Sonia Capparella - Racconti

Eri bella

Ed eri bella
Non per il tuo volto delicato
Ne per quel corpo che lasciava ammaliato
Non per la tua voce leggera
Ne per come ballavi, alla sera
Eri bella perché amavi
E soprattutto perché sognavi
Eri bella perché nell’anima avevi il fuoco
E perché brillavi, non poco
Eri bella per quel tuo sorriso
Che in un secondo apriva le porte del paradiso
Lo eri, è vero
Eri complicata
Un anima incasinata
Pensavi sempre troppo
Ma non eri un disco rotto
I tuoi pensieri suonavano di nota in nota
Ma ora, io lo sento
È come se il tuo fuoco si fosse per un momento spento
Eri bella perché eri vera
Come la bellezza della sera
Ma ora,
Ora sei un fiore nascosto al mondo
Nascosta per paura
Ma paura non devi avere mai
Eri bella, questo lo sai
Perché il coraggio non ti mancava mai
E io lo so che facile non è
Ma ti prenderò per mano
E ti porterò fuori dal buio con me.
Perché troppo rara sei per stare nascosta
E alle tue incertezze troverai risposta.
Sorgerà un nuovo giorno
E quel l’angelo sceso in terra
Farà ritorno.

 

 

 

Nuova vita

Le tue mani
toccavano i tasti del mio corpo
come un musicista esperto
suonava una melodia
che non sentivo da tempo
o che forse non si è mai sentita
note che riscaldano l’alba più fredda
e che offuscano il tramonto più bello
aria per i miei polmoni
in apnea da chissà quante lune
colore per le mie iridi
abituate a film muti e incolore
sabbia per i miei piedi+
abituati a camminar su cocci aguzzi
e, sopratutto, pace per il mio cuore
dal battito stanco
incosciente curatore
dal viso bianco
ha aiutato altri donando se stesso
gli è tornato poco più di un vuoto cesto
di belle parole
riposo per un curatore
che nelle notti stellate
dove si respira solo amore
vive di ballate

 

 

 

Pamplona

Siamo tutti matadores
in un mondo di tori
durante le corride
in una Pamplona affollata.
Ci avviciniamo alla morte
per poi sfuggirne,
con un giro su noi stessi
e gli ostacoli della vita
ci corrono incontro
sta a noi
prima dello scontro
esser il matador
oppure il toro.
O ancor meglio,
entrambi

 

 

 

Libera

Ma quanto buio ho dentro,
Talmente tanto che la mia anima dice non entro
A volte vorrebbe scappare
Vorrebbe volare
Nella valle dei miei pensieri
Quelli più veri,
Come questi stranieri
Vorrebbe salire
In barca e partire
Ma dove fuggire
In un mondo che ti reprime
Come questi ragazzi,
Vorrebbe volare in aria e librarsi,
Sopra le teste, sopra ogni promesse
Infrante
Come un viandante senza meta
Come un poeta, che con le rime
Della vita scala la salita.
Ho la rabbia che mi consuma,
Vorrei volare libera
Come fossi una piuma
E poi bruciare, per non sentire cosa la gente dice
Per poi risorgere dalla mie ceneri come la fenice
Per far capire al mondo chi ha davanti
Per quell’amore che ha lasciato solo rimpianti.
Vorrei solcare i mari,
Come i pirati,
E vedere quanti danni l’uomo è riuscito a fare
Sfiorare l’acqua, e vedere in ogni misero pezzo di plastica una condanna.
Ma come potrei parlare,
Se chiunque fa di tutto pur di tapparti le ali
Pur di non farti volare

 

 

 

Ugual sostanza

Ringrazio l’esistenza
Di chi ama non la forma
Ma la sostanza
Ringrazio chi ama
Senza colore
Senza corpo che fa distinzione
Ringrazio chi ricorda
E non dimentica
Quando l’amore non c’era
Su questa terra
Anni che dobbiamo ricordare
Per non lasciare andare
Anime di uomini e donne
Che un po’ di amore
Avrebbe potuto salvare
Ringrazio il sole che sorge
E che tramonta
La luna che con il suo bagliore
Da alla solitudine un po’ di sapore
Li ringrazio per la loro presenza
Nonostante gli uomini senza coscienza
Che non meritano salvezza.
E grazie a lui,
All’amore
Che dona alla vita
In questo mondo grigio
Ancora un po’ di colore.
Mi perdo
Nel suo bagliore.

 

 

 

Altalena

E non è la vita
L’incessante avanti e indietro
Tra la gioia e il dolore
Tra il bianco e nero e il colore
La continua ricerca di toccare il cielo
Come quando si sta
Su un altalena
E appena arrivo al punto più alto
E sento di poter conquistare il mondo
Un colpo d’aria
Mi fa tornare dov’ero
A terra, per poi andare indietro
E così via, senza sosta
E quando sono riuscita a scendere
Dalla costante della mia altalena
Ho visto la mia vita scorrere
Di fronte ai miei occhi sorpresi
Di capire che non è la vita a decidere per noi
Non è l’altalena che decide dove arrivare
Ma siamo noi che volendo, possiamo volare.

