la 9mm. Costrinse le labbra asciutte e taglienti del ragazzo a ingoiarne completamente la canna gelida, fino a che aspri conati non lo implorarono di fermarsi.

Un secondo dopo il cadavere di Jack annegava in una pozza di sangue.

Gli occhi che avevano deciso il suo destino ebbero un sussulto, come attraversati da un lampo si illuminarono. Fu un attimo.

Quel folle sembrava assaporare il momento, parve crogiolarsi in un’estasi d’argento, profondamente inumana. Non concesse neppure il tempo ai nostri sentimenti di coagulare ed esplodere, afferrò il volto scavato di Jack e piantò le sue iridi incolori nello sguardo vacuo. Come una bandiera, a volersi impadronire prepotentemente di ciò che aveva creato. L’ennesimo teschio sullo scaffale. A rivendicarne la paternità, fieramente.

-Non lo provi nemmeno ora vero? Tanto valeva che tu la smettessi di girovagare per questa discarica di mondo… senza dolore. Ti ho solo dato una piccola spinta. Prendila come una dritta, un consiglio da amico. Non c’è bisogno che mi ringrazi-

Parlando si era afflosciato sulle spoglie del ragazzo, impregnandosi i vestiti del suo sangue, senza curarsene. Stringeva il suo mento delicato con violenza in una mano, costringendo il cadavere a guardarlo, ad ascoltarlo. Come se fosse ancora lì, mentre il suo corpo rachitico si abbandonava immoto al suolo, in una posizione scomposta, con le mani ancora legate dietro la schiena.

Rimase immobile in quella posizione per un anno, un secolo. Lasciò che le sue parole ci percuotessero rimbombando sul cemento tutt’intorno. Lasciò che si prendessero la scena che meritavano, che ci trapanassero i timpani fino a dileguarsi nel silenzio pastoso. Lo faceva di continuo, parlava, rantolava e tendeva l’orecchio a raccoglierne il risultato, contorcendo il viso. Assaporando le macabre vibrazioni e il modo in cui oscuravano le nostre espressioni abiette.

Con uno scatto, il pazzo si alzò. Con la solita corrotta eleganza scivolò nell’ombra fino Marie.

La domanda era la medesima. I modi gli stessi, le smorfie le conoscevo.

-Tu! Per cosa vivi… dov’è? Dov’è il tuo dolore?-

Ora gridava. Un’isteria irruenta disordinò la sua postura spigolosa. Si protese in avanti fino ad abbandonare l’equilibrio e atterrò sulle ginocchia con uno schiocco. Spasmi impetuosi dominavano la sua espressione, accesa d’una ira travolgente.

Il solitario arco di luce che feriva il buio denso, proveniente da una finestrella minuscola, inondò per metà la sua faccia tesa, schizzandovi ombre lugubri. Le sue lunghe braccia asciutte scattarono ad afferrare le gracili spalle di Marie. Intanto, ghirigori di polvere giocherellavano a un palmo dal suo naso illuminati dal sole lontano, lontanissimo, in profonda disarmonia col respiro rotto di quella maschera spettrale.

All’improvviso in me il terrore, l’odore stantio della morte si infranse sulla presa di coscienza rischiarante di vivere in un flashback. Di danzare in un infinito loop. Di abitare frame ristampati, copie bugiarde di situazioni lontane, familiari. Ma quelle sensazioni collassarono su loro stesse quando la voce torpida della ragazza raggiunse la mia attenzione.

-Io non provo dolore- rispose Marie, forte d’una ostentata e fragile fermezza.

Per un istante pensai che potesse essere vero. Mi feci ammaliare dalla sua espressione di granito. Raccolsi la mia fragilità e la corruppi inconsciamente a lasciarsi sedurre. Marie poteva essere la prova che un’esistenza pura potesse esistere. Che il fiore della vita potesse essere annaffiato senza lacrime. E crescere orgoglioso. Lo pensai realmente, fino a quando il suo cervello schizzò sulla parete. Poi non lo pensai più. Non pensai più. A niente.

