Tratto dall’inedito

”Iko Atman”

Ushanas si recò sul pianeta Terra per poter osservare da vicino la sua condizione.

Camminò lungo uno stretto viottolo che connetteva una sottile striscia di spiaggia all’antro di una fitta e rigogliosa selva terrestre. Nonostante sollevasse i piedi, l’avanzare dei suoi passi rammentava quello dei serpenti.

Si fermò dinnanzi alla riva del mare che si presentava placido e cristallino, ma ogni singola goccia che lo componeva sembrava “strillare” a causa delle numerose particelle di petrolio che minacciavano prepotentemente la sua ormai contaminata purezza.

Ushanas la cui pelle era paragonabile ad una filigrana d’argento, voltò leggermente il viso e si diresse verso uno scuro scoglio su cui le onde marine s’infrangevano zampillando tutt’intorno.

Osservò l’immensa volta celeste, immerso nei propri pensieri.

Le nuvole si dissolsero sempre più lasciando trapelare l’intensa tonalità turchese del cielo che lo costrinse a socchiudere le palpebre. Percepì i roventi raggi solari di mezzo giorno penetrare ogni singolo poro ed irradiare di un immacolato alone dorato la sua pallida pelle.

Si sedette sullo scoglio e fissò quella mutevole superficie acquosa.

Una singola lacrima ricolma d’indicibile dolore, inumidì le lunghe ciglia mirtillo per poi sgorgare e rigarne il delicato volto.

Un’onda parve quasi aggrapparsi ad un lembo della sua veste immergendola in acqua e benché fosse zuppa, lui si limitò ad osservare la scena.

Dopo qualche minuto sfilò da una tasca interna dell’abito un piccolo pamphlet che aprì; conteneva una raccolta di poesie del celebre autore inglese William Blake. Una tra tante, ”I Canti dell’Innocenza”, lo aveva rapito nei secoli e quei profondi versi non intendevano sbiadire dalla sua memoria.

Cominciò la lettura scrutando a fondo sia con gli occhi che col pensiero ogni singola lettera che la componeva; trovava straordinario l’immane potenziale della mente umana, eppure…

“Perché queste creature non riescono ad utilizzarlo con armonia, equilibrio ed acume?” Si domandò tra sé e sé.

Una seconda onda s’infranse contro la roccia su cui sedeva, stavolta però gli schizzi d’acqua si andarono a posare su quelle parole capaci di scuotere e far vibrare il suo Animo.

Le gocce ingigantivano le lettere proprio come una lente d’ingrandimento. Alcune di loro si ruppero portando con sé alcune molecole d’inchiostro che colò lungo la pagina come un silenzioso pianto.

Richiuse il pamphlet ed immerse un’affusolata mano in acqua; da un graduale bagliore di luce fece capolino una piccola medusa violacea dai lunghi, eleganti e tubercolati tentacoli.

Si chinò lievemente per afferrare il fradicio lembo della veste. Immediatamente scorse una piccola quantità di petrolio annidata tra le fibre della stoffa. Corrugò le sopracciglia, strappò quel pezzo ormai lercio e stringendolo nel pugno di una mano lo dissolse.

Rivolse nuovamente le sue attenzioni alla piccola medusa; racchiuse quella nuova vita in una sorta di bolla mucosa e fissò per qualche istante l’immensa distesa d’acqua che in breve tempo si agitò generando una tempesta marina locale.

La creatura venne spinta a largo.

 

”Vedono, guardano, ma non osservano;

Odono, sentono, ma non ascoltano;

Insinuano, parlano, ma non comunicano;

Tingono, macchiano, ma non colorano;

Testano, assaggiano, ma non assaporano;

Sfiorano, ma non toccano;

Pensano, ma non riflettono;

Partono, ma non arrivano.

 

– “Tu sarai i miei occhi” Sussurrò.


Tratto dall’inedito

”Iko Atman”

 

La paziente eternità che dall’alto osserva, trasmuta e trascende gli scialbi e ristretti concetti di “Spazio” e “Tempo”.

 

…E la contaminazione s’infranse contro il nucleo della purezza che a sua volta rimase imperturbabile.

L’eco di quella gelida e persistente goccia d’acqua, portò in sè e con sè la grazia ed il calore di uno scarlatto scrigno; uno scrigno tanto accogliente quanto tagliente, custode dell’Esistenza.

Un solo sorso per placare una perenne tortura, figlia della stessa bramata fonte.

 

– ”Oh Ushanas, sei terribilmente noioso! Solo Tu avresti potuto creare un intero pianeta con al suo interno una sola ed unica creatura! Per poter meglio osservare il suo tormento, eh?!” Asserì qualcuno portandosi una livida mano sulla fronte, assottigliando lo sguardo e stringendo un pugno. I muscoli della mandibola si tesero come corde di violino sotto la fragile pelle che rivestiva uno scarno viso; il viso appartenente ad una creatura giunta a rinnegare persino il suo stesso nome.

– ”Osservare…Perchè mai dovresti perdere il Tuo tempo a guardare me?” La tonalità vocale, dapprima ironica e sprezzante, andò gradualmente a scemare fino a spegnersi in gola.

