Excursus
In questo pomeriggio mi ritrovo qui a pensare.
Ma no che non è strano, credo sia più che naturale.
Penso a te che sei partito per un paese assai lontano,
avrai disfatto le valigie e ora ti aggiri piano piano
senza di me in mezzo a questo mondo disumano
che si regge per miracolo, sospeso tra rancore e odio.
Mi scopro a immaginare se ora qui ci fossi tu,
col pensiero rispolvero quel mondo che non c’è più.
All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:
sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.
Tra le nuvole della mente ti sento tornare,
mi vieni vicino, ma senza fare rumore.
Soltanto per potermi ancora ferire…
Prima di svanire.
Che fossimo diversi ormai era chiaro,
eppure nel buio trovavi sempre la mia mano,
nei tuoi giorni vuoti e tristi, sapevi che io c’ero,
se il lavoro non andava, paziente io ti sostenevo.
Adesso ciò che manca è tutto il nostro meglio.
Dannata malinconia a cui si paga sempre pegno.
Se solo fossi qui, questo ti chiederei:
una volta per tutte, cosa siamo stati noi?
All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:
sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.
Tra le nuvole della mente ti sento tornare,
mi vieni vicino, ma senza fare rumore.
Soltanto per potermi ancora ferire…
Prima di svanire.
Te lo ricordi noi soli a girare in motorino,
così liberi e leggeri che non serviva andar lontano.
E non era importante dove si andasse
bastava stare insieme, qualunque meta fosse.
Sia Londra, New York, o Tokyo e poi Praga,
o soltanto il bar all’angolo, infondo alla strada.
Anche seduti sull’erba a guardare il tramonto,
quanti sogni radiosi ci ispirava quel momento.
All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:
sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.
Tra le nuvole della mente ti sento tornare,
mi vieni vicino, ma senza fare rumore.
Soltanto per potermi ancora ferire…
Prima di svanire.
Dicevo: «Immagina un giorno, a diventare importanti…
Cazzo sarebbe bello, la faremmo a tutti quanti!»
Tu non rispondevi, avevi già capito
che non bastava per punire chi ci aveva giudicato.
Solo adesso lo capisco che in cima a quel pendio
la più ingenua di tutti alla fine ero io,
io che di mille illusioni mi dipingevo gli occhi
mentre il campanile in basso ci scandiva coi rintocchi.
All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:
sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.
Tra le nuvole della mente ti sento tornare,
mi vieni vicino, ma senza fare rumore.
Soltanto per potermi ancora ferire…
Prima di svanire.
Fantasticavo sul terreno che avrei recuperato,
ma non lo facevo per me stessa e questo mi ha fregato.
Lo so è triste stare fermi a guardare sempre indietro,
rimanere come scemi a fissare il passato
bloccati da catene di cui abbiamo noi la chiave,
ma non è possibile slegarsi senza la volontà di stare bene.
Arrivata a questo punto non mi resta che pensarti,
lanciare dubbi e rabbia al vento, e degli errori perdonarti.
All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:
sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.
Tra le nuvole della mente ti sento tornare,
mi vieni vicino, ma senza fare rumore.
Soltanto per potermi ancora ferire…
Prima di svanire.
L’universo in tasca
Non v’è distanza in realtà tra breve e infinito
son troppo simili, si sfiorano col dito.
«Fa lo stesso un ninnolo o l’intero cosmo
se ci metti passione», disse Erasmo.
A che serve poi rincorrer la grandezza
quand’è nella semplicità che sta la bellezza.
Aspiriamo ai pianeti, alle stelle e ai “per sempre”
ma poi godiamo dentro ai contorni di un fugace ventre.
Uno sguardo sotto al naso e uno all’orizzonte,
che differenza fa se c’è Beatrice o Caronte?
Tra un fazzoletto in tasca e una sonda sulla luna
conta se sei raffreddato o disperso nella bianca duna.
Il verbo del fiume
Di sotto rotola il fiume,
fido compagno di ogni passante,
sorretto da rocce stanche
e ammorbidite
da secoli di carezze.
Arduo è comprenderlo
nei suoi monologhi,
giacché il verbo suo fa rumore
quando soffia all’orecchio
o scalpita di rabbia.
Mi domando se si accorga di noi,
se osservi il mondo scorrergli ai margini.
Ed ora lo imploro
ché non cessi mai di narrare la storia
di mostrare la via
e segnare quel destino
che almeno a lui
è concesso di decidere.