 

 

 

Amar se stessi

Mi son sempre chiesta
Cosa sia veramente l’amore
Come si possa, per un solo cuore
Sopportare così tanto dolore
Si, mi direte, l’amore non è solo questo
Ma tra un sorriso e un fremito fa parte del contesto
Amar se stessi resta la sfida più dura
E a volte può far paura
Amar se stessi è come crescere un fiore
Mentre per Amar gli altri basta armarsi di parole e passione
Per Amar se stessi bisogna avere vigore
Non importa quanto si soffra, quanto si voglia sprofondare in fondo a una fossa
Per Amar gli altri si ha sempre tempo
Ma il cuor mio da molto Non è contento
Ho imparato, tra un innaffiata e un’altra
Che per Amar se stessi ci vuole costanza
Parlando di me, io non ho mai avuto molto tempo
Come covid insegna dall’amar me stessa ho preso distanziamento
Mi era sembrata vita questa
Aver nelle mani solo le gesta
Fatte per chi non sa cos’ho nella testa
E mentre scrivo queste parole amare
Inizio a capire che forse mi potrei amare
Che forse potrei amare le sofferenze che ho passato
Perché hanno reso il mio fiore il più bello del prato
Perché la vita è questa
Essere la rosa che sopravvive alla tempesta
E che con i suoi petali e le sue spine
Sa essere giusta, ma anche gentile
Allora amati ti dico
Fa della tua anima un campo fiorito
Fa della tua vita un’epica impresa
Fa che nella mente tua la luce sia accesa
Corri a perdifiato nella valle della felicità
Che se non la cerchi tu, nessuno te la darà
Con il tuo fiore in mano, con petali e spine, entra in scena
Ama te stesso, vedrai che a fine spettacolo, ne sarà valsa la pena.

 

 

 

Acqua

E piove
Piove sulle speranze
Sulle sigarette accese
Sul fuoco delle nostre anime
Piove
Piove su libri aperti
Pagine piene di vita
Parole di poeti
Sentimenti repressi
Che sulla carta prendono vita
Piove sui nostri sogni
Sulle nostre speranze
Piove
Piove sulle nostre labbra
Unite a suggelar un amore
Forse perso
Forse ritrovato
Piove sui nostri occhi pieni di luce
Piove sulle nostre mani
Tese per trovare appiglio
E piove, infine
Sui nostri cuori
Eroi dell’epoca
Delle cose non dette
Piove
E quando finirà
Saremmo tutti più puri
Senza l’oscurità
Che questo mondo di apparenze
Cela con un sole fittizio
Ma siamo noi il nostro sole
E quando piove
Siamo lo spettacolo più bello
Senza barriere
Veri.

 

 

 

Io e te

Quando siam vicini
Mi piacerebbe capire
Dove finisco io
E dove inizi tu
Il nostro amor
Fa bruciar L’anime nostre
Scaldando un mondo
Ormai freddo
Gelido
E se sapessi
Dove finisco io
E dove inizi tu
Quando le nostre bocche
Si uniscono in un tenero bacio
Potrei dar significato al mondo
Che, ora che non lo so
Quando son vicina a te
Perde sostanza
Ci può esser un mondo senza inizio,
E senza fine?

 

 

 

