Sofia Pedroni - Distici, Poesie, Racconti

Distico elegiaco

ποῦ θυμοῦ με βίος μίμνει ἀβεβαίου ἀμύμων;
ἥλιος ἔξω νῦν· μηκέτι τὰ δ ́ἐρέω.

Traduzione distico

Dove nell’animo incostante
mi attende la vita perfetta?
Ora fuori splende il sole: non
mi pongo oltre queste domande.

 

 

Rainy December

I saw a boy in red rubber boots
dancing light-hearted in a puddle;
rain was scrolling heavy down the roofs:
it seemed he wasn’t bothered.

Far from our worries and our deadlines,
far beneath the leaden hideous sky,
thunders were to him a distant chime,
the wind but a spiteful sigh.

Then his mother turned and grabbed his hand:
I knew his little dance was over.
I wondered if he would understand
how come she didn’t share his marvel.

Traduzione: Dicembre piovoso

Ho visto un bimbo in stivaletti rossi
di gomma che danzava spensierato
in una pozzanghera. Pioveva giù
dai tetti: non sembrava infastidito.

Lontano da scadenze e angosce, sotto
un orrendo cielo di piombo, i tuoni
erano uno scampanellio leggero,
il vento solo un sospiro malizioso.

Poi la madre si voltò e gli afferrò la
mano: così finiva la sua danza.
Mi chiesi se un giorno avrebbe capito
l’unicità del suo stupore.

 

 

 

October First Impressions

(Prime impressioni registrate il giorno dell’arrivo a Pisa, da matricola, l’8 ottobre 2020)

The brownish river glimmers in the light
of street lamps standing in a fancy line.
The moon lies fair behind these green roofs.

The famous tower watches from above
how parents say goodbye and swear their love
to children waiting all excited.

My mum’s perfume still lingers on my coat:
I tried and failed to find the words I sought
to bid farewell, though temporary.

Traduzione: Prime impressioni d’ottobre

Il fiume brunastro risplende nella
luce di lampioni ordinati in linea elegante.
La luna giace chiara dietro i verdi tetti.

L’illustre torre osserva dall’alto
i genitori che salutano e rinnovano il proprio amore
ai figli tutti elettrizzati, in attesa.

Il profumo di mia mamma si trattiene sulla giacca:
ho provato, fallendo, a trovare parole
di congedo, pur temporaneo.

 

 

 

The Oracle of Delphi

One man in his mid-twenties
one day set off to sea
and didn’t stop until he reached
the Oracle of Delphi.

He joined the queue and asked
how long he had to wait.
“Depends on what you’re waiting for”
Said the guardian at the gate.

The man glanced all around him:
the white shells on the sand
were little shiny vessels
sailed from a distant land.

The harbour seemed made out of gold
inlaid with shrubs and dates
(No wonder Phoebus had been drawn
to build there his estate!).

As he began to move up,
he noticed on his left
a stream of countless pilgrims
engaged in their descent.

Had they received their answers?
Nobody answered him.
“Keep going” said a voice “Don’t stare”:
the guardian’s tone was grim.

The man saw a light-veiled woman
holding hands with a boy.
“That’s Aphrodite and Eros”
(he thought) “Or she’s Helen of Troy!”.

“You’ll find someone to talk to
proceeding up your way.
Don’t bother them” the guardian cried,
but why, he didn’t say.

The man got back on his path
quite knackered by the heat;
a fountain was in front of him,
no more than sixty feet.

He found three restless ladies,
there, weaving on a loom.
They told him all that lives must die,
no one escapes his doom.

The man refused to listen
and left them, going on.
They shrugged and slowly whispered:
“You’ll sure come back along”.

He met a shabby poet
who taught him about love.
He said we always run towards
the ones that run from us.

The man refused to listen
and turned his head aside.
The poet shrugged and whispered:
“Oh how you’ll change your mind!”.

He met one of his school friends
who wanted him to stop.
But he said: “I’m so sorry mate:
I have to reach the top”.

He run into an old man
who asked him for some help;
he started to get nervous,
still helped him up the steps.

The old man was in uniform
and taught him about war.
He told him the whole world’s a mess,
too bad to be ignored.

The man refused to listen:
a gesture of his hand
wrapped up that conversation
and brought it to an end.

The old man shrugged and whispered:
“Why, don’t you care at all
how many have to suffer
how many live in thrall?”

