Sofia Guerra
Poesie
Una notte magica
Santa Lucia è uno dei giorni migliori della mia infanzia, del quale ricordo perfettamente ogni singolo dettaglio. Ricordo l’impegno nel scegliere e scrivere ciò che desideravo su un foglio con allegato un disegno, da depositare sulla finestra la sera. Ricordo l’ansia della mattina dopo, nell’assicurarmi che quel foglio fosse stato ritirato. Ricordo il campanello che si udiva spesso nelle contrade del paese, le telefonate e le suonate al citofono da parte di una voce femminile. Ricordo la preparazione del tavolo con sei piatti decorati, caffè, biscotti e farina al centro. Ricordo la velocità in cui mi dirigevo a letto, mentre fingevo di addormentarmi. Ricordo il risveglio, verso le sei, al seguito del fratello poco più grande che, accendendo la luce del piano di sotto, entrava con cautela in cucina a controllare che non ci fosse nessuno e che la tavola fosse addobbata in modo differente: dolci, giochi, vestiti, sogni e desideri che si realizzavano, occhi increduli che scintillavano in ogni secondo; un vero spettacolo. E poi, pian piano, l’arrivo del resto della famiglia. L’atmosfera serena che metteva in secondo luogo ogni problema. Il ritrovarsi ulteriori regalini sui banchi di scuola. Il fratello che nei giorni successivi cercava di rubarmi i dolcetti dal piatto nascosto sotto il letto.
Finchè, in quinta elementare, la magia svanì nel nulla. Le voci della verità iniziarono a girare tra noi e le mamme lo seppero ai colloqui. Quella sera stessa ero da mia nonna con mia cugina al piano inferiore mentre i miei genitori, chiamandomi, mi fecero quella fatidica domanda, tra mezzi sorrisi e lacrime nascoste: “Hai scoperto chi è Santa Lucia?”.
Eppure non avevo mai sospettato nulla. Non avevo mai intuito a chi appartenesse quella voce telefonica. Non mi ero mai accorta del risveglio dei miei durante la notte. Non avevo mai trovato il nascondiglio dei regali.
Poi avevamo finto senza dare importanza ai regali, ma continuando a creare la stessa atmosfera godendocela a pieno. Quella splendida atmosfera che c’era anche nella solita routine. Nell’andare a scuola in macchina, in ritardo come sempre, non c’era l’agitazione o il nervosismo, anzi, in quella rara occasione lo stereo diffondeva la musica di Jovanotti.
Negli anni a seguire, invece, niente di tutto ciò. Alcuni regali anticipati ma nessuna atmosfera. Nessuna canzone di Jovanotti. Solito ritardo mattutino, solita routine.
Fortunatamente, dopo, sono arrivate bensì cinque meravigliose creature a farci rivivere questo: i nipotini! Ed ora, forse, è ancora più bello ed emozionante di prima.
Ovunque sarai
Ciao nonna, per dimenticare gli ultimi tuoi giorni mi son messa a pensare al passato, alla fortuna che abbiamo avuto noi nipoti a viverti così tanti anni. Quante volte ti abbiamo fatta arrabbiare!
Passavamo intere giornate in giardino con le padelline e ti arrabbiavi perché ti spostavamo la sabbia o ti intasavamo la fontana con la terra oppure ti ritrovavi i palloncini ovunque, dopo le lotte d’acqua, facendo il trenino con le tue sedioline beige mentre uno spruzzava con la canna dell’acqua per poi finire ad usare la stessa fontana come piscina. E quando creavamo della panna con la spugna e col tuo sapone Sole, le torte al cioccolato col fango, i minestroni con le tue spezie dell’orto, i profumi coi petali delle tue rose o col gesso disegnavamo sul cemento per giocare a campana. Ma tu ci lasciavi sempre fare tutto quanto, richiamandoci per la merenda: poc corn, succo e i fantastici ghiacciolini!
