LA FRONTIERA

(racconto di una storia vera)

Non ci siamo accorti con quanta facilità e senza sentire niente l’ aereo è atterrato sulla pista del nuovo e moderno aeroporto di Lubiana in Slovenia. Eravamo partiti da Tirana, da una vecchia pista, dove il rumore delle ruote faceva tremare l’ aereo come fosse muovendo sui sassi. Le mie due figlie (una di 7 e l’altra 12 anni) hanno avuto paura e si sono strette alle mie braccia. Era il loro primo trauma in questo cammino verso un destino sconosciuto. Stavamo per emigrare in Italia. La nostra destinazione, la città di Bologna, dove mia moglie era arrivata tre mesi fa. Ero riuscito ad avere un visto presso l’ambasciata italiana a Tirana. Nella metà degli anni ’90 chi poteva avere un visto per fuggire dalla oscura realtà di Albania, veniva considerato molto fortunato.
Io avevo un passaporto di servizio che mi facilitava la procedura alla confine di stato per entrare in Italia. La vera difficoltà per unire tutta la famiglia a Bologna, consisteva nell’ età minorenne delle mie figlie. Loro non erano in grado di capire l’importanza del problema, il dramma dei quei momenti. Tante tragedie erano accadute con intere famiglie albanesi durante i pericolosi viaggi in gommone verso Italia. Da parte loro questo viaggio veniva semplicemente vissuto come un’avventura e l’Italia era un sogno, perché guardavano sempre i programmi dei canali televisivi italiani.
Tre mesi mi ero occupato alla preparazione in tutti i dettagli di quel viaggio, perché non volevo rischiare la vita delle mie bimbe. Alla fine ho scelto l’ unica versione con meno pericoli: Viaggiare in aereo fino a Lubiana, poi raggiungere la città di Gorizia, dove una rete di albanesi e sloveni si occupava di questo tipo di traffico di persone. Durante il viaggio in aereo non avevo dato importanza ad una persona che due o tre volte era passato vicino ai nostri posti in aero con uno sguardo un po’ strano. Quando siamo scesi dal’ aereo lui ci ha accompagnati da un’ auto che ci aspettava. Durante il viaggio, dove la strada percorreva in un verde intenso e bellissimo, i nostri accompagnatori parlavano in croato. Comunicavano al telefono con qualcuno a Gorizia. Io capivo abbastanza questa lingua, però sono stato zitto per tutto il viaggio di 100 chilometri circa. Dai loro discorsi capii che sarebbero stati due sloveni a realizzare il nostro tragitto verso Italia. Uno avrebbe accompagnato me in taxi tramite dogana, l’altro invece dovrebbe accompagnare mie figlie in un sentiero conosciuto da parte loro. Mentre la persona misteriosa doveva proseguire per Belluno dopo la frontiera.
Erano le 9 di sera quando arrivammo nella città di Gorizia, metà slovena e metà italiana. Era luglio e c’era ancora tanta luce. Dovevamo aspettare due ore perché scendesse il buio. Arrivò il momento di transizione. L’ autista sloveno mi disse che dovevamo partire in taxi, mentre le bimbe li avrebbe accompagnate il suo collega. Mi disse stare tranquillo, perché tutto sarebbe andato a buon fine. Le bimbe dovevano attraversare un viale di 200 metri, sotto gli alberi dei tigli. Mi è sembrato un po’ troppo facile quel passaggio, però pensai che loro vivevano di questo tipi di traffico.
Quando salutai le bimbe, la più piccola si mise a piangere.
-Papà, non lasciarci per favore, questi ci rapineranno,- strillava disperata.
-La sentiranno le guardie di frontiera e tutto fallirà, – disse uno di loro, molto preoccupato. Per favore zittisca sua figlia, altrimenti tornate indietro. Dissi alla ragazza che non doveva piangere, se no, il sogno italiano finiva a quel momento. Lei fecce sforzo di fermare il pianto, ma non le lacrime. Il suo sguardo in quel momento assomigliava allo sguardo di colui che sta aspettando l’esecuzione. La figlia più grande cercava di stare tranquilla, ma il terrore nei suoi occhi era evidente.
Sentii tremore in tutto il corpo. Ma finsi di essere coraggioso e dissi ad alta voce: Partiamo!… Ma non ebbi il coraggio di voltarmi per guardare le mie figlie negli occhi. Altrimenti sarei tornato subito dietro, mandando tutto al diavolo.