The man was just excited:
the altar was in sight.
He took a breath, sped up his pace,
all trembling with delight.

He reached the top at sunset:
the others, they were gone.
He reached the top and realized
that he was there alone.

The sea far down beneath him
intensified its chant:
a grating roar of pebbles,
un undesired rant.

He’d left with many questions
– he’d really thought it through –
about what’s love and friendship
and what in life is true.

But on the Temple’s threshold
few syllables were slurred:
dazzled by the marble statues,
he couldn’t say a word.

He stood there for awhile
and asked, eventually:
“Will I be ever happy?”
– “At least pretend to be”.

He cried and plead the Oracle
to be a bit more clear.
But nothing else was uttered. T
he sun soon disappeared.

 

Traduzione (in prosa): L’oracolo di Delfi

Un uomo sui vent’anni partì per mare e viaggiò fino a raggiungere l’oracolo di Delfi.

Si mise in fila e chiese quanto ci fosse da aspettare. “Dipende da cosa sta aspettando” rispose il guardiano al cancello.

L’uomo si guardò attorno: le bianche conchiglie sulla sabbia sembravano piccoli vascelli luminosi salpati da terre lontane.

Il porto l’avresti detto fatto d’oro, intarsiato di arbusti e datteri (non c’è da stupirsi che proprio lì Febo avesse posto la sua dimora!).

Come iniziò a salire, notò sulla sinistra un flusso di innumerabili pellegrini impegnati a scendere.

Avevano ricevuto le loro risposte? Nessuno gli rispose. “Continui a camminare” disse una voce “non li fissi”: il tono del guardiano era severo.

L’uomo vide una donna coperta da un velo leggero che teneva per mano un bambino. “Sono Afrodite ed Eros” (pensò) “O lei è Elena di Troia!”.

“Troverà qualcuno con cui parlare procedendo per la sua strada. Non li disturbi” gridò il guardiano, ma non disse perché.

L’uomo riprese il cammino, piuttosto spossato dal caldo; di fronte a lui c’era una fontana, a una ventina di metri circa.

Trovò tre donne instancabili, lì, che filavano a un telaio. Gli dissero che tutto ciò che vive deve morire, nessuno sfugge al proprio destino.

L’uomo non volle ascoltare e le lasciò, andando avanti. Le donne scrollarono le spalle e lentamente sussurrarono: “Certo passerai di nuovo”.

Incontrò un poeta trasandato che gli parlò d’amore. Disse che corriamo sempre verso quelli che ci fuggono.

L’uomo non volle ascoltare e girò la testa dall’altra parte. Il poeta scrollò le spalle e sussurrò: “Cambierai idea un giorno!”.

Incontrò un amico di scuola che gli chiese di fermarsi, ma lui rispose: “Scusa amico mio, devo proprio arrivare in cima”.

S’imbatté in un vecchio che gli chiese di aiutarlo. Iniziò a perdere la pazienza, ma gli diede una mano a salire.

Il vecchio era in uniforme e gli parlò della guerra. Gli disse che il mondo era un casino, troppo mal messo per essere ignorato.

L’uomo non volle ascoltare: con un gesto della mano pose fine alla conversazione.

Il vecchio scrollò le spalle e sussurrò: “Ahimè, non ti importa proprio quanti vivono in sofferenza o schiavitù?”.

Ma l’uomo era semplicemente estasiato: all’orizzonte si vedeva già l’altare. Fece un respiro profondo e accelerò il passo, tutto tremante di gioia.

Raggiunse la cima al tramonto: gli altri se n’erano andati. Raggiunse la cima e si rese conto di essere lì da solo.

Lontano, sotto di lui, il mare intensificò il suo canto: un ruggito irritante di ciottoli, una predica indesiderata.

Era partito con molte domande – ci aveva pensato su per bene – su cosa siano l’amore, l’amicizia, e cosa ci sia di vero nella vita.

Ma sulla soglia del Tempio strascicò poche sillabe: ammagliato dalle statue di marmo, non riusciva a dire nulla.

Rimase lì fermo per un po’ e infine chiese: “Sarò mai felice?”. – “Almeno fingi di esserlo”.

Pianse e pregò l’oracolo di essere più specifico. Ma nient’altro fu detto. Presto si fece buio.