Manifesto n° V
Ormai la verità è vaga quanto un velo
È una vela violentata dal vento più villano
Un boccale al vetriolo già mezzo vuotato
Un violino stonato da quando si è venduto
Un viale di voragini lungo il quale vagare
Farfalle rese vermi che ci vogliono divorare
Un vascello che vira per volere dei più vili
Che vogliono solo vincere le loro votazioni
Vanno in giro da ventriloqui a vendere chimere
In vino veritas adesso questo io vi voglio dire
Ciò che vi fan vedere non è foto del vero
Che tanto alla fine il vostro voto sarà vano
Deviato e poi sepolto da valanghe di vergogna
Da vagoni di gente viziata e vagabonda
Allora viva il bel paese della pizza, dei virtuosi
Degli storici vinili, dei volumi sì verbosi
Di Fellini, Genovese, Vianello e Veronesi
Dei testi impegnati e i versi più armoniosi
Della musica ch’è un vanto e ti scorre nelle vene
Di turista che va, turista che viene
Delle quote rosa forti, degli attori più villosi
Di santi, vespri e vigili del fuoco volenterosi
Di vespe per le strade, dei vestiti più stilosi
Di vulcani ventilati, vini pregiati e costosi
Di villaggi, borghi e arene, vere opere d’arte
Vette e paesaggi verdi, al bar le partite a carte
Venerdì l’aperitivo, vasche in centro a fare spese
Vassoi pieni di delizie, pasta al ragù bolognese
Ed ora voi vigliacchi giù le mani dal paese
Via le zampe da virtù, tesori e tasche ormai lese.
Un cielo di giada
Consumata è questa pelle
che sfianca pure il pianto nella sua discesa disperata.
Gli specchi tuoi infossati vedono un cielo di giada,
un mondo stravolto
ove ti nascondi da speranze mai nutrite.
Neve sulle fragole
e confetti dentro ai bagni
ti han condotta nel rifugio degli eccessi
dove sofferenze atroci si mascherano da gioie.
Giovinezza deturpata dalla sciabola del peccato
giacché di peccato si tratta
quando una bellezza viene distrutta.
I miei complimenti
A nessuno importa che io stia morendo
Che lanci messaggi anche se non parlo
Deformata da decenni di vento nucleare
La mia pelle è arida, non mi basta da bere
I miei amati figli sono a milioni imprigionati
Altri uccisi, mutilati, per diletto accecati
Gonfi di iniezioni, messi all’ingrasso tra gli stenti
Torturati da scienziati, a fare cavie sofferenti
Da troppo tempo a vostra madre voltate le spalle
Bramando fama e monete manco fossero stelle
Da rubare al cielo tossico e a palate accumulare
Ma davvero è importante per voi, più che respirare?
Mai stata la redenzione un vostro talento
E la compassione il vostro primo sentimento
Non cogliete i miei bengala, le mie grida d’aiuto
Stagioni rovesciate, uragani e terremoto
Se la scelta vostra è questa, io non potrò salvarvi
Né me stessa, né voi, tanto meno i vostri figli
Svaniranno anche le vostre azioni più decenti
Dopo a che saran serviti tutti i vostri esperimenti?
Dovrete dire addio a tutti i bei momenti
Alla bellezza, all’esistenza, ai leali sentimenti
Le forme peculiari, gli innumerevoli colori
Per sempre svaniranno grazie ai vostri bei lavori
Sedicenti umani che di umano hanno ben poco
Speranze e prospettive bruciate da un doloso fuoco
Alla fine un plauso a voi, i più “intelligenti”
Oramai io sto morendo… I miei complimenti.
L’aria dorata
L’aria dorata del pomeriggio
a graffiare i nostri contorni
par tutto un fiabesco miraggio
e noi due come bianchi unicorni.
Galleggiamo in un mare verde
è una domenica questa di quiete
ogni suono qua si disperde
tutto l’immenso a colmare ogni sete.
Lo spettacolo della natura
le magnolie a offrire profumo
voglio godermelo fino a che dura
ed ogni ansia e assillo frantumo.
Dentro al vimini sta la merenda
al riparo da insetti e dai raggi
e prima che la sera scenda
avremo finito i nostri assaggi.
Seduti sul pelo dell’erba
a spezzare il vento e la luce
il sapore di una fragola acerba
la primavera che sempre seduce.
Negli occhi il riflesso del cielo
parole amabili da sussurrare
forse dette un po’ a bruciapelo
finché ad esse ci lasciamo andare.
Detesto gli scrittori
Nacqui da uno scarabocchio su di un foglio spiegazzato
quella mattina grigia dentro un treno affollato
mentre tornava da un viaggio lungo e improvvisato
con la dignità a pezzi ed il morale acciaccato.