Mi svegliai incollata alle coperte. La fronte madida, il respiro spezzato.

Dove siete tutti? Jack? Marie? Dove siete?

-Smettila! Sai dove trovarli. Dove trovarci-

Pungenti parole mi lacerarono le meningi e sfumarono in una risata impertinente che conoscevo perfettamente.

Mi scosse un tremito. Sì, lo sapevo.

Imbracciai la penna come un’arma e puntai la sua canna smaniosa alle tempie invitanti di un foglio, bianco di candida innocenza.

Sto arrivando.

Dedicato a tutti i visionari che come me attingono inchiostro dal dolore d’ogni giorno, che trovano la forza di modellare nuovi personaggi di creta solo nella necessità di proiettare il proprio vitalismo in una qualche figura semi-riconoscibile. Che mai scapperanno al dolore, mai. E mai si abbandoneranno senza forze a una “vita priva di attrito”, come disse un mio carissimo amico. I nostri personaggi sono sempre con noi, e il nostro animo sempre con loro.
Tutto ciò che dal dolore nasce…


 

 Scriverò un giorno

Scrivo una poesia
e non ho nulla da dire,
Canto d’amore
e non ho mai saputo amare.
Sui sentieri dell’emozione
mi troverò a guadare
rivi violenti di memorie
mai vissute.
Esploderò nel pianto
di lacrime altrui.
Arrossirò per incontri
mai avvenuti.
E prima o dopo
scriverò qualcosa
una poesia
senza vivere
la vita d’altri.


Il profumo della felicità

Sei il vento fra i capelli
la nausea, le onde,
la pausa prima dei ritornelli
il sole timido fra le fronde.
Sei un arcobaleno d’acquarelli
l’acquazzone che nasconde
l’alba, il canto degli uccelli
un sorriso, dietro due ciocche bionde.
Sei la nota stonata della composizione
il caffè sullo spartito
un volto bagnato dall’emozione
un dolce tasto bianco, e poi nero, all’infinito.
Sei la melodia d’una discussione
roccia che si sgretola, sfiorata dal mio dito.
Sei un germoglio in un uragano
un foglio ed un aeroplano
un battito colorato
d’una farfalla in libertà
due bambini per mano, un prato
e il profumo della felicità.


L’uomo e il mare

Mi seduce il mare, con un bacio
di salsedine portata dal vento
che carezza, scaglia, adagio
la sua pelle in costante tormento.
Siamo soli al mondo, noi due
lo siamo sempre stati, soli.
E tu mare, che con cullare di onde consoli
non mascherar dietro gelide prue
le ferite di spuma della solitudine.
La sento ora, una tenue disperazione
solletica i miei piedi arenati
sagoma passi di dichiarazione
strattona pensieri da tempo incagliati
sui fondali marci di ragione, e passione.
Ma mai m’avvolgeranno, le tue geometrie sfumate
i ruggiti tuoi solcheranno le mie guance salate
dal canto stridente delle sirene.
Salate da un sale che non t’appartiene.


Alla scienza

Quando gettato sull’ultimo giaciglio
le ciglia mie caleranno il sipario
su un’armonia d’attimi sconnessi
sugli attori velati dalla nebbia
saprò che il momento sarà giunto.
Allora, la domanda mia riempirà il dirupo
con un passo nel vuoto.
Lingue di fuoco soffocheranno a un palmo
dalla caduta, l’ultima
ma avranno il vigore di carezzarti.
Illumineranno in te la fallace certezza
delle tue superbe verità
incise sul granito, fiere ed eterne.
Sgretolate dal nulla a me dinanzi
in granelli di sabbia grigia
le vedrò comporsi in vili castelli
cui il fato ha riservato soltanto
di crollare alle prime luci dell’alba


 

 A mio nonno

Un raggio di sole vivace
come una folata ravviva
il fuoco sulla fredda brace
di due cuori alla deriva.
Accende l’iride d’un uomo,
il piombo si fa cobalto
e sprofondo nel suo sguardo
che splende, ancora non domo.
Mi investe un tepore paterno
per essere nudo al suo fianco
Due fiamme sfiorandosi soltanto
promettono d’ardere in eterno.


