DOVE FINISCONO LE STRADE

Abbasso il finestrino e un’ondata di calore attraversa l’abitacolo, investe i nostri volti. Lei si sporge in avanti voltando a mezzo la testa, scosta la massa di capelli neri e guarda nella direzione che le indico.
– Dove? – mi chiede.
– La seconda porta sulla destra. Quella era la mia casa.
Dora ha dieci anni meno di me e fa la bidella nella scuola media di mia figlia Martina, la più piccola. L’ho conosciuta alla macchinetta del caffè nell’atrio della scuola a novembre, il giorno dei colloqui con i professori.
– Piacere, Addolorata – disse, pronunciando il suo nome per intero, ma affrettandosi subito a correggere – …Dora – abituata, com’era, all’attimo di esitazione che il suo nome provoca in qualsiasi autoctono.
Aveva appena ricevuto l’incarico di lavoro e cercava disperatamente un alloggio dopo essersi trasferita dalla Calabria. Sapevo che le ragazze che occupano l’appartamento sopra il mio, un’insegnante e un’infermiera, in quel periodo stavano cercando una terza coinquilina, così glielo dissi e dopo una settimana Dora si sistemò al piano di sopra. Abbiamo iniziato a frequentarci e tra noi due è nata un’amicizia, e forse qualcosa di più.
Ho insistito molto perché mi accompagnasse in qualche viaggio di lavoro e finalmente ha accettato di salire sul mio camion e di venire via con me. Ci tenevo che venisse proprio oggi perché è oggi che devo fare delle consegne dalle mie parti, in Friuli, dove sono nata e cresciuta. Mostrarle i luoghi della mia infanzia per me ha un significato particolare.
Ci siamo messe in viaggio verso le quattro e mezza del mattino. Era felice quando è salita a bordo dell’autoarticolato e rideva allegra come una bambina che sale su una giostra del luna park. Ho lasciato scaldare il motore, che rombava più convinto del solito, e intanto le spiegavo alcune cose della guida del mezzo. Neanche le mie figlie avevano mostrato così tanto entusiasmo quando le avevo fatte salire per la prima volta sul camion. Dora, invece, toccava ogni cosa, si guardava intorno, si allungava in avanti per capire dove finiva il muso del tir, si pavoneggiava guardando dall’alto della sua postazione la strada sotto, senza nascondere quant’era emozionata. Di lei mi piace questo: la spontaneità, gli occhi pieni di meraviglia, quel suo modo di spostare lo sguardo e le mani sulle cose con rapidità e l’inquietudine di stabilire subito un contatto.
Lungo la A4 in direzione Venezia ci siamo tenute tante volte la mano, continuando a parlare e a ridere. Davanti a noi l’autostrada si srotolava silenziosa verso est, adagiandosi sulla campagna ancora fresca e bagnata dalla guazza notturna. A volte mi pareva d’esser ferma, non era il camion che si spostava ma era la strada sotto di noi che scivolava come un tapis roulant.
Per la prima volta osservavo quella striscia d’asfalto grigio con altri occhi. Fare questo lavoro è stato ad un certo punto della mia vita una necessità e una sfida. Tutti i giorni devo dimostrare di essere in grado di guidare un tir, devo sostenere gli sguardi maliziosi e diffidenti della gente, la tracotanza dei miei colleghi maschi, le loro battute volgari. Ogni giorno imbocco un’autostrada come se dovessi affrontare una nuova prova, mi unisco ad un esercito di altri tir, ma so che dovrò cavarmela da sola. Oggi, con lei vicino, pericoli e insidie sono scomparsi, non ci sono asperità, l’asfalto è dolce, lo sento scorrere liscio sotto le ruote.
Mentre Dora cantava, ascoltando la radio, io sentivo a tratti di potermi staccare virtualmente dal sedile, uscire dall’abitacolo e guardarmi da fuori, guardarci, noi due insieme, così piccole dentro quel bestione grigio che avanzava possente sulla carreggiata in direzione del sole, già alto davanti a noi. All’improvviso la strada mi è parsa come una linea su un foglio, semplice e pulita, un segno netto che definisce le forme e contiene gli spazi. Così lasciando le morbide colline del vicentino per affrontare le propaggini orientali della pianura padana, attraversando sul mio pachiderma metallico l’ampia e soleggiata campagna veneta, era come se non avessi tra le mani un volante, ma una matita con cui potevo tracciare i contorni di una figura, lambire il paesaggio, unendone i punti come in un gioco da settimana enigmistica.
Ed era quello che volevo fare della mia vita, unire tanti punti lasciati sospesi come in un’immagine incompleta o come una strada tante volte interrotta.
Così, mentre in questo momento indico a Dora la casa dove abitavo con i miei genitori, inizio a raccontarle un po’ di me. Spengo il motore, abbasso la radio e ripercorro alcuni momenti della mia infanzia.
