Valentina Massetti - Poesie

Excursus

 

In questo pomeriggio mi ritrovo qui a pensare.

Ma no che non è strano, credo sia più che naturale.

Penso a te che sei partito per un paese assai lontano,

avrai disfatto le valigie e ora ti aggiri piano piano

senza di me in mezzo a questo mondo disumano

che si regge per miracolo, sospeso tra rancore e odio.

Mi scopro a immaginare se ora qui ci fossi tu,

col pensiero rispolvero quel mondo che non c’è più.

 

All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:

sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.

Tra le nuvole della mente ti sento tornare,

mi vieni vicino, ma senza fare rumore.

Soltanto per potermi ancora ferire…

Prima di svanire.

 

Che fossimo diversi ormai era chiaro,

eppure nel buio trovavi sempre la mia mano,

nei tuoi giorni vuoti e tristi, sapevi che io c’ero,

se il lavoro non andava, paziente io ti sostenevo.

Adesso ciò che manca è tutto il nostro meglio.

Dannata malinconia a cui si paga sempre pegno.

Se solo fossi qui, questo ti chiederei:

una volta per tutte, cosa siamo stati noi?

 

All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:

sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.

Tra le nuvole della mente ti sento tornare,

mi vieni vicino, ma senza fare rumore.

Soltanto per potermi ancora ferire…

Prima di svanire.

 

Te lo ricordi noi soli a girare in motorino,

così liberi e leggeri che non serviva andar lontano.

E non era importante dove si andasse

bastava stare insieme, qualunque meta fosse.

Sia Londra, New York, o Tokyo e poi Praga,

o soltanto il bar all’angolo, infondo alla strada.

Anche seduti sull’erba a guardare il tramonto,

quanti sogni radiosi ci ispirava quel momento.

 

All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:

sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.

Tra le nuvole della mente ti sento tornare,

mi vieni vicino, ma senza fare rumore.

Soltanto per potermi ancora ferire…

Prima di svanire.

 

Dicevo: «Immagina un giorno, a diventare importanti…

Cazzo sarebbe bello, la faremmo a tutti quanti!»

Tu non rispondevi, avevi già capito

che non bastava per punire chi ci aveva giudicato.

Solo adesso lo capisco che in cima a quel pendio

la più ingenua di tutti alla fine ero io,

io che di mille illusioni mi dipingevo gli occhi

mentre il campanile in basso ci scandiva coi rintocchi.

 

All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:

sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.

Tra le nuvole della mente ti sento tornare,

mi vieni vicino, ma senza fare rumore.

Soltanto per potermi ancora ferire…

Prima di svanire.

 

Fantasticavo sul terreno che avrei recuperato,

ma non lo facevo per me stessa e questo mi ha fregato.

Lo so è triste stare fermi a guardare sempre indietro,

rimanere come scemi a fissare il passato

bloccati da catene di cui abbiamo noi la chiave,

ma non è possibile slegarsi senza la volontà di stare bene.

Arrivata a questo punto non mi resta che pensarti,

lanciare dubbi e rabbia al vento, e degli errori perdonarti.

 

All’improvviso un ricordo… Un ricordo inizia a salire:

sei tu che sorridi ed il tuo sguardo di miele.

Tra le nuvole della mente ti sento tornare,

mi vieni vicino, ma senza fare rumore.

Soltanto per potermi ancora ferire…

Prima di svanire.



L’universo in tasca

 

Non v’è distanza in realtà tra breve e infinito

son troppo simili, si sfiorano col dito.

«Fa lo stesso un ninnolo o l’intero cosmo

se ci metti passione», disse Erasmo.

A che serve poi rincorrer la grandezza

quand’è nella semplicità che sta la bellezza.

Aspiriamo ai pianeti, alle stelle e ai “per sempre”

ma poi godiamo dentro ai contorni di un fugace ventre.

Uno sguardo sotto al naso e uno all’orizzonte,

che differenza fa se c’è Beatrice o Caronte?

Tra un fazzoletto in tasca e una sonda sulla luna

conta se sei raffreddato o disperso nella bianca duna.



Il verbo del fiume

 

Di sotto rotola il fiume,

fido compagno di ogni passante,

sorretto da rocce stanche

e ammorbidite

da secoli di carezze.

Arduo è comprenderlo

nei suoi monologhi,

giacché il verbo suo fa rumore

quando soffia all’orecchio

o scalpita di rabbia.

Mi domando se si accorga di noi,

se osservi il mondo scorrergli ai margini.

Ed ora lo imploro

ché non cessi mai di narrare la storia

di mostrare la via

e segnare quel destino

che almeno a lui

è concesso di decidere.