Uno di noi

Ad Hope non era mai piaciuto il mare. La sabbia nei capelli, nei vestiti, il sale che le irritava gli occhi, il sole che le bruciava la pelle. Non aveva nessuna motivazione per andarci. I suoi amici la invitavano tutti i giorni, tutte le estati, ma lei aveva sempre rinunciato, usando una volta una scusa e una volta un’altra. Ogni tanto, durante le notti solitarie, si chiedeva cosa avesse di sbagliato, se questa sua avversione fosse normale, gli importava molto ciò che pensavano gli altri e spesso faceva cose che non gli andavano a genio, dopo tutto a quattordici anni non è facile capire certe cose, come rendersi conto che l’unica opinione importante è la propria. Quell’estate doveva essere la più felice a parer suo, le scuole medie erano finite e le si prospettava una vita da adulta, perché per lei le scuole superiori erano questo, un passaggio nel mondo dei grandi, niente più mamma che ti viene a prendere, niente più ricreazione in classe e molta più libertà, o almeno questo era quello che lei e i suoi amici credevano. L’ultimo giorno di scuola si salutarono con abbracci così forti da mozzare il fiato, promettendosi che nulla li avrebbe separati. Sappiamo tutti, però, che non si sarebbero più rincontrati, avrebbero preso scuole diverse e, purtroppo, chi si è visto si è visto. Loro però non lo sapevano e fantasticavano sui prossimi trent’anni in compagnia degli stessi amici. Durante quell’estate Hope ne perse tanti, di amici. Era strana, lo sapevano tutti, e nessuno era rimasto, nessuno si era sforzato per conoscerla, di capirla ed accettarla. A quattordici anni si pensa a divertirsi, non a capire chi è diverso da noi, sarebbe troppo complicato. Si pensa a trovare la ragazza per passare l’estate, o al fidanzato da mettere in mostra con le amiche, una come Hope passava in secondo piano. E lei ne soffriva, caspita quanto ci stava male. Quando i genitori litigavano e lei si chiudeva in bagno non aveva nessuno con cui parlare, non aveva un’amica da telefonare, rimaneva lì seduta con la sola compagnia di se stessa. Aveva una sorella, la chiamava tata; era robusta, con una folta chioma riccia e aveva un carattere estroverso. Il loro rapporto era iniziato proprio quell’estate. Tata prima di quel periodo era troppo grande per pensare alla sorella, ma quell’estate qualcosa cambiò. Andavano spesso al bar insieme, chiacchieravano e la sorella maggiore notò che Hope era molto più di ciò che sembrava. Sapeva esprimersi in un modo tutto suo, non badava troppo a quanto strane potessero sembrare le sue parole, non con lei. A loro piaceva cantare in motorino, avevano entrambe una splendida voce, ma erano troppo timide per dirlo a qualcuno se non a loro stesse. Hope, però, non era sola contro il mondo. Aveva un amico, si chiamava Andrea, e con lui condivideva tutto, o almeno ciò che si poteva raccontare. Il loro rapporto era magnifico, lui la convinse anche ad andare al mare, una volta. All’iniziò pensò solo a lamentarsi ma dopo un po’ riuscì anche a divertirsi. Per lei quell’amicizia era molto importante, troppo. Sapeva che qualcosa non tornava, i comportamenti di lui alle volte erano fin troppo affettuosi, si spingeva oltre quel filo sottile che separa l’amicizia da altro, da qualcosa di più potente e pericoloso, perché l’amore è l’arma più potente. L’amore ti fa dimenticare le peggiori malattie, per l’amore della libertà sono cessate le guerre e per l’amore verso il prossimo si sono salvate vite. Comunque, Hope non era stupida, ma sperava di sbagliarsi, anche se difficilmente lo faceva. Un giorno lui la baciò, e tutte le sue false speranze crollarono. Non si parlarono più. Lei tornò al mare, una sera di giugno, e riuscì ad apprezzarlo, l’arancione del sole che colorava l’acqua torbida nella quale i pesci nuotavano, incuranti della sua sofferenza.
La sofferenza, quella cosa che ti si attorciglia intorno al cuore e stringe, stringe fino a farti mancare il respiro e buttar fuori le lacrime, quel sentimento che purtroppo con l’amore va a pari passo. Lei amava il suo amico, ma non nel modo in cui lui amava lei, gli voleva troppo bene per fargli credere che il suo sentimento fosse corrisposto e così lo rifiutò. Soffrì tanto, ma per proteggere i cuori degli altri lo aveva sempre fatto, ascoltava tutti, anche quelli che parlavano con lei solo per sfogarsi. Chi la conosceva sapeva che lei era speciale ma tutti erano troppo orgogliosi per ammetterlo. Faceva suoi tutti i problemi, accumulava e accumulava, non curandosi che il carico la stava sovrastando. L’unica che trattava Hope con la consapevolezza che essa fosse speciale era la sorella, però nonostante ciò non glielo disse mai, anche se sapeva che lei lo era più di chiunque altro. Come gli altri amava parlare dei suoi problemi con Hope, era un’ottima ascoltatrice e diceva solo cose giuste, aveva sempre ragione e a molti questa cosa non piaceva per niente.
Hope tornò spesso al mare, le ricordava l’amicizia perduta, ma non si avvicinava troppo, rimaneva a quella distanza che ti permette di ammirarlo ma non di sentirlo. I suoi occhi percepivano tutto. Ogni piccola sfumatura di colore, ogni onda che si adagiava lenta e calma sugli scogli bianchi di salsedine. Due anziani che passeggiavo e irradiavano amore in quella zona tanto spoglia di affetti. Non andava molta gente in quel posto, l’acqua era sempre fredda e la sabbia troppo poca rispetto ai sassi, ma ad Hope piaceva, la faceva sentire a casa perché nessuno aveva saputo capire il suo potenziale come nessuno era riuscito a capire lei.
Passava ore ed ore a leggere sulla panchina in cima allo strapiombo che dava sul mare, dal quale vedeva tutto. Amava anche scrivere, una delle sue poesie recitava così:

Quanto tempo è passato
da quando il sole sulla mia pelle si è adagiato
i miei occhi non hanno più timore
di vedere nel mare il suo bagliore.
Ho superato verso di te l’ostilità,
se mai ti toccherò, chi lo sa.