Poi quando ci annoiavamo, dopo la pausa compiti, iniziavamo a correre attorno al tavolo o a sederci sui braccioli del tuo divano staccandoti anche le puntine delle tende e tu per non sclerare tiravi fuori il tuo album delle foto, dei fogli e l’astuccio rosso di braccio di ferro facendoci disegnare e giocare a maestre con tanto di registri. E sotto il tavolo, nel porta assi, ci lasciavi nascondere il nostro alfabeto segreto e il nostro quadernone. Ci accompagnavi a prendere i nostri bambolotti da collezione: Marcolino, Emy e Giovannino; per i quali una volta rischiammo anche una multa. Ci cucivi dei vestiti per le nostre barbie con stoffe che tenevi nell’armadietto della tv e ci lasciavi usare tutta la stanza per creare negozi, famiglie e spargere tutti i loro capelli ovunque dopo averli tagliati. Ma i vestiti li cucivi anche a noi per fare le nostre scenette estive preparate con tanta cura, invitando poi le varie vicine come spettatrici. Avevamo anche un libro delle barzellette ed uno dei giochi, ma noi andavamo sempre a rubare le tue riviste scarabocchiandole facendo sì che le modelle avessero rughe, baffi, pochi denti e più gioielli. Immancabilmente, ogni volta che salivamo sull’altalena attaccata al fico composta da una corda e un pezzo di legna, ci grattugiavamo le dita dei piedi e quando andavamo coi pattini a rotelle o in bicicletta cadevamo sul cemento sbucciandoci le ginocchia ma tu avevi sempre pronta la polverina magica da metterci. Chissà se ci hai curato con quella anche quando ci passammo la varicella consecutivamente…
A volte invece salivamo sui terrazzi a costruire casette con coperte e stendini o andavamo nel prato dietro casa dove c’era un muretto sul quale facevamo fatica a salire, arrampicandoci ed usando i walkie talkie, organizzando tornei di calcio o una caccia al tesoro vicino alla rete della stradina dove ogni anno seminavo dei fiori con te che poi venivano schiacciati dal trattore che portava la legna. Ci insegnavi giochi nuovi con la palla, ci facevi giocare coi birilli, con le bocce, con il frisbee e con il Boing: quei due fili che aperti lanciavano la palla ovale di plastica dalla parte opposta che chiamavamo “pesce indeciso”. Ci portavi spesso alla fontana di Ardessà dove facevamo la gara con le barchette di carta e andavamo nei boschi a raccogliere le castagne che la sera cuocevi nella stufa, nello stesso posto dove ti scaldavi i piedi seduta davanti.
Arrivava l’ora della cena e sulla tovaglietta sbiadita a quadri rossi e bianchi, ci facevi trovare sempre la robiolina. Dividevamo la pasta dal sugo, intingendo una penna per volta poi, finita quella, ci davi le palline di carne quante il numero dei nostri anni con le patate fritte che spesso si bruciacchiavano con la salvia. Tu inzuppavi il pane rimasto nel vino con lo zucchero, noi rubavamo un bibó nella scatola gialla vicino al porta sale marrone e agli stuzzicadenti. Un buon caffè (sedente, bollente, che costi niente) e via di nuovo. Passavamo le serate di fuori a giocare a CIP, nascondendoci nelle cuccie dei cani o nei bauli delle macchine e una volta rientrati ti ritrovavamo seduta nell’angolino davanti al caminetto mentre facevi le parole crociate o ancora a lavorare davanti alla tua macchina da cucire o alla tua stirella. Ci cacciavi nella tua vasca rosa e filavamo nel tuo lettone a fare i salti. Con quelle molle sembrava di galleggiare quando eravamo sdraiati. Eppure, pur di star insieme anche la notte, il letto nel tuo armadio non lo usavamo quasi mai e ci stringevamo con te. Ma prima di addormentarci ci leggevamo o inventavamo delle fiabe, dicendo qualche preghierina.
Poi siam cresciuti ed abbiamo lasciato il posto ai pronipoti, ma abbiamo continuato ad imparare da te facendo insieme gli gnocchi, il croccante, il pane dolce, gli arrosti, il ripieno e tante altre prelibatezze ricordandoci di quando facevamo lo spiedo col tuo fuoco acceso o di quando gli ometti di casa facevano il salame e tu ci impaurivi con la testa del maiale. Abbiamo continuato ad andare nei boschi insieme dove facevi delle fascette di legna da portare a casa e raccoglievi un mazzolino di fiori da mettere nei tuoi vasi. Abbiamo continuato a cantare, a ballare, a giocare a tombola e a carte, bevendo un buon vin brûlé che abbatteva l’influenza, dicevi. Abbiamo anche iniziato a prenderti in prestito gli accendini nel portaoggetti rosso sul caminetto e tu sapevi che fumavamo, ma non lo dicesti mai a nessuno. Ci facevi trovare le mancette nascoste per i compleanni e per Santa Lucia. Ogni tanto mi chiedevi di venire a dormire con te per farti compagnia finché non era diventata una routine quotidiana. E dormivo talmente bene con te che la mattina dopo non avevo voglia di alzarmi ed andare a scuola quindi tu, mia complice, mi firmavi la giustifica e dopo che eri scesa a guardare le tue galline tornavi su a chiamarmi per la colazione e passavamo la mattinata insieme sul divano a chiacchierare.