Manifesto n° V

 

Ormai la verità è vaga quanto un velo

È una vela violentata dal vento più villano

Un boccale al vetriolo già mezzo vuotato

Un violino stonato da quando si è venduto

Un viale di voragini lungo il quale vagare

Farfalle rese vermi che ci vogliono divorare

Un vascello che vira per volere dei più vili

Che vogliono solo vincere le loro votazioni

Vanno in giro da ventriloqui a vendere chimere

In vino veritas adesso questo io vi voglio dire

Ciò che vi fan vedere non è foto del vero

Che tanto alla fine il vostro voto sarà vano

Deviato e poi sepolto da valanghe di vergogna

Da vagoni di gente viziata e vagabonda

Allora viva il bel paese della pizza, dei virtuosi

Degli storici vinili, dei volumi sì verbosi

Di Fellini, Genovese, Vianello e Veronesi

Dei testi impegnati e i versi più armoniosi

Della musica ch’è un vanto e ti scorre nelle vene

Di turista che va, turista che viene

Delle quote rosa forti, degli attori più villosi

Di santi, vespri e vigili del fuoco volenterosi

Di vespe per le strade, dei vestiti più stilosi

Di vulcani ventilati, vini pregiati e costosi

Di villaggi, borghi e arene, vere opere d’arte

Vette e paesaggi verdi, al bar le partite a carte

Venerdì l’aperitivo, vasche in centro a fare spese

Vassoi pieni di delizie, pasta al ragù bolognese

Ed ora voi vigliacchi giù le mani dal paese

Via le zampe da virtù, tesori e tasche ormai lese.



Un cielo di giada

 

Consumata è questa pelle

che sfianca pure il pianto nella sua discesa disperata.

Gli specchi tuoi infossati vedono un cielo di giada,

un mondo stravolto

ove ti nascondi da speranze mai nutrite.

Neve sulle fragole

e confetti dentro ai bagni

ti han condotta nel rifugio degli eccessi

dove sofferenze atroci si mascherano da gioie.

Giovinezza deturpata dalla sciabola del peccato

giacché di peccato si tratta

quando una bellezza viene distrutta.



I miei complimenti

 

A nessuno importa che io stia morendo

Che lanci messaggi anche se non parlo

Deformata da decenni di vento nucleare

La mia pelle è arida, non mi basta da bere

I miei amati figli sono a milioni imprigionati

Altri uccisi, mutilati, per diletto accecati

Gonfi di iniezioni, messi all’ingrasso tra gli stenti

Torturati da scienziati, a fare cavie sofferenti

Da troppo tempo a vostra madre voltate le spalle

Bramando fama e monete manco fossero stelle

Da rubare al cielo tossico e a palate accumulare

Ma davvero è importante per voi, più che respirare?

Mai stata la redenzione un vostro talento

E la compassione il vostro primo sentimento

Non cogliete i miei bengala, le mie grida d’aiuto

Stagioni rovesciate, uragani e terremoto

Se la scelta vostra è questa, io non potrò salvarvi

Né me stessa, né voi, tanto meno i vostri figli

Svaniranno anche le vostre azioni più decenti

Dopo a che saran serviti tutti i vostri esperimenti?

Dovrete dire addio a tutti i bei momenti

Alla bellezza, all’esistenza, ai leali sentimenti

Le forme peculiari, gli innumerevoli colori

Per sempre svaniranno grazie ai vostri bei lavori

Sedicenti umani che di umano hanno ben poco

Speranze e prospettive bruciate da un doloso fuoco

Alla fine un plauso a voi, i più “intelligenti”

Oramai io sto morendo… I miei complimenti.



L’aria dorata

 

L’aria dorata del pomeriggio

a graffiare i nostri contorni

par tutto un fiabesco miraggio

e noi due come bianchi unicorni.

 

Galleggiamo in un mare verde

è una domenica questa di quiete

ogni suono qua si disperde

tutto l’immenso a colmare ogni sete.

 

Lo spettacolo della natura

le magnolie a offrire profumo

voglio godermelo fino a che dura

ed ogni ansia e assillo frantumo.

 

Dentro al vimini sta la merenda

al riparo da insetti e dai raggi

e prima che la sera scenda

avremo finito i nostri assaggi.

 

Seduti sul pelo dell’erba

a spezzare il vento e la luce

il sapore di una fragola acerba

la primavera che sempre seduce.

 

Negli occhi il riflesso del cielo

parole amabili da sussurrare

forse dette un po’ a bruciapelo

finché ad esse ci lasciamo andare.