L’ autista mi guardava tramite lo specchio retrovisore e cercava tranquillizzarmi dicendomi che sicuramente le ragazze sarebbe arrivate al punto di ritrovamento prima di noi.
Ma quando siamo arrivati, non c’era nessuno. La persona enigmatica scambio uno sguardo con l’ autista, ma rimase in silenzio.
-Perché non è arrivato il suo collega con le ragazze? – chiesi allarmato.
-Forse c’ è stato un piccolo problema, ma non si preoccupi, – rispose lui. Non mi sembrava cosi tranquillo.
-Lei conosce queste persone? – domandai alla persona misteriosa. Parlai in albanese, perché lui era albanese.
-Li conosco, ma io non ho niente a che fare con il loro lavoro, – disse. –Io voglio semplicemente proseguire per Belluno, dove ho la mia famiglia.
I minuti passavano ed io guardavo l’orologio. Ogni battito delle lancette suonava nel mio cervello come il campanello d’allarme. L’ autista sloveno stava parlando al telefono con quelli che erano rimasti dal altra parte della frontiera.
-Bisogna aspettare ancora. Abbi pazienza. Le guardie di frontiera si sono fermate proprio in mezzo del viale e stanno chiacchierando fra loro. Fra un po’ andranno a pattugliare altri luoghi, – mi spiegò.
Ma la mia preoccupazione crescente e il sospetto prendevano enormi dimensioni. Pensavo che loro volevano semplicemente guadagnare tempo per allontanare più possibile le ragazze per non lasciarmi nessuna possibilità di ritrovarle.
-Mi passa al telefono il vostro amico albanese che sta dal altra parte,- dissi molto seccato al’ autista.
Egli esitò per un momento. Poi parlò con qualcuno e mi allungò il telefono.
-Cosa succede?!!! -urlai. Due tre passanti per strada mi guardarono. Ma io continuavo a urlare.
-Per favore stia tranquillo. Si tratta di un piccolo imprevisto. Siamo solo un po’ in ritardo, ma le ragazze arriveranno,- disse lui.
-Fammi parlare al telefono con la mia figlia più grande,- chiesi. Almeno volevo essere sicuro che mie figlie erano in attesa e avrei anche capito qualcosa dalla voce di mia figlia.
La ragazza sembrava calma al telefono e ha confermato le stesse cose che hanno detto loro. Feci del tutto di non sembrarmi allarmato per non trasmettere anche a loro la mia preoccupazione.
Un ora dopo i miei nervi non tenevano più. Mi avvicinai allo sloveno e con tono minaccioso li dissi:
-Io aspettato altri 5 minuti. Poi andrò in caserma dei carabinieri, denuncerò me stesso e anche voi. Forse finirò in prigione insieme a voi, ma non voglio perdere le mie figlie.
Lui si allarmò. Prese il telefono e cominciò a parlare con l’ altra parte in croato: “To je kuçkin sin” (questo è un figlio di puttana) e spiegò la mia minaccia.
-Passate al punto di ritrovo di riserva,- ordinarono dal altra parte.
Siamo saliti in macchina lasciando dietro la zona abitata. Alla luce della luna piena, che mi sembrava pallida come un morto, passavamo attraverso un sentiero di palude, pieno di canne e cespugli che diventavano sempre più fitte
Questi vogliono eliminarmi fisicamente, pensai. Appena la macchina si fermò, saltai fuori, allontanandomi una decina di metri. Da lì cominciai a urlare alo sloveno, ma anche al albanese, dicendo che la questione non finiva lì. Le mie grida li preoccuparono ancora di più, perché non lontano si sentivano le voci delle guardie di frontiera. Questo mi incoraggiava.
Un’ altra ora di attesa. Chiesi al albanese, di parlare con i suoi amici dal altra parte e riferire che la mia gente a Tirana li conosceva. Se le ragazze non arrivano a destinazione, saranno i miei uomini a prendere provvedimenti nei loro confronti.
-Passate di nuovo nel punto in cui eravate prima. Le ragazze sono partite, – dissero.. Siamo tornati lì, ma ho continuato a mantenere una certa distanza da queste persone. In un attimo lo sloveno mi si avvicina e dice: – Ecco, stanno arrivando.
Un uomo si avvicinava tenendo per mano due creature.
-Quelle non sono le mie figlie. Loro erano vestite di bianco, queste sono vestite di nero, – li dissi.
– Le hanno vestite così per non farle vedere,- spiego lui.