Era arrivato il giorno del suo compleanno, il diciotto luglio, nulla la rendeva più felice del sentirsi importante, anche se solo per un giorno. La nonna, Rossana si chiamava, la accolse per prima, augurandole buon compleanno. Rossana era una signora trasandata, a lei importava poco ciò che pensavano gli altri, le bastava stare bene con se stessa. Fumava molto, nascondeva le stecche di sigarette ovunque, come se giocasse a trova il tesoro con i figli e chi le voleva bene, perché le nonna non poteva fumare, e farlo metteva la sua vita a rischio ogni giorno. Ma, come ho già detto, a lei piaceva stare bene, e per questo fumava fino alla ‘sazietà’ se di questo si può parlare.
Due giorni dopo la nonna, la notte, lamentava dei dolori di stomaco, semplice influenza diceva lei, ma tutti in quella casa sapevano che si trattava di altro. Rossana odiava i medici e gli ospedali, per la sua salute cagionevole ci aveva combattuto troppo a lungo. Quella notte, controvoglia e con l’aiuto dei suoi cari venne portata in ospedale. Hope sarebbe dovuta andare a trovarla l’indomani, ma un contrattempo rimandò la visita. Le dispiaceva non poter vedere la nonna ma si promise che ci sarebbe andata il giorno dopo, ‘c’è tempo’ pensava. Il ventidue luglio la madre di Hope tornò a casa prima dal lavoro, ad Hope e alla sorella parve molto strano, non tornava mai prima a casa. Entrò dalla porta con gli occhi lucidi e prima di aprir bocca avevano già capito. “Nonna se n’è andata”, disse. Le lacrime non cessavano, il bastone non risuonava più ad ogni passo nella casa e le stanze sembravano tutt’un tratto vuote. Rossana era una bella donna, ‘la più bella’ diceva il nonno di Hope. Raccontava che da giovani si giravano tutti a guardarla, era biondo scuro tinta, le donava, ma sarebbe stata bella con qualunque colore, era dotata di un sarcasmo e di una simpatia fuori dal comune.
Qualche giorno dopo, quando Hope ebbe la forza di uscire di casa, andò dal tabaccaio famoso in città per la sua poca attenzione nell’età delle persone a cui vendeva le sigarette. Hope era abbastanza alta da sembrare maggiorenne, o almeno sedicenne. Le comprò senza problemi. Si diresse a piedi alla sua panchina e ammirando il mare tirò la sua prima boccata di fumo. Appena tossì chiese al cielo: ‘nonna per questo mi hai lasciata?’, ma nessuno rispose, si udiva solo il rumore delle onde sugli scogli. Ne fumò due quel giorno e ne apprezzo l’effetto rilassante.
Quel giorno parlò al mare. Gli chiese quante anime avessero riversato in lui i loro problemi e quanti avessero trovato una soluzione, come risposta solo il canto dei gabbiani.