Detesto gli scrittori

 

Nacqui da uno scarabocchio su di un foglio spiegazzato

quella mattina grigia dentro un treno affollato

mentre tornava da un viaggio lungo e improvvisato

con la dignità a pezzi ed il morale acciaccato.

Mi diede occhi blu, capelli lunghi e neri

un carattere sensibile ma gesti un po severi.

Ora vivo tra le pagine di un libro scritto male

da una ragazza deprimente che si esprime da cane

e mi mette spesso in bocca grandi frasi d’amore

così banali e sdolcinate che fan quasi vomitare.

Quante ore alla finestra mi ha fatto rimanere

a mirare il sole, il cielo, e l’autunno sul viale.

Se penso a quante volte mi ha fatto litigare

se penso alle volte che mi ha fatto stare male.

Mi ha reso uno straccio quasi pronto da buttare.

Maledetta lei che quella penna fa agitare!

D’altronde di me stessa cosa ne dovrebbe fare

se non un grande specchio del suo ‘io’ più ancestrale.

Usarmi per rivivere un momento speciale

traumi antichi e paure nuove da sdemonizzare.

«Entra tu in quella stanza buia, tu che puoi morire.

Perché tanto se mi gira, in vita ti faccio tornare.»

Per stupire il lettore, farlo sobbalzare

mi rende preda dei peggiori che si possa immaginare.

Detesto gli scrittori, son talmente prepotenti!

Ti costringono a eroismo, sorrisini e grandi pianti,

a combattere i cattivi, inciampare e poi rialzarsi,

imparare dagli errori e alla fine ammalarsi

di malattie incurabili solo per afferrare

l’animo tanto sensibile di chi vuole ascoltare

storie simili alla propria, o proprio un’altra cosa

che faccia divagare il cuore dentro ad una prosa.

Ma io vorrei soltanto rimanere nel silenzio

ferma in un limbo come sotto effetto dell’assenzio

o farmi ammirare come una fotografia

e piantarla di scambiare la mia vita con la sua.

Se queste mie parole ora tu qui stai leggendo

ti chiedo un gran favore, aiutami tu a dirlo.

Tamburella sulla spalla della cara mia creatrice

dille che son stanca e non mi faccia più d’autrice

perché non riesco più, non ce la posso fare

a vivere al suo posto, a continuare.


Piccola mia, piccola me

 

Una stanza priva di muri

calma grande, assenza di colori.

Le sue piccole mani al petto

il visino spoglio e perfetto.

I tratti rotondi e delicati

come i miei, ma meno plasmati.

I suoi capelli fin sulle spalle,

su me più lunghi di due spanne.

Ma quei dolci occhi marroni

sempre soliti allietare cuori

ora mi fissano impauriti,

da antichi timori rivestiti.

M’inginocchio ai suoi piedi.

«Ora siamo alte uguale, vedi?»

Le dono un abbraccio leale,

che a lei tengo lo deve sapere.

«So che per te a volte è dura,

lo avverto quanto hai paura

ma credimi, non sarai sola

io di te mi prenderò cura.

Bloccherò il tempo, e sai

non dovrai crescere mai.

Conserverò la tua dolcezza,

l’innocenza, la tua purezza.»

Scruto il suo sguardo legnoso

ch’è tornato sereno e gioioso.

«Brava piccola stilla di sole,

resta sempre a brillarmi nel cuore

senza temere alcun temporale,

ché ti farò scudo da ogni dolore.»

Essere adulti questo vuol dire:

avere il coraggio di custodire,

di difendere e preservare

quel nostro lato interiore

ch’essendo bimbo risente di più

del veleno che mandiamo giù.


La via di fuga

 

Scampo non è concesso

dal desolato luogo di tormento

ove rovi e nera verdura

lume celano nel lamento.

 

Languente e irosa siede la bestia

con perle di sangue le zanne impregnate

e l’iridi sue incarognite di morte

segnano povere anime schiacciate.

 

L’erta fiera me fissando

che avara, di dolore è mai piena

fame di anime e sete di pianto

infligge terrore e sazia la pena.

 

Scolpito il guardo suo dorato

come faro in questo luogo senza sole

rabbioso e di sangue bagnato

tra lappole e spine lacera il cuore.

 

Poi, come il dì che spiove all’indomani

d’improvviso par tempo di miraggi

stille di luce calano piano e risplendono

nel cuor par gli occhi suoi selvaggi.

 

Insolita quiete, pace sublime

non più timore ma compassione

ché sollievo traggo dai raggi

mentre la belva giace in tribolazione.

 

Vive di male, rabbia e rancore

per essa ogni dolce ha il sapore dell’aceto

ma sono salva oramai da ogni rischio

giacché il perdono era il segreto.