Vania Galassi - Poesie e Racconti

Dal  ROMANZO “ Il Sorriso della neve” INEDITO.

 

   Era  la Cruciana un luogo dimenticato dagli uomini, in cima ad un colle della catena degli Appennini che non so per quale strana associazione mi fece venire in mente il Golgota.  

   Forse perché quelle poche anime destinatevi, sembravano più dei poveri cristi morenti, che degli esseri umani con un futuro di fronte.                                                                                            

   Vi approdai  un giorno di gennaio insieme a due colleghi in visita ufficiale con il pretesto di osservare da vicino ciò per cui lavoravo.  

    Per giungervi si percorsero non so quante miglia di strada in salita. Il paesaggio attorno comunicava una sensazione di indefinito, di non deciso.   

    E così mi sorprendevo a riflettere se consideravo quei monti alte colline o montagne vere.

    Non c’erano gli ulivi e la quercia, la vegetazione tipica delle colline che conoscevo molto bene perché fra gli ulivi ero nata, ne’ d’altra parte prevalevano le rocce e quegli aspetti tipici di montagne vere e proprie.    

     Mentre ero immersa in queste riflessioni, la macchina improvvisamente virò a sinistra e si incamminò per una strada sterrata che dopo poche miglia sfociò come il letto di un fiume in secca, in un arido spiazzo che le acque sembravano aver abbandonato.

      Si intravedeva un recinto in legno che doveva delimitare la zona dalla quale era fatto divieto ai “selvaggi “ di uscire.

      Somigliava sì ad una sorta di riserva dove tenere a bada i non integrati del sistema, questi moderni indiani in cerca di libertà.

      Il loro guardiano, un ometto di mezza età, sembrava perfettamente a suo agio nel ruolo di piccolo dittatore che gli dava il potere di tenere sotto controllo la vita, anche se di poche anime.

      Lassù il tempo sembrava davvero essersi fermato: qualche baracca di legno per dormire, piccoli letti a castello, una baracca più grande per refettorio e poi vanghe picconi e pietre per costruire una lavanderia e una sartoria, tutto molto rudimentale.

      Cercai di saperne di più sulle usanze del luogo da qualcuno degli ospiti ma le bocche rimanevano ermeticamente chiuse.

      Solo durante l’ora di pranzo, quando fui chiamata a presentarmi ebbi un’improvvisa illuminazione.

       Dissi che stavo attraversando un periodo di crisi esistenziale e che volevo provare a vivere un’esperienza radicale in seno alla natura.

      Si guardarono increduli e stupefatti. Il capo stesso rimase allibito e si limitò ad elencare alcuni aspetti marginali di quel luogo come il freddo intenso nella stagione invernale, la mancanza di mezzi di trasporto, il dover percorrere diversi km a piedi per raggiungere la valle.

      Poi incaricò una delle ragazze di portarmi a far visitare le baracche.

      A custodia del reparto notte trovammo una donna alla quale era consentito il privilegio di dimorare in una roulotte tutta per lei, accuratamente arredata con tanto di tendine, tappeti, fiori alle finestre e persino il riscaldamento.

      Sicuramente doveva avere un ruolo di particolare rilievo nella comunità.

      Posi qualche domanda banale con tono dimesso, sforzandomi di apparire un po’ sciocca e superficiale, per mascherare i miei propositi dietro un paravento di dabbenaggine.

      Questo concesse alla donna la libertà di rivolgersi agli altri più spontaneamente, mettendo così in rilievo il loro ruolo di subalterni.

       Mi salutò repentinamente lasciandomi in compagnia dei futuri compagni di prigionia.

    – Sai, qui non c’è tempo per pensare- mi disse uno di loro – il mattino sveglia alle quattro, cinque minuti per lavarsi, dieci per la colazione, poi subito a lavoro. Pausa a mezzo- giorno per il pranzo, poi di nuovo a lavoro fino all’ora di cena. La sera entro le dieci si dorme. Non esiste niente altro. Se le regole non vengono rispettate, c’è il soggiorno a pane e acqua nell’ultima baracca, quella isolata dal resto del campo.  