Mi manca tutto questo e mi manca anche il dopo: quando nel giorno di Natale ci feci prendere un infarto, quando ti arrampicavi sul garage o sulla credenza, quando la tua memoria iniziava a perdere colpi e continuavi a ripetere le stesse cose (non immagini quanto vorrei risentirle ora per la miliardesima volta), le tue lacrime e le tue risate…
Ho imparato ad accettare la morte ed ho accettato il fatto che tu non ci sei più fisicamente, ma hai lasciato un vuoto incolmabile.
Non ti ho portata a Venezia perché so che ti metteva malinconia, ma ti ho portata in un posto nuovo, a me molto caro: Bologna. Qua c’è una via che custodisce una piccola finestrella che fa pensare, a chi la apre, di essere improvvisamente da un’altra parte o meglio: a Venezia. L’acqua casualmente in questi giorni non c’è, ma la nostalgia la mette ugualmente a me. Forse ne avevo bisogno però sai? In questo momento, dopo aver percorso il viale Carducci intravedendo la sua casa, mi son fermata ai giardini Margherita. Son seduta su una panchina immersa nei colori della natura autunnale, la mente si è soffermata su di te, ti sto pensando ed ho in mano il tuo famoso bicchiere. Quello verde universale che usavi coi tuoi figli nelle gite in montagna e poi, una volta cresciuti, lo tenevi nell’angolo basso della credenza facendo sì che ogni volta che i nipoti e i pronipoti entravano ci bevevano. Altro che Covid. Credo che le cose materiali servano a poco, son tutti questi ricordi che contano, ma portando con me questo bicchiere oltre a portare una parte di te, porto una parte di tutti noi. Eri, sei e sarai sempre nei nostri cuori.
Accompagnare
Da piccola pensavo spesso alla morte e stavo male, tant’è che i miei genitori per farmene parlare e sfogarmi un pó mi fecero scrivere un diario con mia sorella. Ero terrorizzata dalla morte, più che mia per quella degli altri. Poi è morto mio nonno ed ero voluta andare a vederlo di mia spontanea volontà, senza provare nessuna emozione. Quando è morta mia nonna invece, nonostante fossi più grande e consapevole, ho sofferto un sacco perché ero molto legata a lei e non si è mai pronti per queste cose quando sei coinvolto; anche ora ogni tanto manca e credo che mancherà sempre tremendamente, ma è sempre viva nel mio cuore e nei miei ricordi più belli. Ci si abitua un pó all’assenza fisica e si cerca di farsene una ragione. Questo per dire che il problema della morte secondo me è legato più a chi resta, a chi ti era vicino, però capisco l’ansia e la preoccupazione anche per se stessi, il non sapere quando e come avverrà, se si soffrirà e se poi non ci sarà più nulla. L’uomo tende a manifestare la morte negandola, mascherandola, non parlandone, non pensando ad essa. La morte è un argomento tabù di cui si ha paura perché non si può né comprendere né spiegare. E allora si cerca di “sconfiggere” questa paura definendola e motivandola, ma quando sul nostro cammino la “incontriamo” e siamo allora costretti a dedicarle qualche riflessione, cerchiamo di sradicarla velocemente dalla nostra mente prima che essa s’impossessi di noi perché non è facile affrontarla ed accettarla, ci si continua a chiedere: “Perché ora? Perché proprio a me/lui/lei?”. E allora ci affidiamo alle nostre credenze: al destino, al cristianesimo (non è fine, ma nuovo inizio), alla convinzione che i morti possano vivere nei ricordi dei vivi (tomba), all’induismo (reincarnazione), al fatto che sia una liberazione dalle sofferenze esistenziali (suicidio), attraverso la considerazione che non esista una vita oltre la morte e che “la morte è non essere”. Ma io non credo a niente di tutto ciò, forse un pó al destino ed ad Epicuro che affermava che la morte non è nulla per noi: finché l’uomo vive, la morte non c’è; quando c’è la morte, è l’uomo a non esserci più.