Lo sloveno che portò le ragazze, le ha spinte nella sedia posteriore della macchina, chiudendo subito lo sportello e l’ autista partii come un razzo. Fui convinto che erano le mie figlie solo quando sentii la voce della piccola che mi chiese: – Papà, siamo in Italia? – -Si, tesoro, siamo in Italia. Baciai i suoi capelli e me ne accorsi della mancanza del fiocco bianco regalato dalla sua nonna. Glielo avevano tolto e buttato sul erba, proprio nella frontiera. Sentii mancarmi il fiato.
-Ho una sete terribile, si fermi in un bar,-dissi al autista. Appena si fermò corsi al bar e in un attimo feci scollare una bottiglia di acqua di 1,5 litri. Poi, mentre stavo per uscire mi trovai davanti a uno specchio. Mi spaventai. Non mi riconoscevo più. In due ore i miei capelli erano diventati grigi. Sembra incredibile, ma nei 5 anni successivi non ebbi tanti capelli grigi quanto in quelle due ore di attesa alla frontiera.
Mentre io pensavo a quelle due terribile ore, le ragazze si addormentarono. Era iniziata la vita da emigranti.

Ndue Lazri


AL SEMAFORO

Il mio amico, senza nome. Ti vedevo tutte le mattine allo stesso semaforo in uno dei viali di Bologna. Vestito di stracci, con un vecchio cappello in mano, ti avvicinavi alle macchine appena il semaforo diventava rosso. Con un sorriso allungavi il tuo cappello per avere qualche centesimo in elemosina. Zoppicavi a fatica per raggiungere più macchine possibile in quel intervallo di tempo prima che il semaforo diventasse verde ed il fiume delle auto cominciasse a correre. Mi capitava di essere un po’ lontano da te quando scattava il verde, ma io rallentavo avvicinandomi a te, mentre quelli dietro mi suonavano arrabbiati e qualcuno addirittura mi insultava. Ma io mi fermavo lo stesso, ti buttavo 1 euro nel cappello per condividere con te il caffè del mattino. Tu ringraziavi con tanta signorilità. Allontanandomi mi venivano dei brividi mentre notavo la mancanza del tuo braccio, amputato dalle bombe in Bosnia.
Cosi, la tua giornata scorreva in quel semaforo, a volte sotto il sole e a volte sotto la pioggia. Per guadagnare un pezzo di pane. Qualche autista, come me, ti dava qualcosa, mentre gli altri passavano indifferenti davanti al tuo cappello e al tuo corpo distrutto dalla guerra. Ma il tuo sorriso non si spegneva neanche per un attimo durante le giornate faticose trascorse al semaforo per pochi spiccioli.
Ieri era una giornata di pioggia. Stavi lì nel traffico di nuovo. Con un ombrello bagnato. Anche il tuo visto era bagnato, forse più dal sudore che dalla pioggia. Eri costretto correre di più, perché si apriva neanche la metà dei finestrini delle auto. L’unica mano che poteva essere utilizzata doveva tenere l’ ombrello e anche allungare il cappello. Un po’ distante, seguivo i tuo movimenti, mentre la coda delle auto diminuiva davanti al semaforo. Decisi di darti 2 euro in quel giorno difficile. Ti avvicinasti ad un furgone un po’ alto e stavi allungando il tuo cappello. Proprio in quel momento uno di quelli scippatori con motorino, afferrò il tuo cappello e, trovando la tua resistenza, ti trascinò con il motorino. Cadesti per terra, mentre scattava il verde. E, senza rendersi conto, un autista passò con la macchina sopra le tue gambe… Mi avvicinai quando il semaforo divenne di nuovo rosso e chiamai un’ autoambulanza. Il rosso semaforico e il tuo sangue avevano lo stesso colore. . .
.
Oggi, ho letto su un giornale che al ospedale ti avevano amputato le gambe per salvarti la vita. Ma non ce l’avevi fatto lo stesso. Eri andato con il tuo sorriso, triste per la prima ed ultima volta. Al semaforo era rimasto il tuo cappello vuoto, mentre il tuo posto di lavoro era occupato da un giovane extracomunitario.
I miei occhi caddero sul cruscotto dove era rimasta la moneta di 2 euro. Mi fermai davanti alla prima chiesa che vidi e accesi una candela alla tua memoria.

Ndue Lazri


PRIMAVERA AMARA

-Al ricordo di mia madre-

Quel mattino di primavera
ti portò via
con se.

L’ impasto del pane non lievitò,
divenne acre, aspettando le tue mani,
si spense il fuoco nel forno da legno.

Nel seno delle pecore intristite
venne a mancare i latte.
Gli ortaggi,
che ti aspettavano
nel’ orto,
seccarono.

Le travi del soffitto
si piegarono dal peso del dolore,
il tetto pianse lacrime di fuliggine.

Le mura, per non crollare,
si aggrapparono
al tuo ritratto.

Quel giorno
io capii:
la parola
“orfano”
non ha età.