EVELINA

Quale sarà il tuo nome piccolo?

Donna

che non hai mai stretto tra le braccia il bimbo

che portavi in grembo,

piccolo tenero angelico essere senza alcuna colpa.

Non hai mai sentito

il caldo abbraccio della tua cara mamma,

il bacio più dolce sulle tue rosee guance,

lo struggente cullarti il sonno,

il palpitare l’emozione

non hai assaporato il tiepido latte che sgorga dall’amore,

come una casata, o fiume in piena

di sentimenti che

le parole

non…

l’incontro dei tuoi occhi con gli occhi di Evelina

la tua prima parola forse mama, mama, mama

i tuoi insicuri passetti

no, no, no

la mamma non ha potuto rialzarti quando sei caduto,

quelle braccia forti, la tua protezione,

quella imponente colonna

hanno stroncato tutto!

Chissà cosa avrebbe voluto fare Evelina

se solo avesse potuto!

Per proteggerti, per tenerti ancora

come la natura obbliga, dentro di lei.

12, agosto 1944

Te lo hanno impedito con il più diabolico,

gelido gesto che un uomo abbia mai

potuto rivolgere ad un suo simile,

la mente umana non può contenere,

neanche il solo pensiero

di questo male, di questo orrore, senza confine,

che si perde in un universo buio,

come in un delirio vorticoso, una vertigine.

Sant’Anna di Stazzema

hanno raggelato il più caldo sentimento,

l’amore, il sublime del mondo

il miracolo della vita.

La penombra,

la sedia,

la mamma,

il piccolo,

come se il dolore non fosse ancora abbastanza

ecco lo strazio, quel colpo finale

che è fine di una speranza,

ma l’inizio di una certezza:

l’uomo, il male che raggiunge il traguardo.

Quale sarà il tuo nome, piccolo?

Noi vogliamo che tu viva

nel nostro ricordo,

noi parliamo di te

noi scriviamo di te

noi chiediamo il tuo perdono,

il solo appartenere

al genere umano che ha commesso

ciò che nessuna lingua del mondo

sa nominare

impone la richiesta di perdono.

Quale sarà il tuo nome, piccolo?

Il tuo sorriso sarà una goccia nel nostro mare

di vergogna, di impotenza, di colpa.

La punizione l’azione dell’uomo stesso.

Voglio gridare con la tua voce

volevo giocare a palla con i miei fratelli

volevo essere avvolto dalle possenti spalle di mio padre

anche lui se avesse potuto,

volevo sentire il profumo della mia mamma

volevo ascoltarne la melodiosa voce

volevo guardare il cielo,

volevo arrampicarmi su un albero,

raccogliere un fiore,

mangiare un dolcetto

e la musica, e il soffio del vento, il calore del fuoco,

toccare l’erba,

il mare cos’è il mare?


 

IQ

Iq le dita piccine suonano un tappeto,

ormai tavolozza vecchia di quattro anni

non si scopre altro colore,

sei tu abile maestro di un’orchestra evanescente

ogni membro si allieta con una melodia diversa

l’opera è unica,

un coro di fiori rari dalle gioiose venature e trasparenze,

accovacciato, tessi le note e

si propagano in alto

dove solo le anime che vivono

il privilegio dello stupore possono approdare.

È un violino dolcemente accarezzato

anche se la luce è raggio che si intuisce

ma illumini quel luogo,

non indossi un frac

ma la tua eleganza è insuperabile

i tuoi stracci sono seta intessuta con maestria

teneri la camicina e il gilet ai convegni

che apparivano più grandi di te,

la tua idea è grande,

le mani sono sporche ma profumate di altruismo

il premio materiale che offusca e degenera,

nelle tue mani si fa dono

per i piccoli fiori della tua orchestra,

che così potranno capire, crescere,

essere liberi e non con il sogno ma con la giustizia.

Sulla carta tanti numeri danno speranza,

gli occhi sono costretti a vedere,

ma cosa possono fare! Un graffio sui riflessi

l’anima che si tormenta per i soffici batuffoli rosa.

Quanto sonno hai, il tuo canto però non può cessare.

Sul tuo esile corpo impressi i segni di una tetra pittura,

dipinte da un artigiano contrario,

ma la tua pelle è candore.

La vocina che ancora echeggia nel mondo

è un acuto di soprano che canta la libertà.

Sul delta del Nilo il gelsomino dovrà profumare

di mille cristalline e imperlate bottiglie.