Passarono due settimane, il lutto era stato elaborato, il funerale fu triste, come tutti. Hope lesse il salmo, le piaceva leggere e sorrise al pensiero di pronunciare l’ultima lettura per la sua amata nonna.
Una mattina di metà agosto nella casa di Hope c’era un gran trambusto. “Perché?” vi chiederete.
I telegiornali locali avevano annunciato che tre sommozzatori della loro città avevano subito un incidente, due di loro erano gravi, uno purtroppo passato a miglior vita. Hope aveva uno zio, Giuseppe, detto Pino, e lui amava il mare e la pesca. I genitori avevano delle conoscenze, e quest’ultime riferirono alla madre di Hope che uno dei tre era proprio lo zio. Furono ore di terrore. E’ tremendo non sapere, l’ansia che ti consuma.
Lo zio morì quel giorno. Altro dolore, altre sigarette e altro mare. Non si possono contare le ore che Hope passò davanti al mare quei giorni, prima del funerale. Come la nonna aveva ceduto la vita per l’amore del fumo, lo zio l’aveva ceduta per amore del mare, per proteggerlo dalla sua stessa razza, Pino lottava contro l’inquinamento e ogni giorno andava a salvarlo, pulendolo e bonificandolo. Per lui il mare era l’essenza della vita, il polmone della terra e amava la sensazione che dava l’acqua sulla pelle. Si chiedeva come gli uomini, solo ospiti su questo mondo, potessero rovinarlo a tal punto da levargli la forza vitale, aveva visto talmente tanto orrore, dalla barriera corallina alla quale dei bei colori che aveva le rimaneva poco, e a tutti la flora marina incastrata nei loro rifiuti. Hope immaginò lo zio sorridere, perché non c’è morte più bella di quella avvenuta facendo ciò che si ama. Il funerale fu il più emozionante che il mondo abbia mai visto. Lo zio era un bell’uomo, riccioluto e abbronzato, aveva una moglie e due fantastiche figlie, aveva tanti amici e frequentava un club di moto, guidava un Harley Davidson. La cerimonia fu commovente e la chiesa era gremita. Quando uscirono dalla chiesa, la bara venne sistemata nell’auto al grido di ‘Pino uno di noi’. Hope pianse molto anche quel giorno, riversò sulle guance il dolore per la perdita dei suoi cari.
Il giorno dopo, all’alba, senza dirlo a nessuno, prese la bici ed andò alla scogliera. Si affacciò dal precipizio e penso di farla finita, troppo dolore per una ragazza di quattordici anni. Però ci ripenso, perché buttare la sua vita in un posto che non toccava da tempo?
Si spogliò sulla riva, i sassi che le graffiavano i piedi, e si buttò nell’acqua di quel mare che per tanto tempo aveva odiato.
Le parve di volare, che bella la sensazione che provava, le gocce che volavano nel cielo, pensava. Nuotò fino allo stremo, fino a che le ossa non divennero fuoco e fino a quando gli occhi bruciavano talmente tanto da rendere l’alba sfocata. Nuotò ancora, iniziò a capire perché a tutti piacesse così tanto. La natura è un posto così meraviglioso che a volte lo si da per scontato, ma Hope lo aveva toccato con mano ed iniziò a comprendere lo zio. Nuotò ancora e, arrivata fino alla boa, con il poco fiato che le rimaneva in corpo gridò : UNO DI NOI.

 

 

 

Storia di una ragazza che ama

Alle volte nella vita, che sia un anno in più o uno in meno, ci si trova di fronte a delle onde altissime, e ci chiediamo cosa possiamo fare per oltrepassarle, quando alla fine l’unica cosa da fare è buttarsi nella tempesta.

Nell’arco di una vita bisogna crogiolarsi nel dolore, farlo diventare parte di se stessi, senza allontanarlo, perché è lui che rende la nostra vita una sfida, una lotta per la felicità che non esisterebbe senza la tristezza.

E’ un modo contorto di vedere il trascorrere del tempo, ma se ci si riflette alla fine è questo ciò che conta.
Contano i sentimenti, le volte in cui ci si butta per terra, senza trovare un modo per tornare in piedi, senza trovare la luce in mezzo al buio, quella lucciola importante seppur minuscola, che ci fa trovare speranza.

 

 

1

C’era un ragazzo, lo chiameremo Jorge, e una ragazza, la chiameremo Sabrina, e questa è la loro storia.
Sabrina era una ragazza giovane ma di altri tempi, sapete una di quelle con i libri nell’anima e all’antica, che amano come i grandi e che soffrono allo stesso modo. Ma non era nata così; i vari lutti subiti, se così si può dire, i problemi della sua famiglia dei quali poi forse parleremo e il suo carattere più unico che raro, un miscuglio di altruismo, gentilezza e modestia, la rendevano un fiore raro che sboccia nelle foreste ancora non toccate dalla mano mortale dell’uomo. Lui invece era un ragazzo alla giornata, quasi tutto il contrario di lei, estroverso, moderno, alla mano, un ottimo oratore, anche se la sua infanzia turbolenta lo portò a commettere non pochi errori, ma per quelli c’è tempo.

I due si incontrarono quando nel cuore di Sabrina c’era un altro ragazzo, o almeno così credeva. La relazione tra i due ormai era finita, ma l’abitudine si sa gioca brutti scherzi. A qualsiasi età, soprattutto l’adolescenza ci si trova insieme a qualcuno solo per paure di rimanere soli, per il timore di non essere in grado a trovare un altro compagno di vita, quando alla fine non è necessario avere qualcuno al proprio fianco, soprattutto se prima degli altri diamo valore a noi stessi. Perché nella vita di ognuno di noi, al primo posto dobbiamo mettere la nostra anima, perché senza dare valore ad essa non potremmo mai dare valore alle altre. Quindi quando Sabrina vide Jorge entrare nel bar in cui lavorava, in lei scattò qualcosa. Non sapeva se era per gli occhi grandi, o per i ricci perfetti, o per le labbra carnose o ancora per quelle lentiggini, ma qualcosa smosse la pietra che aveva nel petto, facendole ritmare qualcosa che sembrava una musica, ma lei ancora non lo sapeva.