Sul volto si venne a dipingere una mesta e desolata espressione che tentò immediatamente di dissimulare scuotendo il capo e lasciandosi sfuggire un’amara risata colma di frustrazione mista ad un perverso diletto.

– ”E poi tra di noi non potrebbe mai funzionare no?! Del resto Tu l’hai affermato! Sono parole tue!” Ringhiò tra i denti. Tutto lì era fortemente impregnato delle sue energie; la dimensione stessa si era fusa con lui, o meglio, lui stesso era divenuto un tutt’uno con lei.

– ”Certo è che mai Ti scordi di rinnovare il nostro appuntamento! Anche questo faceva parte del Tuo calcolo, suppongo” Puntualizzò con sarcasmo e soffermandosi ad ascoltare le perpetue gocce cadere al suolo una dopo l’altra come fossero lacrime di piombo. Una seconda risata riempì il vuoto di quel cupo e vasto deserto di ghiaccio.

L’inquieta anima sedeva alla base di una robusta stalagmite; i glaciali minerali che la componevano ricordavano la Sua pelle.

L”’acre tanfo dell’oppressione” lo invase andandosi a sommare a quei rovinosi pensieri che già gli affollavano la mente.

Richiuse gli occhi per poi sollevarsi lentamente in piedi e muovere qualche passo.

– ”Ma sì, sai? In fondo non è che io mi trovi poi così male qui; sono il Re indiscusso!” Fece scivolare la mano destra contro una delle pareti che aveva contribuito a mantenerlo imprigionato in quel dannato ed esasperante luogo. Le lunghe unghie affilate penetrarono con prepotenza tra alcune crepe.

Il colore del suo incarnato, un ”opaco gigliato”, si specchiava nel ghiaccio ricordando quasi un’indefinita macchia d’inchiostro.

– ”E’ questione di equilibrio, sai? Beh, tieniti pure il tuo ridicolo equilibrio, io non so che farmene!” Gracchiò. Un cinabro rivolo di sangue fece capolino dalla manica destra del suo abito facendosi strada lungo il magro polso. Lo fissò inarcando un sopracciglio ed accelerando la camminata.

– ”Preferisco tenermi stretto il mio genio e ti dimostrerò come al tuo converrebbe temerlo, Signor Compostezza; vedremo se la calma ti sarà sufficiente!” Le stille avevano ormai dato origine a dei solchi sul suolo e fu proprio in uno di quelli che le rivide; quelle impenetrabili e fiere iridi di smeraldo, tanto fredde e pungenti, quanto melliflue e suadenti.

Quegli erano gli occhi di chi ha ”sfidato” l’eternità, di chi sta a cavallo tra la Vita e la Morte divenute ormai per lui un’elegante altalena su cui esegue un’armoniosa danza senza tempo; erano gli occhi di un insondabile Abisso che intona un soave canto d’Amore mentre abbraccia il suo inestinguibile e burrascoso Dolore.

Nella sua immensa dolcezza è una colata di miele che trattiene in sé e con sé, ma nel suo pungente gelo è uno sconfinato oceano le cui tumultuose onde travolgono, annegano, annientano e tormentano.

Lui è tanto complesso quanto il suo stesso disegno: un vorticoso cosmo senza inizio, né fine.

 

Sentendosi mancare l’aria, la creatura indietreggiò di qualche passo schiudendo lievemente la bocca quasi come avesse perso un battito per poi avanzare nuovamente deciso e “calpestare l’immagine” con un piede.

– “Custodisco la tua assenza tra le ceneri delle mie ossa…” Trascinò la frase in un confuso mormorio. Una leggera, ma incisiva brezza gli baciò la pelle facendolo rabbrividire. Si sentì percuotere da molteplici scosse che correvano efferate al suo interno per poi diradarsi come le onde del mare che a volte si portano via qualcosa lasciando in cambio uno straziante vuoto.

L’intera zona tremò producendo una serie di pericolosi scricchiolii che infransero la piccola ”culla” di ghiaccio a cui rivolse un irato e tormentato grido. La raggiunse immergendosi fino a mezzo busto nell’unico lago presente in quel pianeta e che ne proteggeva il contenuto, ossia un bellissimo e delicato fiore, disposto proprio al centro di quel che sembrava una sorta di ”isolotto”.  Ne osservò i colori ora così vicini, caldi, vivi e luminosi.  Affascinato ed addolorato al contempo, allungò una mano per tentare di afferrarlo, ma fallì nell’impresa a causa di una fitta corona di spine energetiche che lo respinse violentemente.

– ”Già, proprio come Te…” Un petalo abbandonò tutti gli altri cadendo come una silenziosa lacrima.

– “Ascoltami e preparati” Terminò con rigidità e determinazione.

L’ umore mutò nuovamente in un apparente ed agghiacciante quiete; su i suoi occhi balenò un metallico scintillio e le labbra si curvarono in un diabolico ghigno.