 

 

 

Gustave Febvre

Rémi sognava spesso di essere un uccello. Un grande albatro adagiato sul ponte di una nave. Un albatro goffo e brutto che si trascinava dietro come due pesanti remi le sue lunghe ali fradicie di brezza marina. Tutto l’equipaggio rideva di lui e i garzoni gli premevano, per gioco, una canna di fucile tra le piume. Piano piano, i loro volti divertiti iniziavano a deformarsi e a cambiare, assumendo la fisionomia di un vecchio che, ghignando compiaciuto, iniziava: «Ah la vita, Rémi, la vita, la vita…» e lo chiamava a sé con un gesto della mano, come a rivelargli un grande mistero. Con fare cerimonioso, gli porgeva un cofanetto di legno che aveva contenuto, un tempo, sigari o spezie. Rémi faceva per aprirlo e il sogno finiva.
Quel mattino si svegliò inquieto e stanco, per nulla riposato. Gli sembrava di aver dimenticato di fare qualcosa o di dover fare qualcosa di cui non si ricordava più. Infilò la mano sotto il cuscino e si rincuorò nel tastare la copertina rigida del libro che vi aveva fatto scivolare la sera prima, troppo assonnato per alzarsi e riporlo insieme agli altri sulla mensola accanto alla finestra. Si vestì con i primi bagliori del giorno che filtravano dalle tapparelle socchiuse, illuminando le invisibili danze della polvere sospesa nell’aria. Andò al lavoro molto presto – da vent’anni lavorava all’ufficio anagrafe del suo paese – e la mattinata trascorse tranquilla, tra registri di stato civile, carte d’identità e tessere elettorali. Poco prima di mezzogiorno, un uomo apparve allo sportello. Salutò con voce molto timida e sommessa, senza alzare lo sguardo da terra: «Mi chiamo Gustave Febvre, abito al numero 4 di via Maupassant. Vorrei cambiare la mia residenza». «Signor Febvre» rispose subito Rémi, col tono di chi spiega il proprio lavoro a un bambino, «avrebbe dovuto prendere un appuntamento. C’è tutta una pratica da aprire, lo sa come sono queste cose. Molte scartoffie da compilare, documenti da inserire nel fascicolo. Così, su due piedi, non si può proprio fare. Torni la settimana prossima. Io, nel frattempo, preparo il necessario e le faccio un elenco di ciò che deve portarmi per procedere». Pensò, a quel punto, di averlo congedato. Ma l’uomo restava immobile davanti allo sportello, fissandosi con imbarazzo le dita sottili e tremanti. C’era qualcosa di familiare in lui: Rémi era quasi sicuro di averlo già visto. Indossava un completo scuro: molto semplice, niente di straordinario, ma pulito ed elegante.
«Se fosse per me, signor Febvre» aggiunse Rémi, credendo di esser stato scortese, «scriverei tutto su un foglio di carta. Una copia a lei, una al Comune, e non se ne parla più. Ma, capisce bene, i moduli precompilati lasciano poco spazio all’inventiva… Dove intende trasferirsi? Qual è il nuovo indirizzo?». L’uomo si agitò e prese ad armeggiare col tappo di una penna. «Io questo…», esitava. «Io questo ancora non lo so». «Ma come!» esclamò Rémi sorpreso «Vuole cambiare il luogo di residenza e non sa ancora dove andrà ad abitare? Torni la settimana prossima, con calma. Magari ci ripensa». «No no, io parto sicuramente», rispose l’uomo con sincera umiltà, «Sono, per così dire, già in viaggio». Il volto pallido e angosciato sembrava nascondere un qualche segreto. «Parto e non torno più». Rémi lo guardava sbigottito. Non riusciva a ricordarsi dove potesse aver incontrato quell’uomo. I suoi occhi grigi e umidi gli ricordavano quelli di una

