Poesia scomposta
1
Appesi ad un filo
Ad un filo penzolando
Sempre
maciniamo
di giorno – di notte
maciniamo
instancabili
chicchi di vita
vita vissuta
stacchiamo i giorni
costruiamo
col cuore – con la mente
altra Vita
Vita sperata.
2
Appesi ad un filo
maciniamo
chicchi di vita
costruiamo
col cuore – con la mente
altra Vita.
Vita sperata.
3
Ad un filo penzolando
di giorno – di notte
maciniamo
vita vissuta
Vita sperata.
4
Sempre
– instancabili –
stacchiamo i giorni.
Descrivere il cielo?
Impossibile
Ora
Troppe le sembianze
Troppo
bello seguire le nubi
e gettarsi
nel focolare
della sera.
(Melanzana gialla)
Inconsueta
appare: che sia vera?
Mostra tutta
la sua lucentezza
la sua pelle liscia
l’inopportuna spinosità del capo…
…appare: lei sola?
Mi coglie il pensiero
di una vita così unica.
Guardo intorno
e i miei occhi raccolgono
solo l’ovvietà.
E lei appare: lo stesso destino?
No.
Non cucinerò
la melanzana gialla.
(Yellow aubergine)
Odd
she appears: is she true?
She shows
all her brightness
her smooth skin
the awkward prickliness of her head…
…she appears: alone?
The thought of such a life
fills my mind.
I look around
and my eyes only gather
the obviousness.
And she appears: the same
lot?
No.
I won’t cook
the yellow augergine.
IO SONO UN VOLO SERENO
Storia di mia nonna paterna, che, in una lontana notte d’agosto,
mi ha raccontato la sua storia
Dedicato alle donne
Dedicato a chi ama
La brezza umida dell’aurora mi bagna il viso e il pianto nascosto in fondo agli occhi e all’anima benedice quelle gocce di rugiada e la primavera imminente …
Almeno ritroverò le viole nei fossi, tra un trimio zappato e un fosso saltato a piedi nudi, col rischio di stracciare ancora un po’ la lunga gonna nera, già troppo consunta …
Io sono
anche in un battito d’ali
la mia anima vola
sopra le piccole cose
sa godere
della loro semplicità.
Io sono
un volo sereno
-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-
Il carro avanza lento, inesorabile, lungo la strada bianca di sassi. Ogni tanto uno scossone mi spezza un po’ di giovinezza in quella via segnata dal solito andare di bestie.
Non ho il coraggio di guardare il magro cavallo che tira il carro: è il mio cavallo, il mio intimo amico di chiacchierate al calore della stalla, la sera, quando tutto si sospende, prima di andare a raggiungere i poveri giacigli. Non ha un nome, ne ha tanti; ogni volta lo chiamo con un nomignolo diverso e lui mi risponde sempre sbuffando un pochino e guardandomi con i suoi dolcissimi occhioni. E pare sorridermi. Sono io che lo striglio, gli porto la biada, lo coccolo,… sono l’unica che gli parla con rispetto, come si dovrebbe ad ogni creatura.
Di giorno è tirato per la cavezza, attaccato a pesanti traini, insultato e deriso per quella sua lunga coda spelacchiata. Ora il mio cavallo non mi lancia occhiate, non sorride. C’è mio padre seduto a cassetta sul carro, con le gambe composte, il cappello buono calato fin quasi a coprire le orecchie per ripararsi dal freddo del mattino, la giacca della Messa e il panciotto di lana color beige, regalo di un vecchio amico ridotto sul lastrico.
Io, mio padre, il cavallo, il carro.
E in fondo al carro, in un angolo, un fagotto pulito, profumato di lavanda.
Già rischiara e il sole, pur nascondendosi ancora dietro i monti , si annuncia con le sue lunghe dita dorate.
Che bella la mia terra, l’aria è pulita, i prati sono verdi, i campi profumano di gelso, i dolci pendii sono punteggiati di bianche casette con i muri di sassi, le pergole formate da rugose vigne e con le fontanelle d’acqua sorgiva che scorre sempre.
Che bella la mia terra, ricca di acque fresche e boschi, di fiori e animali, di profumi e suoni.
Che bella la mia terra, vissuta da gente che lavora e prega, umile, e che si accontenta di poco.
Che bella la mia terra, piena di voci antiche chiuse nella roccia.
Davanti a me, dentro di me, la mia terra, la mia anima.
o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-
Mi guardo intorno, ora la natura è ancora abbracciata all’inverno, ma i timidi germogli verdi, ogni tanto, mi ricordano che fra un po’ tutto sarà un tripudio di vita …
Guardo tutto, avidamente, e penso a mia madre rimasta a casa, perché aveva troppo da fare: un focolare per 30 persone deve stare sempre acceso.
Io sono la figlia femmina minore di una grossa nidiata e nella casa vivono tre famiglie. Il mio compito è sempre stato quello di accudire i bambini più piccoli, rammendare i poveri abiti, badare al focolare acceso e, a sera, strigliare il cavallo e far quattro chiacchiere con lui. Dovevo farlo, lo aveva deciso mio padre, il capofamiglia.