Lui, dopo essersi dichiarato, perché Jorge dopo la prima volta che la vide provò la medesima sensazione, ma non voleva immischiarsi in situazioni di coppia, sparì, per quanto poteva, dato che aveva iniziato a lavorare con lei. I due si ignorarono, ma sotto qualcosa c’era. Fu così che una sera, a una cena di lavoro, Sabrina si liberò del suo impegno, ed essendo finalmente single, arrivata a casa, dopo la cena alla quale Jorge era presente e aveva fatto finte di niente alla scoperta della notizia, gli chiese di parlare. Nemmeno dieci minuti dopo, tramite la posizione mandate da lei, Jorge arrivò a casa sua. Lei aveva il cuore a mille, come si dice nelle canzoni, e non provava una cosa del genere da tempo, molto tempo. Era come se un fiume in piena fosse sfociato nella sua anima, riempiendo di acqua fresca tutta quella monotonia alla quale era abituata. Parlarono molto e lei gli rivelò tutto sul suo passato, concedendosi a lui come mai aveva fatto con altri in una sola volta, lui invece rimase più sulle sue, ascoltandola e beandosi della sua voce che purtroppo così poco aveva udito. La parte più bella arrivò alla fine, i due si diedero un abbraccio che parve infinito, i cuori dei due battevano all’unisono e fu un momento colmo di passione, e quell’abbraccio fu l’epilogo di ogni loro incontro, fino a quando un giorno, al distaccarsi dall’abbraccio le loro labbra si sfiorarono, i loro occhi si incontrarono, il resto lo sa solo il paradiso.

Paradiso, sembra questo vero?
Un amore a prima vista, che ogni giorno cresceva di più, e a Sabrina questo sembrava, dopo anni di dolori un angelo le era corso in soccorso, e viveva quella storia con una spensieratezza che quasi non le si addiceva, certo aveva le sue ansie, le sue insicurezze, ma il suo amore le sovrastava tutte, o quasi. Jorge invece l’amava si, ma di lui parleremo dopo. Passarono mesi, i due progettavano viaggi e il futuro, che Sabrina iniziava a desiderare con lui.
Come ho già detto, Jorge invece era alla giornata, viveva gli attimi, e a Sabrina ciò scaturiva reazioni avverse: era sia contenta di avere al suo fianco qualcuno che la smuovesse dalla sua compostezza, ma bramava qualcuno che avesse le idee chiare, come le aveva lei, perché al suo fianco voleva chi avesse la voglia di proseguire il percorso che è la vita, con lei.

Lui di ciò aveva paura, aveva timore del futuro, lui che non sapeva nemmeno dove si trovava il presente, così Sabrina gli spiegò cosa intendesse:
-Io ora ho diciotto anni, se penso al futuro non so dirti se starò con te, con un altro, o da sola. L’unica cosa che so è che ad oggi desidero di affrontare il sentiero tortuoso della vita con te, finche i nostri cuori batteranno all’unisono, perché fino a quando c’è amore, c’è speranza. Io spero di poter trascorrere un tempo indefinito tra le tue braccia senza parlare di futuro, senza pensare al domani ma pensando che, qualunque sia il giorno, io lo vorrei passare con te.

Sabrina era questo, una poetessa nascosta dietro un viso giovane, e Jorge in fondo lo sapeva. Ma nonostante la profondità delle sue parole, lui l’ascoltò, ma non la sentì. Aveva questo problema, non sentiva le parole, non le assorbiva, ma le faceva passare sopra la sua pelle per poi lasciarle al vento. Sentire è fondamentale nella vita, è quella capacità che ti permette di interagire e apprendere da chi ti può dare. Se non si sente, non si cresce. Basti pensare a un figlio che ascolta le grida della madre, lui non sente cosa le dice, quindi molto probabilmente uscendo di casa ricommetterà gli stessi errori, se invece avesse sentito, si sarebbe fumato quella sigaretta in meno, o non avrebbe usato il telefono alla guida.
Su quest’ultimo punto Sabrina sapeva essere molto pesante. Lui non capiva il perché, lei glielo spiegò spesso. Suo cugino, una notte di molti anni prima, quando ancora i telefoni non erano un’appendice delle proprie mani, tornando da una serata in discoteca con quattro amici al seguito, chiuse gli occhi per una frazione di tempo talmente ridicola che vien da ridere se si pensa cosa gli è costata. Sbandò, e l’anima dei suoi amici volò in cielo, lui fu l’unico sopravvissuto.
Per questo Sabrina, ogni volta che vedeva Jorge usare il telefono, diventava una furia dell’inferno. Cercava di farglielo capire, ma lui non la sentiva.
Passarono una bella vacanza, la prima di lei. Andarono a Firenze, città d’incanto, dal centro storico che attirava Sabrina come nient’altro sapeva fare. Ci passarono quattro giorni, durante i quali fecero l’amore, respirarono amore e diffusero amore. Videro le cose più belle, e rimase sconvolta quando scoprì che lui, nonostante avesse già trascorso vacanze lì, non aveva mai visitato gli Uffizi, Uffici, come diceva lui. Fu uno spettacolo. Tornarono con un bagaglio di esperienza aggiunto, e ne furono felici.
Jorge amava stare con gli amici. Li considerava parte di se, ma anche con loro si apriva ben poco. Era un ragazzo a cui piaceva ben poco parlare di se, a detta sua preferiva che lo facessero gli altri. Era anche un ragazzo poco adatto alla vita da adulto, non per colpa sua, ma nemmeno dei genitori. Quando da piccoli, per un motivo o per un altro, non ci si abitua ad avere certi comportamenti, da grandi, o quando si inizia a crescere, quei comportamenti bisogna farli propri, e Jorge non aveva mai dovuto fare l’ uomo di casa, tengo a precisare che ciò fu dato dalle circostanze, quindi, quando si trovò a vivere da solo per seguire gli studi ad un’università vicina alla loro città, dopo i primi periodi di entusiasmo, nelle finte certezze di Jorge si iniziarono a formare alcune crepe. Intanto con Sabrina le cose andavano a gonfie vele, lei andava da lui quando poteva e lui faceva lo stesso, a lei quella piccola convivenza piaceva, finalmente poteva anche mettete in pratica il suo essere adulta; puliva, ordinava, cucinava e lo aiutava. All’inizio ad Jorge piacque molto la faccenda, ancora si trovava nella fase dell’entusiasmo, e cosa poteva esserci di meglio se non la propria ragazza al suo fianco che lo aiutava e coccolava?