       Qui si sopravvive o si muore. –    

       Mi condusse poi a visitare una sorta di fossa dove tre uomini o meglio tre fantasmi di uomini, uno solo pelle e ossa e solo con un paio di denti in bocca, l’altro zoppicante e il terzo con una brutta cicatrice sul volto, stavano scavando con mezzi rudimentali senza conoscere lo scopo del loro lavoro che li impegnava per ben sedici ore ogni giorno.

       Non riuscii nel momento a formulare nessun pensiero o considerazione.

       Nel frattempo era giunta l’ora di andarsene e mi affrettai a raggiungere i colleghi nella baracca principale. Il capo se ne era già andato. Li salutai uno ad uno e loro compresero che non sarei più tornata in quel luogo.

       In procinto di salire in macchina, sentendomi osservata mi voltai e il mio sguardo incrociò gli occhi azzurri di una delle ragazze che fino ad allora era rimasta in silenzio.

   – Mi chiamo Margherita – disse – ricordati di me.-

      Poi sorrise e in quel momento mi parve che l’azzurro di quegli occhi si dilatasse fino a congiungersi con l’azzurro del cielo e il sorriso si confondesse con il candore della neve.

      Sentii che avrei portato dentro di me la sensazione di quel sorriso anche se non riuscivo ancora a comprendere quale sarebbe stato il modo migliore per ricordarlo e far sì che la memoria di quanto lì  era vissuto non andasse perduta.

    Poi, per ultimo, si avvicinò la mia guida e mi strinse f.orte la mano.

    Lo guardai negli occhi e gli chiesi solo:

  – Come ti chiami?-

  – Cesare, rispose.-

   – Non ti dimenticherò- aggiunsi istintivamente.-

     Qualche tempo dopo, lo incontrai di nuovo, in città e vedendomi esterrefatta mi disse con

tono quasi divertito:

    – Sono fuggito -

      Ed io ancora più attonita:

    – Come hai fatto?-

     -Beh , è una storia un po’ complicata. Sono riuscito a simulare di essere in coma e mi

hanno portato all’ospedale. Da lì sono scappato ed eccomi qua! -

     – Come vivi?-

     – Dormo sui vagoni del treno, abbandonati, nei binari morti. Fa meno freddo che in

  baracca.-

       – E per mangiare?-

       – Chiedo l’elemosina, poi c’è la mensa dei poveri della parrocchia.

          Sorrise. Era finalmente sereno.

         


 

  POSSA IO

 

    Possa io

     riconoscere

     la Tua mano misericordiosa

     dall’Eterna Dimora accarezzarmi

     quando cadrò disattenta

     sul Sentiero che conduce alla Vetta

     Possa io

     scorgere

     il Tuo  Occhio vigile

     vegliare sul mio cuore

     nelle notti buie

     affinché l’ombra non oscuri la Luce.

     Possa io

     percepire

     la Tua Voce

     nel frastuono del mondo

     indicarmi

     la strada che conduce

     al richiamo di ogni agnello smarrito

     e dall’atemporalità

     discendere

     ancora umana

     per Essere

     di Te testimone.


ANNI DI STORIA

 

Anni di Storia

hanno raffinato

gli strumenti per la morte.

Non lasciano traccia apparente

in una lenta agonia

e se un cristiano

non può essere triste

Cristo lo è

e innalza al Cielo

il suo grido di dolore.

-Padre perché

mi hai abbandonato?-

E la Pietà ha lacrime

sul volto della  Madre.

-Rabbi -invocano i poeti.

L’ispirazione in croce

uccide

parola e verità,

i sogni si dileguano,

la vita langue

uccisa dalla logica.

- Gott mit huns-

ricorda il mio cuore

e l’anima soffoca.

Han stravolto pure la faccia

in una beffa feroce

e ridere con gli occhi

non è un gesto concesso.

