Monologo teatrale
Confessioni di un carcerato
Il mio nome è Dario, ho trentacinque anni e mi hanno messo dentro per violenza
domestica. Mi hanno dato due fottuti anni per violenza domestica. Alice, mia moglie. La
amavo, più di quanto possa arrivare ad amare me stesso,forse è sbagliato, forse è
esagerato, ma chi sono io per dare una definizione all’amore,di certo non uno di quei poeti
maledetti. Abbiamo sempre avuto due modi diversi di vedere la realtà: il suo era un
“paese delle meraviglie”, tutto così felice, ordinato e colorato;da me invece trasmettono
ancora il bianco e nero. È stata lei a dare un po’ di colore alla mia vita. Mi ha aiutato a
disintossicarmi,lei era il mio dottore, il mio psicologo, il mio mentore,una ragazza di
vent’anni. Forse per questo l’amavo. In realtà non ho mai smesso di amarla. Avevamo un
amico in comune,io ne avevo sedici,lei ne aveva quattordici;ci siamo guardati,ci siamo
conosciuti e ci siamo innamorati. Dopo dieci anni di relazione abbiamo deciso di
stabilirci, sposarci, comprare casa e mettere su famiglia. Lei era maestra d’asilo, io autista di
un autotrasporto pubblico (il motivetto “se facciamo l’incidente muore solo il
conducente”,ecco io ero il conducente) ne incontri di gente strana con quel lavoro. Con
due stipendi,se pur minimi,era più semplice. Il matrimonio arrivò,emozionante. Arrivò il
mutuo,impegnativo. I figli,non volevano arrivare. Nessun problema fisico,eravamo
entrambi sani. Abbiamo atteso e pregato. Finalmente arrivò la mia piccola
principessa,Chiara,avevo ventinove anni. Dopo meno di due anni si presentò senza invito
il piccolino,Michele. Non potevo chiedere altro,avevo tutto ciò che un uomo può
desiderare.
Ma quella sera,quella maledetta sera. Il piccolo piangeva,non ricordo ancora il motivo,io lo
tenevo in braccio e cercavo di calmarlo,avevo appena terminato un turno di dieci ore. Alice
aiutava la bambina per colorare dei disegni con una mano e l’altra aveva l’indice teso e
rivolto verso di me in una discussione accesa sulle ultime bollette;in tutto questo c’era mia
suocera in cucina che ci dava come sottofondo il “dolce” fischiettare di una melodia da lei
conosciuta. Gli occhi erano sempre più pesanti e il suono sempre più acuto. Il bambino
continuava a piangere e piangere e piangere e quella vecchia continuava a fischiare e
Alice che continuava a puntarmi quel dito. E quel maledetto velo di Maya mi si calò davanti
agli occhi : posai il bambino sul tavolo,mi avvicinai,trattenendo il fiato,alla cristalliera e
iniziai a colpire con tutta la forza. La vecchia terminò il suo fischio e la piccola Chiara
accompagnava suo fratello col pianto. Si ruppe ogni cosa e il rosso del mio sangue
colorava la trasparenza di ogni frammento di vetro. Continuando e
continuando,Alice,quella dolce donna che salvò la mia esistenza,cercò di poggiare con
delicatezza la sua mano sulla mia spalla e fu li che rovinai tutto. Preso da tanto sfogo,forse
per l’iniezione esagerata di adrenalina di quel momento,con una furia innata mi voltai e
colpii il viso di mia moglie incosciente del fatto che la mano fosse ricoperta di vetro.
Sfregiai il candido volto della donna che amo. Non riesco ancora a perdonarmi per questo.
Mi bloccai immobile,come il gigante decapitato. Avevo mia moglie alla mia sinistra,in
lacrime,rannicchiata a terra vicino il divano che faceva pressione con entrambe le mani
sulla guancia insanguinata e cercava una spiegazione a tutto ciò. Avevo i miei figli alla mia
destra,terrorizzati. E avevo mia suocera in cucina che chiamava la polizia. Ecco spiegato
perché mi trovo qui.
Morte
Ed ello lo buio,che mastica
Affamato la lucente vita.
E com lo Galata che morendo
Riposa ai Capitolini musei :
io son qui
ad aspettar il dì che a venir affretta,
a conservar quel fil di luce che po’ rimane.
A spirare.
Notte
Ormai vien giù la sera
Ed ella splende in luce tra le nebbie ventose.
Le vie voglion esser riprese.
La singola sinfonia dello pneumatico
Che accarezza l’umidità asfaltata,
mi accompagna.
Il lento bruciar di colei che
Non per chioma chiamano bionda.
Il giallo lampeggiante tra i palazzi spenti.
Le piazze colme di silenzio.
Dormite serene,
anime immobili in sogni incredibili.