Mi diede occhi blu, capelli lunghi e neri
un carattere sensibile ma gesti un po severi.
Ora vivo tra le pagine di un libro scritto male
da una ragazza deprimente che si esprime da cane
e mi mette spesso in bocca grandi frasi d’amore
così banali e sdolcinate che fan quasi vomitare.
Quante ore alla finestra mi ha fatto rimanere
a mirare il sole, il cielo, e l’autunno sul viale.
Se penso a quante volte mi ha fatto litigare
se penso alle volte che mi ha fatto stare male.
Mi ha reso uno straccio quasi pronto da buttare.
Maledetta lei che quella penna fa agitare!
D’altronde di me stessa cosa ne dovrebbe fare
se non un grande specchio del suo ‘io’ più ancestrale.
Usarmi per rivivere un momento speciale
traumi antichi e paure nuove da sdemonizzare.
«Entra tu in quella stanza buia, tu che puoi morire.
Perché tanto se mi gira, in vita ti faccio tornare.»
Per stupire il lettore, farlo sobbalzare
mi rende preda dei peggiori che si possa immaginare.
Detesto gli scrittori, son talmente prepotenti!
Ti costringono a eroismo, sorrisini e grandi pianti,
a combattere i cattivi, inciampare e poi rialzarsi,
imparare dagli errori e alla fine ammalarsi
di malattie incurabili solo per afferrare
l’animo tanto sensibile di chi vuole ascoltare
storie simili alla propria, o proprio un’altra cosa
che faccia divagare il cuore dentro ad una prosa.
Ma io vorrei soltanto rimanere nel silenzio
ferma in un limbo come sotto effetto dell’assenzio
o farmi ammirare come una fotografia
e piantarla di scambiare la mia vita con la sua.
Se queste mie parole ora tu qui stai leggendo
ti chiedo un gran favore, aiutami tu a dirlo.
Tamburella sulla spalla della cara mia creatrice
dille che son stanca e non mi faccia più d’autrice
perché non riesco più, non ce la posso fare
a vivere al suo posto, a continuare.
Piccola mia, piccola me
Una stanza priva di muri
calma grande, assenza di colori.
Le sue piccole mani al petto
il visino spoglio e perfetto.
I tratti rotondi e delicati
come i miei, ma meno plasmati.
I suoi capelli fin sulle spalle,
su me più lunghi di due spanne.
Ma quei dolci occhi marroni
sempre soliti allietare cuori
ora mi fissano impauriti,
da antichi timori rivestiti.
M’inginocchio ai suoi piedi.
«Ora siamo alte uguale, vedi?»
Le dono un abbraccio leale,
che a lei tengo lo deve sapere.
«So che per te a volte è dura,
lo avverto quanto hai paura
ma credimi, non sarai sola
io di te mi prenderò cura.
Bloccherò il tempo, e sai
non dovrai crescere mai.
Conserverò la tua dolcezza,
l’innocenza, la tua purezza.»
Scruto il suo sguardo legnoso
ch’è tornato sereno e gioioso.
«Brava piccola stilla di sole,
resta sempre a brillarmi nel cuore
senza temere alcun temporale,
ché ti farò scudo da ogni dolore.»
Essere adulti questo vuol dire:
avere il coraggio di custodire,
di difendere e preservare
quel nostro lato interiore
ch’essendo bimbo risente di più
del veleno che mandiamo giù.
La via di fuga
Scampo non è concesso
dal desolato luogo di tormento
ove rovi e nera verdura
lume celano nel lamento.
Languente e irosa siede la bestia
con perle di sangue le zanne impregnate
e l’iridi sue incarognite di morte
segnano povere anime schiacciate.
L’erta fiera me fissando
che avara, di dolore è mai piena
fame di anime e sete di pianto
infligge terrore e sazia la pena.
Scolpito il guardo suo dorato
come faro in questo luogo senza sole
rabbioso e di sangue bagnato
tra lappole e spine lacera il cuore.
Poi, come il dì che spiove all’indomani
d’improvviso par tempo di miraggi
stille di luce calano piano e risplendono
nel cuor par gli occhi suoi selvaggi.
Insolita quiete, pace sublime
non più timore ma compassione
ché sollievo traggo dai raggi
mentre la belva giace in tribolazione.
Vive di male, rabbia e rancore
per essa ogni dolce ha il sapore dell’aceto
ma sono salva oramai da ogni rischio
giacché il perdono era il segreto.