La notte preziosa fonte per il pittore

essenza intatta e umida,

come il nastro lasciato da una lacrima ancora calda,

lungo venti anni.

la natura, con le sue creaturine perfette,

non diritto negato.

Che melodioso canto, la musica,

l’orchestra indossa trini puri

e l’acero è leggero

con i crini del suo archetto limato dalla pece,

il profumo dei gelsomini ora inebria è pulito.

L’ultimo simbolo d’infanzia impolverato

due cerchi girano e ti aspettano

la tua corsa che continua adesso,

libertà Iq.


L’INNAFFIATOIO DI CRISTALLO

Un pasticcere cura la sua dolce opera d’arte,

è alto, è forte,

con i suoi muscoli, con le mani venose,

delicato, crea per gli altri,

i suoi strumenti affilati, un abile pennello

per la perfezione del gusto e della vista.

Immorale alto e forte marcia.

Spavaldo e vile minuscolo.

In un nulla che vagherà senza pace.

Sudiciume che getta.

Avvolgiamo tutti i sublimi monumenti, le statue, i dipinti,

commuove il contrasto,

un ruscello scorre timido,

rosa fenicotteri volano sulle poltrone di velluto amaranto,

ombreggiano intorno alle luci del teatro,

la tenera Liù è in scena,

le eternatrici lettere, sospese meditano.

Una campana rintocca il mattutino,

un pastorello intona io de’ sospiri.

Pastorale risveglio di gradevoli sensazioni

la tempesta placata ascolta l’inno del pastore.

Inguardabile cetrangolo, meravigliosa creazione.

Sporcato di nero.

Inoltrati negli anni con la fatica di crescere.

Sibila lo stato ferino.

Che orgoglio essere uomo che ogni giorno

crea piccolo ma grande il profumo del pane,

un bambino impara e gli occhietti lucidi di gioia sorridono,

un medico ridona il caro alla vita,

una mano cinge il collo di un ammalato con il tessuto

e lo nutre, e il suo sguardo nel suo, si fonde,

come quello del bimbo al seno della madre.

Infame, le acque dell’onda, no, non è quello il colore!

Sostituisci senza timore, l’innocente all’Opera.

Inutile che tu rimuova quella mascheratura.

Sciolto si mescola il volto nel nero che hai creato.

Un pittore perpetua un campo di grano,

nel giardino sospirano mimose,

rose, iris, orchidee, violette, gladioli, margherite,

I cerbiatti confusi si guardano intorno increduli.

Un fico d’India, affascina il tramonto,

all’ombra di una palma, occorre inselvarli forse, è inutile.

Il tipografo scriverà

l’ingegnoso inchiostro nero,

il purpureo, il perdono.

Fratello non conosci pietà,

commozione, tenerezza, dolcezza,

la poesia germoglia dove i fiori non sbocciano,

intorno ai massi aridi irremovibili

ferruminando l’opistografo,

plasmato in un involucro di bellezza,

per dismorbare il celastro

e intingere la marza in un tralcio di vite.

Genuflesse le zagare setose estasiate.

Anelate l’ultimo originario baluardo gecchiti.

I ferzi navigheranno sulle acque non più torbide.

Si torca il cencro, verso la giusta meta

E un candore irrora con il nettare le facelle verso

l’unica fonte

che irradia il firmamento.


INEFFABILI SCRIGNI

Giovane, attraverso un filtro, soltanto l’odoroso pungente,

appena intravedo la tua grandezza, a se stesso, inconsolabile

palpito cosmico rimane in superficie, pulviscolo di pelle in

un buio luogo, tra una tenda d’organza, passionale anima

brillante d’ingegno e sentimento, l’immenso, dorato

battere crescente della musica in lontananza sul pavido colle.

Tu delirante, assetato d’illimitato e di lamenti, struggente

allungo le braccia, non conosco ciò che donerei, un sussulto

dilegua l’assurda convinzione che esista, spera senza spazio

per quel fine che è al di sopra, non hai schiuso forse, il tempo.

Una carezza, micro essere che cerca, che solo intuisce

le forti catene del finito, del limitato soffocano il senso.

Aspetta, quello che il genio rende sublime virilità, titanico

vuoto scrigno che folle amore adagia una calda coperta

di dolore che stride, annienta, un fremito, sulle tue gambe.

Aspetta, appercezione di una languida eterna lacrima.

Aspetta, si avvicina, si muove e curvo e lento, una penna

china la tua testa sullo scrittoio, corre, uguale fortifico

come si può sognare l’ignoto, l’inesistente, brillamento di

unione nell’etere di secoli e vigorosa fralezza, favoloso.