Quanto ho desiderato andare con le mie sorelle, alle prime luci del mattino, al lavoro dei campi. Avrei avuto le mani rovinate e incallite, la pelle abbrustolita dal sole o arrossata dal freddo, ma anche il vento fra i capelli e la luce del giorno mi avrebbe riempito gli occhi, e i canti delle donne chine sulla terra mi avrebbero allietato il cuore.
Mia madre, che sapeva leggermi dentro, mi diceva:
– Figlia mia, non dispiacerti, tu sei più fortunata. Ti alzi più tardi delle tue sorelle! Sei troppo magra e delicata per il faticoso lavoro dei campi, è meglio che resti in casa. Qui c’è tanto da fare.
Un discorso a metà fra il desiderio di mia madre di lavorare meno nelle faccende domestiche e la delusione di mio padre per una figlia poco robusta e non adatta ai lavori dei campi.
Così io, magra, minuta, delicata, bianca come la luna, gli occhi verdi come l’erba, i capelli lunghi e neri raccolti in una treccia, uscivo da quel cortile solo la domenica per la Messa prima e al Vespro pomeridiano, assieme a tutte le donne della famiglia.
Al pomeriggio si incontravano altre ragazze e si scambiavano chiacchiere; si faceva amicizia, si rideva … vivevo per quei pochi momenti di libertà.
A volte dei giovanotti ci guardavano, a volte ci seguivano; alcuni erano i fidanzati della ragazze più grandi. Io avevo tanta vergogna anche solo per salutarli. Stavo sempre ad occhi bassi, non parlavo e nessuno mi badava.
Ora rivivo quei momenti come un sogno lontano nel tempo.
Stringo lo scialle grande della mamma sulle mie spalle. Me lo ha dato dicendo:
– Ti terrà caldo quando farà freddo fuori e dentro il tuo cuore.
E il mio cuore, ora, ha tanto freddo.
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Mio padre mi lancia un’occhiata furtiva e mi accorgo che non ha lo sguardo severo di sempre.
Ha una strana espressione, come se fosse roso da mille tormenti, da dubbi. Lui ha sempre deciso per tutti, ha sempre deciso per me ed io ho ubbidito.
Non mi sono mai chiesta se mi volesse bene, prima d’ ora.
Una notte gli ho sentito dire che ero una bocca da sfamare e basta. Glielo diceva a mia madre, una tarda sera di novembre, dopo che un uomo aveva parlato con lui.
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Avevo visto quell’uomo poche volte, all’uscita da Messa.
Alla prima domenica del mese, nel mio paese, c’è la fiera delle bestie e così arriva tanta gente per vendere e comprare.
Quell’uomo stava sempre vicino al recinto dei cavalli o dei bovini, lo notai per la fronte spaziosa, i capelli ondulati, il muoversi sicuro. Sembrava un giovane interessante.
Naturalmente nessuno sapeva che la prima domenica del mese i miei occhi cercassero di vedere un giovane uomo e si abbassassero appena incrociavano il suo sguardo.
Sono troppo ingenua per provare un qualsiasi sentimento verso un estraneo e il cercarlo con lo sguardo mi sembrava un puro istinto femminile, se non addirittura un peccato.
Mesi fa, la domenica della fiera, sono uscita per ultima dalla chiesa. Avevo deciso di non guardare più verso il mercato, ma quando alzai il viso incontrai i suoi occhi per un lungo secondo; mi fece un lieve cenno e io un timido sorriso.
Il mio cuore per un attimo sobbalzò, ebbi paura, affrettai il passo e mi chiusi dentro la fila delle donne.
Poi mi dimenticai di lui.
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Arrivavo con la brocca dell’acqua attinta nel fossato per dare da bere al mio cavallo, una sera del novembre scorso, quando da lontano vidi un carro tirato da un bel ronzino e con sopra un uomo. Il carro stava percorrendo la stradina bianca di sassi che porta alla mia povera casa.
Non so il perché, ma l’istinto di nascondermi fu così forte che mi accovacciai dietro la siepe di rosmarino che funge da recinzione all’orto. Il carro si fermò davanti casa e solo allora vidi l’intruso.
Era Lui!
Salutò mio padre e mia madre, poi entrò in casa.
Spiai dalla finestra i tre che parlavano mentre il mio cuore batteva all’impazzata e mille domande mi assalivano e mille perché mi turbavano.
Lo vidi ripartire col suo carro e il bel cavallo marrone.
Quando entrai in casa, mio padre mi squadrò dalla testa ai piedi e mia madre teneva gli occhi bassi.
In silenzio se ne andarono entrambi in altre faccende. Senza dire nulla.
Io rimasi con la brocca in mano, immobile, fulminata da un terribile presentimento che mi lacerava l’anima.
Quella sera la cena fu stranamente silenziosa, anche i bambini più piccoli se ne stavano tranquilli a mordicchiare il pezzetto di polenta e formaggio. Anche il mio cavallo mi sembrava troppo stanco per la chiacchierata serale.