Le coccole, argomento spinoso. A Sabrina piacevano molto, di ogni tipo, le piaceva sentirsi amata e desiderata. A Jorge piacevano, ma il minimo indispensabile, forse non aveva avuto carenze d’amore come Sabrina, che fin da piccola era grande. Forse era stato già coccolato, o forse l’amore gli ricordava quando le cose ancora andavano bene, a casa sua, prima che i suoi si lasciassero. Forse non voleva fare la fine dei propri genitori, che si erano amati da giovani, troppo giovani, e il loro fiore si trovò ad appassire prima del tempo. Jorge per questo non voleva ammettere l’amore immenso che provava per Sabrina, si limitava a dire ‘ti amo, non quanto tu ami me, ma ti amo’ e a lei questo bastava.
Con il tempo le crepe di Jorge divennero fratture.
Il piccolo nido di sicurezza che si era creato crollò, quando Sabrina un giorno le venne a fare una sorpresa e rimase da lui ben quattro giorni. All’inizio entrambi ne furono entusiasti, lei continuò ad esserlo per i giorni seguenti, ma per lui gli ultimi due furono i giorni della svolta. Negativa.

Ora parliamo di Jorge, lui era un ragazzo che aveva sempre voltato le pagine più difficoltose della sua vita senza nemmeno dargli una letta. E, al momento della difficoltà, allontanava tutto e tutti come si fa con le mosche in estate, come se fossero un fastidio. Così fece con Sabrina. Allontanò quella ragazza che tanto l’amava perché si sentiva oppresso, non da lei, ma dalla sua maturità, dal suo modo di affrontare la vita e i problemi. Prese tutte le crepe che aveva e le riempi con menzogne e scuse e quando arrivò il momento del crollo, la colpa fu data a Sabrina.

Quando si hanno più problemi da affrontare, che siano economici, scolastici o lavorativi, e non si è abituati ad affrontarli, si cerca di canalizzare il tutto in un’unica via, cercando di spazzare via il tutto con un colpo, ma purtroppo non si può fuggire dai problemi, loro tornano sempre indietro come un frisbee. E quel frisbee Jorge lo tirò addosso a Sabrina. La colpì in pieno volto e lei smise di piangere solo il giorno dopo.

Intanto Jorge era ancora più confuso, non sapeva che fare, il suo cervello era un intruglio di bene e male, caos e pace, e niente e nessuno sembrava capirlo. Lei però lo faceva sempre, lei capiva sempre tutti. Così la cercò, un paio di giorni più in la, confessando di aver sbagliato e chiedendo aiuto sottovoce, ma lei lo senti benissimo. Inizio a fargli molti discorsi.