rana. «Purtroppo, ora come ora, non posso aiutarla, signor Febvre», concluse Rémi, dopo un altro momento di silenzio. L’uomo piegò il collo su un fianco, come quando un papavero, carico di piogge primaverili, reclina la propria corolla, lasciando cadere le foglie. Si mise in testa il cappello che aveva poggiato sul bancone e uscì senza dire una parola. “Un tipo strano”, borbottò tra sé e sé Rémi.
All’ora di pranzo aprì tutte le finestre dell’ufficio per far circolare l’aria. Era un giugno molto caldo e i ragazzi a zonzo per la piazza si rifugiavano nei bar a bere bibite fresche. Rémi, intontito dal canto delle cicale nel tepore del primo pomeriggio, riordinava svogliatamente l’archivio, quando fu colto da un pensiero che in parte lo turbò e in parte riaccese la curiosità suscitata in lui dall’uomo apparso allo sportello un paio d’ore prima. L’ufficio anagrafe era un piccolo stabile bianco sul retro dell’edificio principale del Comune. Dall’interno, la porta si apriva tranquillamente, ma per entrare bisognava suonare un campanello e attendere che l’impiegato di turno consentisse l’ingresso. Il signor Febvre non aveva suonato e Rémi non gli aveva aperto la porta. Pensò, scrollando le spalle, di averla chiusa male quand’era entrato la mattina. D’altronde, non poteva giurare di aver sentito lo scatto e, senza lo scatto, la porta sembrava chiusa, ma si apriva facilmente con una piccola spinta. Febvre. Gustave Febvre. Il nome l’aveva sentito di recente. Congedò quel pensiero e lavorò con grande concentrazione fino all’orario di chiusura.
Alle sei e mezza ascoltò, contandoli sottovoce, i rintocchi delle campane e si preparò per tornare a casa. Fuori dall’ufficio – Rémi trasalì per la sorpresa – trovò ad aspettarlo una donna piuttosto attraente, seppur di corporatura insolitamente robusta e virile. I capelli rossicci sparsi con finta sciatteria sulle spalle si gonfiavano del vento serale. Rémi s’inchinò rispettoso e passò oltre, notando di sfuggita che l’abito di pesante stoffa nera indossato dalla donna era senz’altro troppo caldo per quel giorno d’estate. Non aveva fatto dieci passi quando sentì una mano sfiorargli la spalla e un brivido gelido e pungente corrergli lungo la schiena e attraversargli le ossa. «Mi dica, è forse venuto da lei un certo signor Febvre oggi?» chiese la donna, scacciando una mosca che le si era posata sulla guancia. «È venuto, sì» rispose Rémi, sempre più confuso, «voleva cambiare residenza ma non ho potuto aiutarlo». «Vede, Rémi» proseguì la donna, senza mostrare particolare interesse per la sua risposta, come se continuasse una propria riflessione interiore, «a volte la gente si trova costretta a partire e non è affatto pronta, per cui si mette a vagare da un posto all’altro, incerta sul da farsi, come il nostro signor Febvre. Pensi che storia buffa. Mi dicono che il signor Febvre si è messo in viaggio: io faccio il mio lavoro – che, badi bene, non ha nulla di personale – e vado a prenderlo, ma non lo trovo da nessuna parte. Lo cerco per tutto il paese: dal tabaccaio, dal sarto, dal panettiere. Ma nessuno l’ha visto o sa dove possa essere. Poi mi viene in mente che il nostro amico è un uomo meticoloso e sicuramente, prima della sua partenza, avrà voluto sistemare le cose dal punto di vista burocratico. E guardi un po’: qui, infatti, c’è stato». S’interruppe pensierosa, si massaggiò la mascella ossuta e riprese con nuova sicurezza il proprio cammino. Rémi la seguì con lo sguardo fino a che fu tanto lontana che parve dissolversi nella luce opaca del tramonto. Si domandò se l’avesse vista davvero o avesse avuto una sorta di strana visione. Poi, d’un tratto, un terrore inaspettato gli intorpidì le gambe. Non aveva mai incontrato quella donna prima d’allora. Come poteva conoscere il suo nome? Era sicuro l’avesse chiamato “Rémi”.
Si trascinò stordito fino a casa. Viveva di fronte a una piccola piazza che dovette necessariamente attraversare. A qualche metro dal portone del suo palazzo, accanto a una gelateria affollata, si trovava una bacheca pubblica sulla quale l’amministrazione comunale appendeva, di tanto in tanto, locandine di vario genere. Rémi gettò, per abitudine, un’occhiata distratta e, di colpo, si fermò attonito, incapace di proseguire. Proprio lì, tra gli avvisi funebri, un volto pallido e dimesso guardava timidamente i passanti. Gustave Febvre, nato il 5 ottobre 1903, morto il 17 giugno 1989. Lo piangono la moglie adorata, i quattro figli, i nipoti… Rémi si strofinò gli occhi con gesto infantile… Il corteo sosterà per un ultimo saluto al numero 4 di via Maupassant.