 

 

‘Ascoltami…’ Quella viscerale richiesta risuonò affiancandosi ad una sgradevole immagine riflessa nelle luminose e profonde iridi di Ushanas; Un’ossuta mano fuoriusciva dalla dimensione in cui era rimasta reclusa fino ad allora facendosi strada tramite ampie fenditure.

Su Sattva la neve non era come comunemente la si conosce; dal cielo piovevano piccoli e candidi petali che baciavano ogni elemento su cui andavano a posarsi, proprio come la rugiada nelle fredde mattinate invernali. Uno di loro però, si differenziava dagli altri; era di una vivace tonalità vermiglia e portava con sè un fresco aroma salmastro.

Volteggiò in aria per qualche secondo accompagnando la solitudine del luogo decantata dal vento, per poi adagiarsi sull’increspata superficie d’acqua ove Ushanas gettava lo sguardo, in piedi, dal ciglio di un precipizio, affiancato dalle sue due fedeli creature: Bodhi e Moksha.

L’acqua cristallizzò divenendo come il meraviglioso ”corallium rubrum” presente su Gaia. Gaia che Lui tanto amava.

‘Il sigillo è stato spezzato”.  Mormorò.

Una crepa attraversò metà del ceramico viso riflesso sull’enorme “specchio” salato, seguendo l’affermazione.


Red Queen

 

C’era una volta un infante che viveva nei pressi di una graziosa  villetta in campagna ove la vegetazione era fitta e rigogliosa.
Quell’ameno luogo si differenziava assai dal cittadino ambiente in cui le auto sfrecciavano disperdendo nell’aria nauseabonde cortine di fumo.
Le persone ostentavano vacui e piatti sguardi, quasi vitrei, come se tutto ciò che osassero osservare, fosse l’asfalto che succedeva i loro piedi.
Ogni mattino il bambino si recava a scuola dove incontrava gli altri suoi compagni di classe; tutti loro giocavano, ridevano ignari ed infantili, com’era giusto che fossero. Tuttavia, persino nei loro briosi sorrisi, il fanciullo scorgeva delle
aride superfici desertiche accompagnate a movenze terribilmente ”meccaniche”; quelle instillate da una realtà tanto più costruita ed assurda di un qualunque altro sogno spezzato e sfibrato dagli albori in nome di una libertà in catene che di fatto Libertà non è.

Ognuno sembrava vivere nel superfluo; ognuno ”incubava” all’interno delle proprie palpebre una miriade di sabbiosi granellini.
Una volta rincasato, il bambino attendeva che il cielo divenisse plumbeo e minacciasse un furioso temporale in grado di squarciare il cielo lasciando un’enorme ”cicatrice” da cui numerose goccioline d’acqua avrebbero preso a scrosciare sul terreno, efferate e capricciose.
Quando questo avveniva, il bambino varcava la soglia della porta di casa e accovacciandosi sui freddi gradini della veranda, fissava il vuoto per potervi scorgere la pioggia che altrimenti sarebbe rimasta celata nella sua naturale trasparenza.
Egli rimaneva affascinato dall’istantaneo bagliore prodotto dal lampo, ma al sopraggiungere del tuono, l’emozione cresceva
ulteriormente. Quel boato risuonava e vibrava in ogni dove trasmettendo a sua volta al fanciullo delle piacevoli scosse adrenaliniche che lo attraversavano dall’alluce del piccolo piedino scalzo, sino alla punta dei suoi soffici capelli corvini.
Di fronte a tale sensazione il suo cuore si riempiva di quiete e di malinconia contemporanee.
Stando in religioso silenzio, in modo tale da non sfatare quella magica ed incantata atmosfera, attendeva.
Nel momento in cui ” lo sfogo del cielo” giungeva al termine, si domandava che fine facessero tutte quelle gocce d’acqua.
Era però a conoscenza dell’esistenza di uno speciale scrigno capace di conservarle e stringerle a sé.

Si trattava di una splendida rosa rossa che si ergeva verso l’alto tra la verdeggiante erbetta del giardino.
Il bambino si dirigeva verso il meraviglioso fiore, si chinava su di lui e sorrideva nell’osservarlo.
Non si spiegava come un cotale piccolo “arnese” potesse racchiudere tanto.
Si era sempre chiesto cosa mai si celasse dentro quel complesso e maestoso labirinto.
La rosa è il simbolo del segreto, delle cose da non rivelare o da trattare con la massima discrezione.
Osservava quei petali sovrapposti in modo concentrico e raccolti in un centrale bocciolo come fosse appunto un piccolo scrigno la cui serratura mai deve essere forzata.
Di una cosa il fanciullo era certo; quell’amena meraviglia terrestre influiva piacevolmente sulla bellezza e sulla sensibilità interiore e così, mentre altri preferivano riunirsi presso rumorosi e comuni luoghi pubblici, egli rimaneva in compagnia di un qualcosa immerso nel silenzio, ma che in esso esprimeva mille parole. Non avrebbe perso il suo tempo a giudicare a priori; sarebbe solo rimasto lì a proteggere le sue preziose gemme in un ”artico abbraccio” rispetto a quello ”tropicale” di un essere umano, invero, ma incapace davvero di tradire e capace realmente di proteggere.