Come al solito andammo tutti a letto presto. Non riuscivo a dormire e mi giravo e rigiravo nel letto dove giacevano anche due mie sorelle. Così mi raggomitolai in un cantuccio del granaio, scalza, avvolta in una vecchia coperta dimenticata in un angolo, con gli occhi fissi alla finestra di cielo spalancata davanti a me.
Che meraviglia le stelle, le puoi guardare ogni notte nei loro disegni luminosi sparsi nell’immenso cielo nero: non ho paura del buio.
Ogni tanto un uccelletto notturno lanciava un grido e piccoli scricchiolii facevano vivere il silenzio. Restai immobile ad ascoltare ogni sussulto, a contemplare ogni riflesso luminoso …. E una grande pace mi scese nell’anima in quel tacere apparente che racchiudeva quel tumulto che è la vita …
Tutti dormono
nella mia casa
e sola ascolto
il tarlo che banchetta
col rovere della panca.
Sono stanche le mie braccia
e la mente ripercorre
il giorno appena andato,
l’oggi che è già ieri.
E sento il tempo che deve venire
nella speranza
di raccontare
il domani.
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Improvvisamente sentii la voce di mio padre e di mia madre discutere sommessamente.
La loro camera era proprio sotto il granaio e le parole si udivano distintamente.
Mia madre diceva:
– È una bambina, è tanto ingenua,… la più giovane figlia, è sempre stata in casa ad aiutarmi, cosà farò senza di lei, è così timida,…
E mio padre:
– Eppure Quello dice che la vuole, che non ha mai visto una ragazza così bella.
E mia madre:
– Ma è più vecchio di lei, di dieci anni!
E mio padre di rimando:
– È una bocca in meno da sfamare.
Il mondo mi crollava addosso.
Avevo capito tutto. Lui aveva chiesto la mia mano e mio padre gliela aveva concessa senza scrupoli, senza domandarsi se sarebbe piaciuto a me, cosa pensassi io.
No.
Non accettavo questo da mio padre.
Decisi di aspettare gli eventi.
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Aspettai dieci lunghissimi giorni in cui tutti furono informati dell’accaduto, eccetto me.
Avevo l’impressione che in casa tutti mi guardassero male ed io orecchiavo i loro discorsi, interpretavo i loro bisbigli. Sentivo le mie sorelle dire:
– Proprio lei, la più giovane! Poteva prendere una di noi.
– Cosa ci troverà in quella ragazzina?! Proprio non lo so!
– Mi fa una rabbia!
La sera, quando tutti dormivano, mi accoccolavo nel solito cantuccio del granaio e sentivo le preghiere di mia madre e le imprecazioni di mio padre.
Così ho deciso: la mia famiglia non mi piaceva più!
La mattina dell’undicesimo giorno era domenica, lui arrivò a casa mia e parlò con mio padre.
Al ritorno dalla Messa mio padre mandò via tutte le mie sorelle e cugine e mi chiamò in casa con un calore che non gli era proprio. Mi presentò a quell’uomo descrivendomi come se fossi la più brava donna di casa del mondo. Lo guardai timidamente e ci stringemmo delicatamente la mano.
Finalmente conoscevo il suo nome, si chiamava Mansueto e aveva gli occhi buoni.
Mio padre parlava, dicendomi quello che avrebbe dovuto dirmi molti giorni prima; così non lo ascoltavo, seguivo il filo dei miei pensieri, aspettando una domanda precisa.
Quando Mansueto mi chiese se accettavo il fidanzamento, alzai la testa e risposi – Sì – guardando fisso negli occhi mio padre che subito ammutolì e sbiancò in volto.
Forse il mio sguardo gli toccava la coscienza.
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Oggi, all’alba, ho salutato tutta la mia famiglia, radunata nell’ampio vestibolo che nelle occasioni particolari si apre e diventa un tutt’uno con la cucina. Seria, quasi distaccata, ho salutato tutti, ma quando ho abbracciato mia madre l’emozione mi ha tradita e mi ha sorpresa in un pianto liberatorio forte e profondo.
Mio padre, sul carro, aspettava in silenzio.
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Ora mi sta portando all’altare, sopra un vecchio carro di legno. Indosso il vestito solito della domenica e lo scialle di lana della mamma.
È una fredda mattina di febbraio, anno 1922, ho 19 anni, il sole negli occhi e il vento fra i capelli.
Sto andando a sposare un uomo che non conosco e non so se amerò o sarò amata, che mi porterà in un paese lontano dal mio, lontano dalla mia famiglia.
Perdonerò mio padre?
Domani sarò la stessa Maria?
Un groviglio
di alberi
interrompe il cammino …
… un singhiozzo …
E si è costretti a fermarsi
a trattenere il respiro.
Andare avanti
o morire senza pensare?
Devo decidere.
Sarò sempre me stessa
in ogni
spicchio di vita.
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Sto silenziosa seduta sul carro. Accanto, Mansueto mi sorride e mi racconta della sua gente.
Mi stringo forte nello scialle di mamma … un lungo, caldo abbraccio, prima di lasciare le mie piccole cose.
Perdonerò mio padre.
Amerò.