 

 Rivalsa

 

Il tintinnio metallico della cotta di maglia risvegliò in lui un terrore smisurato. Non poteva vederlo, ma lo sentiva forte e chiaro; udì lo scalpiccio degli zoccoli sul selciato, il palpitare vendicativo del cuore del suo inseguitore. Si avvicinava, era in trappola.

Darren si impose di non implorare, ma Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto farlo. E solo Lui quel giorno avrebbe deciso della sua vita. Quella convinzione lo calmò in parte: se secondo il disegno del Signore sarebbe dovuto morire lo avrebbe fatto con dignità, in fondo aveva consacrato a lui la sua intera esistenza, per quanto umile. Si alzò il saio con le mani fino a scoprire le ginocchia gracili e le poggiò sul freddo pavimento di pietra della cattedrale. Poi iniziò a pregare.

I rumori e le grida di battaglia che giungevano dall’esterno lo scuotevano. Quante persone, quanti fedeli sarebbero morti?

Dall’estremità orientale del transetto giunse un boato assordante. Qualcuno aveva sfondato il portone ligneo che era stato chiuso a chiave per precauzione, non appena gli uomini di Edwyn avevano invaso la città. Il muso di un corsiero spuntò dalla semioscurità che avvolgeva l’ambiente; Darren si illuse che si trattasse solo di un cavallo imbizzarrito, senza padrone, ma quando l’animale avanzò, lo scintillio fatale di un’armatura sgretolò le sue esili speranze. Era Edwyn. Era la fine.

-Dunque frate, pensavate di sfuggirmi- disse questi cupo, sfilandosi l’elmo.

Darren improvvisò un atteggiamento temerario e non rispose, sebbene gli tremassero vistosamente le mani, strette attorno al rosario. E comunque, anche se avesse voluto, non avrebbe trovato né le parole né la voce per farlo.

-Quanto tempo…- Edwyn chiuse gli occhi e inspirò profondamente, voleva assaporare quell’istante -Quanto tempo gettato al vento per cercarti-

Darren sapeva che se avesse incrociato il suo sguardo la fermezza che ostentava sarebbe crollata, quindi si sforzò di fissare altrove. Con un poderoso strattone alle briglie, Edwyn fermò il cavallo a un passo dal frate e smontò. Il gusto della vendetta iniziò a prendere consistenza nella sua bocca. Era un sapore dolce, inebriante. Vedere il frate inerme lo fece sentire invincibile, eppure non poteva accontentarsi di piegare la sua volontà, non dopo che gli aveva rubato il suo unico erede. Lo voleva morto, erano in gioco il suo onore e la sua credibilità.

-Guardami!- urlò -Dov’è Nathaniel?-

-Tuo figlio ormai appartiene a Dio, non lo riavrai. Ha preso i voti per sua scelta- rispose Darren, tentando invano di apparire sicuro di sé.

-Una scelta guidata dalle tue menzogne, non è vero?-

Quelle parole fecero adirare il frate.

-La mia voce è la voce dell’Altissimo, io agisco in suo volere e che voi siate dannato se osate chiamarle ancora menzogne!-

Edwyn scostò il mantello che copriva il fodero con la mano sinistra e ne estrasse una spada lucente.

-Chiudete la bocca- sussurrò prima di calare l’arma sul collo di Darren. Un fremito gli scosse le viscere, si sentì onnipotente.