Un cristiano

non può essere triste

ma a Cristo hanno tolto

il sorriso

e la coscienza

versi ammiccati                                                                                                        

parodia del dolore


 

    LUCE

 

    Non ci saranno

    altri altrove

    quando

    le pietre piangeranno

    l’assenza di asfodeli

    ed io

    assisa ad aspettare

    un Tuo ritorno

    nella quiete dell’ora siderale

    mi farò Luce

    che si confonde nell’acqua

    là dove il finito e l’infinito

    si congiungono.

    E sull’incresparsi delle onde

    volerà la mia essenza

    nel mormorio  delle Sirene

    che ti parrà la mia voce.

    Sarò corallo

    in fondo al mare.


 

  PARLA COSI’ LA VITA

    Parla cosi’ la vita

    nella terra arsa del deserto

    in quel lembo essenziale di cielo

    spiato

    dietro una finestra di tela semichiusa.

    Parla così la vita

    nelle mani screpolate

    dita nodose

    come rami generosi d’ulivo

    forti nell’operosità del dono.

    Parla così la vita

    nelle distanze percorse

    verso ignoti traguardi.

    Parla così la vita

    nell’attimo che non afferri

    quando tu sei l’attimo

    e non giudichi e non separi.

    Parla cosi’ la vita

    nell’umiltà

    del cammino di ogni giorno


 

    E CON AMICHE

  

 

     E con amiche

     le nostre mani soltanto

     il cuore palpitante

     di lacrime e pietà

     ci chiniamo a ricostruire

     lembi di esistenze offese

     caparbi eredi

     di tradizioni semplici

     e verità sepolte

     mentre

     nell’ora della resa

     unica resiste

     a rivestire il volto

     della sapienza del sorriso

     la levità del canto.


 

        AUTUNNO

  

     AUTUN NO  di popoli

     opache sequenze di attimi

     rubano oro di mimose

     a gelide primavere

                                     Danze di primule

                                     uccise da nuovi equatori

                                     precedono fiordalisi in fuga

                                     nell’acerbo del grano.

        Silenzio di nidi

                                 L’istrice piange

                                 la perdita di aculei-

             Lumache senza casa

             cercano IL VERDE di foglie

             fra i grattacieli.


SALI SULLA MIA CAROVANA

 

    O amico

    sali sulla mia carovana.

    Io vado verso la strada invisibile

    che attraversa il nadir

    i deserti

    le tundre

    le steppe sconfinate

    verso quel mondo perduto

    dove il Silenzio è sovrano.

    O amico sali,

    sali anche tu sulla mia carovana.

    Percorreremo solitudini

    attimi

    giorni

    secoli

    in un anelito verso l’eternità.

    O amico lascia

    affanni

    tristezza

    monotonia

    gesti ieri e oggi uguali

    sali con me

    sulla carovana verso la strada invisibile.

    Amico

    ho visto il buio incendiarsi di sole

    e i ghiacciai indorati dalla Luce

    dell’Alba.

    Amico vieni

    vieni anche tu

    in cammino per la strada invisibile

    dove il giorno e la notte sono amanti proibiti

    dove la vita ci attende nel cerchio infinito

    di un sogno immortale

    Amico

    vieni

    vieni anche tu sulla mia carovana                                               


 ESODO DAL SILENZIO

 

   Terre inesistenti

    l’esodo dal silenzio

    un vortice che approda

    al domani che fu.

    Un lontano ricordo

    il ritorno che ripete la vita

    ancora una volta incerta avventura

    di meraviglia già vista

    eppure ostinato reiterare

    il mistero esplorato

    che il cuore non si rassegna

    a sentire vetusto.

    Entusiasmo sottile

    artificio di fuoco

    non cosmica esplosione di luce.

    Domani

    saranno giorni perduti

    a rimpiangere

    il colore del tempo.


 

   LA VOCE DEL SIGNORE

 

       Qui dove l’essenza vive

      giungiamo soli

      all’imbrunire

      e si fa luce il pianto

      che nella notte ci accompagna.

      Un volo di lodolette poi

      annuncia il giorno.

      L’alba ci ritrova

      semplici spettatori della vita

      cullati dalla brezza del mattino

      con lo stormire delle acacie

      effluvio di altre sfere

      a rimembrare la voce del Signore.