Ma credo fortemente nell’amore, nei gesti, nei dettagli, nelle piccole attenzioni e soprattutto nel reparto delle cure palliative che mi ha dato la possibilità di avere una visione diversa, di aprirmi di mentalità perché anch’io ero terrorizzata dalla morte. Lavorando lí ho imparato ad affrontare tutto ciò.
“Come fai a lavorare lì?” questa è la domanda che mi è stata posta spesso in quei due anni, alla quale non sono mai riuscita a dare una risposta. Ho amato l’ambiente in cui lavoravo. Eravamo un’equipe fantastica, pronta a soddisfare i bisogni di un paziente, a dare un sollievo al loro dolore fisico o morale, a strappare un sorriso o addirittura una risata, a scoprire ogni abitudine ed ogni vissuto di ogni singolo paziente, a riconoscere il loro “profumo”, ad accettare i loro caratteri e le loro reazioni molto differenti, a dare conforto ai parenti, a porgere una mano od un abbraccio, ad Ascoltare (con la A maiuscola perché tanti sentono soltanto, ma non ascoltano e credetemi che c’è una grande differenza), ad accompagnarli in quest’ultima fase della vita. Credo che sia uno dei pochi posti nel quale dedichi veramente tempo alla persona, coccolandola e viziandola.
In due anni avrò visto più di mille pazienti, ma tutt’ora ricordo ogni viso, ogni nome, ogni storia ed ogni famigliare perché tutti in qualche modo mi han lasciato qualcosa; alcuni non sapevano o capivano verso la fine, altri giustamente non erano pronti e non lo accettavano evitando pure di parlarne, altri ancora cercavano di sdrammatizzare facendo battute a riguardo, ma tanti ringraziavano della vita passata ed erano pronti.
Un po’ di paura e sofferenza mentale o fisica però c’è stata in tutti quanti, soprattutto negli ultimi giorni, ma col nostro accompagnamento e i farmaci se ne andavano sereni. Per questo motivo mi auguro che un giorno questo servizio venga fatto a disposizione di tutti, per qualsiasi persona che stia per morire e non solo ai malati tumorali perché una morte “serena” se la meritano tutti quanti. Credo che se ci fosse più “cultura” riguardo alle cure palliative e lasciassero agire con quelle modalità facendo scegliere liberamente, tutte quella sofferenza legata alla morte sarebbe meno straziante. È una mentalità quella delle cure palliative che tanti criticano perché credono che siano appunto i farmaci come la morfina ad accelerare la morte, ma non è cosí perché essa toglie i dolori mentre i sedativi tolgono i pensieri… forse ti rilassi e ti lasci andare prima, questo è possibile, ma se sai già che devi morire e stai passando giornate senza vita che senso ha prolungarla? Purtroppo questa cosa non è molto diffusa nemmeno nell’ambito sanitario (con la morte ho avuto a che fare anche col Covid e lí ho visto la vera sofferenza) ed è una cosa che non ho più saputo accettare dopo aver lavorato lì.
La parte più difficile infatti era la gestione dei parenti. Bisognerebbe cercare il più possibile di non pensarci. È una cosa che avverrà sicuro, ma è meglio godersi ogni singolo attimo ora senza avere rimpianti. Poi certo, non è semplice accettarlo, soprattutto quando succede in un bimbo che aveva ancora tutta la vita davanti o ad una mamma che aveva dei figli da crescere o ad un ragazzo che aveva sogni e progetti ancora da realizzare… ma da questo impari ad apprezzare tutto quanto, dalle piccole alle grandi cose. Impari ad apprezzare la vita insomma.
Quando mi era stato proposto di lavorare lì ero titubante ed avevo una gran paura, soprattutto di farmi coinvolgere emotivamente, affezionandomi. Ero terrorizzata perché sapevo che avrei visto tante persone morire di ogni età. Ora come ora mi ritengo fortunata di aver svolto un’esperienza del genere. Ho imparato realmente a vivere stando lì!