Jorge utilizzava troppi però, e questo faceva infuriare Sabrina. Lei sapeva cosa diceva e sentirsi dire però la faceva sentire presa in giro.
Li abolì, i però. Un altro problema era la frase ‘io sono fatto così’. Quanto la odiava Sabrina quella frase dedicata a chi non era in grado di sudare per salvarsi dalla solitudine, detta da chi non voleva sforzarsi a levigare ciò che era il blocco irregolare di marmo della sua persona.
Sabrina gli disse che per prima cosa doveva lavorare su se stesso, e quante volte glielo disse. Per amare il prossimo, bisogna saper ascoltare la propria anima, bisogna sentire il battito del proprio cuore prima di posar la mano su un altro.
Il problema era che Jorge non sapeva come amare, e se lo faceva aveva il terrore intorno al cuore. Aveva il timore del fatto che la storia dei suoi si potesse ripetere, non credeva nel vero amore, in quello che ti fa battere il cuore anche quando vorresti morire, in quello che ti fa alzare il mattino anche quando non ne avresti motivo, in quello che ti fa alzare la testa e mandare a quel paese le difficoltà. Ma, paradossalmente, a lui quello serviva, non di riceverlo, ma di donarlo.

Passo una settimana e Jorge continuò ad ascoltare Sabrina senza sentirla.
Sette giorni dopo, Jorge le disse che voleva stare da solo.
Sabrina impazzì, cosa aveva fatto per meritarsi questo?
Passarono i giorni e lui dopo un po’ si fece sentire. Si incontrarono e Sabrina, con il cuore in pezzi, fece l’unica cosa che sapeva fare, amare ed aiutare chi aveva nel suo cuore:
-Jorge, tu non sei sbagliato, abbiamo l’età che abbiamo, il problema non è un amore finito, o una casa non pulita, i problemi sono ben altri. Tu devi ascoltarti, devi sentire quello che te stesso grida al mondo, devi lottare per la tua felicità. Non devi aver paura di fare ciò che ti rende felice, che sia con me o con altre ragazze. Devi cullarti nel tuo dolore e devi crescere grazie a lui. Nella vita sei tu che decidi se essere il matador o il toro, sei tu che decidi se comandare o essere comandato, ma se non sai gestire te stesso, non potrai mai gestire gli altri, devi capire chi sei, cosa vuoi e andarlo a prendere, tirando fuori coraggio e voglia di combattere per te stesso, per la tua felicità, non per me, io ormai non parlo più per me, ma per te stesso devi ordinare e placare la tempesta che regna nella tua mete e devi prendere le macerie e metterle da parte senza scordarti a osa ti hanno portato e cosa ti hanno insegnato.
Se mai mi hai amato, aggrappati a quel sentimento, perché lo hai sbattuto così infondo alla tua anima insieme alla tua sofferenza da farti credere che sia scomparso così nel nulla, ma l’amore non scompare.
Devi parlare dei tuoi problemi, perche solo parlando diventano reali, e solo essendo reali li puoi sconfiggere. Hai mai visto qualcuno sconfiggere l’aria?
Ne dubito, noi possiamo abbattere solo cosa è reale, cosa è quasi tangibile, come la tua paura del futuro, finche non la fai diventare così reale da poterla quasi toccare con mano non la supererai mai. Con me stai bene lo dici tu stesso, ma una vocina nel tuo cervello ti dice che io sono in più, che o voglio farti sudare quando a te piace star fresco. Devii mettere il silenzioso a quella vocina, come a tutte le altre vocine negative che incontrerai e sentirai nel resto della tua vita, non puoi permettere che esse prendano il sopravvento.
Devi voler esser felice, devi fare ciò che ti rende tale senza paura, senza timore. Non privarti mai di ciò che ami, che desideri e che ti fa star bene per paura di star male, che se non ti butti nel vuoto non inizierai mai a volare.

Il mio cuore
Come ali di colibrì
Batte forte
Penserò sempre agli occhi tuoi
Ma ora
Senza la certezza di vederli ancora.
Le rose
A volte sbocciano
A volte no
A volte non è stagione
O il sole per lei non è sorto.
Ma una rosa,
seppur ancor chiusa
rimane sempre
bella e dannata
come l’anima mia,
e forse,
anche per noi,
arriverà la primavera.

2

Sabrina era triste, cavolo, se lo era. Ma non un triste normale. A vederla sembrava quasi un anima perduta, come un cerbiatto che no trova più la madre, uccisa dai cacciatori. E come Bambi si teneva con tutte le forze sulle gambe tremolanti, cercando di dare spazio all’uomo che amava. Jorge questo le aveva chiesto, dopo avergli detto che ora non era amore ciò che provava, nemmeno lui sapeva ciò che provava, ma sapeva che rimanendo con lei nessuno dei due sarebbe stato felice. Le chiese di non farsi sentire, di non riempirgli la testa con tutte le sue lezioni di vita, e così fece. Ma quanto stava male lei, sentiva quel dolore lancinante al petto, che si irradiava all’addome, come quando non hai più ossigeno, dopo una corsa per arrivare primo alla meta o dopo un’apnea che ti brucia ogni molecola di ossigeno. Perché lui la faceva respirare, la portava fuori dal suo mondo cupo e grigio.