 

 Radici

 

Muovo due passi sicuri sul prato acceso e incolto, ora tempestato di pennellate gialle vivo. Sono qui ad aspettarmi, come ogni anno. E come ogni anno le calle ondeggiano e si inchinano al volere di raffiche di vento inflessibili, all’ombra del ciliegio rinsecchito che le protegge amorevolmente. Rilucono, quando le nuvole solitarie permettono al Sole di sfiorarle attraverso i suoi rami ritorti. Il modo in cui punteggiano il praticello sembra affidato alla mano svelta ed esuberante d’un impressionista. É un crogiolo di contrasti questo ritaglio di mondo, raggianti quanto raffinati. É mio questo ritaglio di mondo. Mio e tuo. Fin dai tempi in cui amavamo riempirci i polmoni della sua aria e adagiarci sul suo tappeto di calendule dalle corolle sorridenti, che a ogni folata tentavano di fuggire al guinzaglio del loro stelo sottile e volare via, lontano.

Delicatamente il giardino della mia giovinezza si concede. Con una sensualità unica, appena percettibile, ma pretendendo severamente che mi disinibisca di fronte alla sua rifiorente seduzione. Non posso far altro che accontentarlo, me ne convinco accarezzando fra le dita un vellutato petalo di ciliegio. Uno dei primi.
Così chiudo gli occhi, mi lascio andare.
Lentamente un profumo dolciastro si impadronisce della mia attenzione, la soggioga con prepotenza. Sento il rosso sapore delle fragole condensarsi sul palato, la loro anima acidula solleticarmi la lingua, ma è solo un attimo. Mi sfugge, svanisce in una folata di aria piacevolmente gelida. Sebbene provi ad aggrapparmi al vento, a farmi trasportare verso quella percezione deliziosa, sento solo il freddo penetrante dell’aria di marzo. Il gusto esotico e purpureo delle fragole ora è lontano. Assente.

Brividi violenti iniziano a increspare la mia pelle e a strattonarmi. Chiedono di essere ascoltati, di lasciar perdere gli stuzzicanti odori della primavera che rinasce e di concedermi loro completamente. Soltanto per un momento mi lascio ammaliare e mi abbandono al piacere degli ultimi freddi, fin quando un’invadente fragranza di pino apre uno squarcio netto nella mia mente. Con essa ricordi ingialliti d’infanzia si fanno largo nel vuoto che riempie la mia testa. Lo sgorgare del passato si fa gradualmente copioso, inarrestabile. Roteando vorticosamente, polaroid di istanti lontani affiorano al lento ritmo di un dondolare d’amaca.

-Questa la piantiamo qui?- chiedeva con il volto ancora incorniciato dai capelli corvini.

-No pa’, qui il nonno ha detto che non si può-

-Non ascoltarlo il nonno, dice tante cavolate. Questa la mettiamo qui, sei con me?- mi sussurrava all’orecchio.

E piantammo il ciliegio al centro del giardino. Per mesi lo innaffiammo con amore, quando ancora nascondeva timidamente il capo sottoterra. Era il nostro segreto.

Un’emozione strana prova a soffocarmi, martella all’altezza delle tempie. Smorza la tua voce, papà. Zittisce i ricordi. Mi sento precipitare, stordito da una malinconia ostile che bagna di sale i miei occhi ancora serrati.

Forse non se ne sono mai andati quei momenti. Forse si posano sparpagliati sul fondo della mia coscienza, in attesa che la sensazione giusta permetta loro di venire a galla, di godersi una boccata d’ossigeno rigenerante. E quando ciò non accade appassiscono, fino a marcire.

Un rumore metallico vibra all’improvviso, rimbalzando da un tronco all’altro. D’istinto apro gli occhi, quasi spaventato da quel tonfo. Mi volto, cercando con lo sguardo inumidito la fonte di quel suono e a quel punto lo vedo.

Ti vedo, papà. Sempre intento a lavorare serenamente, illuminato dalla luce che si infrange sulla tua fronte, imperlata dal sudore. Il fisico snello, asciutto. Lo sguardo assorto e impegnato a smuovere la terra con precisione. Il flebile fischiettio con cui addolcisci ogni vigoroso colpo di vanga. Sei sempre stato qui, papà. Qui con me, con questo giardino che nelle tue mani callose trova la sua linfa. Qui con il ciliegio attorno al quale è fiorita la vita. La nostra vita. Il nostro segreto.