Ho iniziato a muovere i primi passi nella stradina di casa, un rettangolo di terra battuta e ghiaia che si allungava per cinquanta metri tra due file di case grigie. Quello era il mio mondo. La mamma mi teneva per mano e mi faceva camminare avanti e indietro, mentre aspettavamo che il papà rientrasse dal lavoro. Quando la mamma lo sentiva arrivare con il motorino, un Garelli verde con il parabrezza, mi prendeva in braccio e correva all’imbocco della stradina che si affacciava sul vicolo e aspettava di vederlo comparire dalla curva. Conservo una foto in bianco e nero di noi tre così: io in braccio alla mamma con i piedini puntati sulla sua pancia mentre mi sporgo in avanti verso il papà appena tornato dalla fabbrica e ancora in sella al suo motorino. Era il 1962. La foto l’aveva scattata lo zio Rocco, il fratello di mia madre. Tutte le foto dei miei genitori, della mia famiglia, di me piccolina sono state fatte con la macchina fotografica dello zio che aveva comperato in Svizzera, dove era stato come emigrante per qualche anno. Rocco era il soprannome che gli amici gli avevano affibbiato ispirandosi al film “Rocco e i suoi fratelli”, visti i muscoli di cui era dotato e la sua propensione ad utilizzarli al primo accenno di rissa al bar.
Il papà era operaio alla Savio, la mamma faceva la casalinga e abitavamo in affitto. La casa era piccola, disposta su due piani, con la cucina e un bagno al piano di sotto e due camere sopra. Tra la cucina e il bagno vi era un disimpegno dove c’erano le scope, l’asse da stiro e il mio box. Ricordo vagamente le camere, ma è abbastanza vivida l’immagine della cucina vista attraverso la rete di quel recinto in cui venivo spesso imprigionata. A causa del mio carattere, la mamma continuò a lungo a mettermi nel box, quasi fino ai tre anni, almeno mentre si occupava dei lavori di casa. Il problema erano i miei scatti d’ira, improvvisi e incontrollabili. Una volta mi appesi con forza rabbiosa alla tovaglia trascinando giù tutto quello che c’era sopra. Solo la bottiglia del vino rimase miracolosamente in bilico sul bordo del tavolo, aperta, rollando come una barca sulle onde e lasciando sgorgare il liquido rosso che si spargeva a terra. Io in piedi, immobile, con un angolo della tovaglia in mano, guardavo sbigottita con occhi grandi quella macchia scura che si allargava sempre di più e, dimenticando per qualche attimo di strillare, cercavo di recuperare fiato. Il clangore delle ceramiche, dell’acciaio e del vetro che sbattevano tra loro e sul pavimento, il mio pianto stizzito e le grida di mia madre fecero accorrere allarmate le vicine di casa. L’agitazione che causò quell’episodio in casa nostra e nel vicinato, dove non succedeva mai un granchè, fu argomento di discussione tra le donne per diversi giorni ed era uno dei racconti preferiti di mia madre sulla mia infanzia. Le piaceva ricordare anche un secondo fatto. L’episodio riguardava una bistecca che non volevo assolutamente mangiare, ma che lei si ostinava a cucinare indifferente alla mie richieste. Avevo preso a girare nervosamente intorno ai fornelli, dapprima implorando di avere qualcos’altro, poi, accorgendomi che i toni supplichevoli non sortivano alcun effetto, iniziando a sbattere i piedi, ad alzare la voce, a dire che la bistecca mi faceva schifo. “Basta” diceva mia madre infastidita, voltando la carne nella padella. “Adesso basta” ripeteva.
Più forte era l’odore della carne e più aumentava l’odio per mia madre. Quando la vidi aggiungere il sale, ormai a fine cottura, e versare ancora un po’ d’olio, il tempo che lei si scansasse per prendere il piatto dal tavolo, io avevo già afferrato il manico della pentola e come il più abile dei cuochi alle prese con una frittata da rigirare, con un sol movimento sollevai il tegame in aria e lanciai la bistecca all’indietro. Il volo la fece finire dalla parte opposta della cucina e l’olio si sparse per terra, rischiando seriamente di ustionare entrambe.
– Cattiva! Bambina cattiva! – mi disse quel giorno e tante volte ancora, tanto che finii per crederci.
Mentre le racconto questi aneddoti, Dora ascolta con curiosità e ride divertita, in realtà non ha mai assistito alle mie intemperanze.

Crescendo il mio carattere non migliorò molto e continuò ad essere motivo di chiacchiere tra le donne che criticavano il modo in cui mia madre mi educava. Anche la nonna non era da meno, infatti, quando una volta alla settimana prendeva la corriera e veniva a trovarci dal paese vicino, non perdeva occasione per far notare a mia madre che mi lasciava giocare troppo con i maschi e che questo non andava bene.
Ormai avevo ricevuto il permesso di uscire dalla stradina e avevo fatto amicizia con i bambini del vicolo e con loro mi trovavo fuori a giocare ogni pomeriggio dopo i compiti. D’estate formavamo una vera e propria banda che scorazzava libera da un cortile all’altro, girava per i campi vicini e occupava il vicolo con i giochi.
Pordenone alla fine degli anni sessanta si stava trasformando in una piccola cittadina, ma la campagna intorno resisteva tenacemente allo sviluppo urbanistico. Il quartiere popolare in cui ero cresciuta, si era sviluppato intorno all’asse stradale sul quale sorgevano a meno di due chilometri di distanza il cotonificio Olcese, nato alla fine dell’800 appena fuori dal centro storico, e la più recente azienda tessile Savio.
I miei compagni di giochi erano come me soprattutto figli di operai, molti dei quali terminato di lavorare in stabilimento si occupavano della campagna.
In casa ascoltavamo sempre radio Capodistria che trasmetteva un programma d’auguri con dedica musicale verso l’ora di pranzo. Una delle mie canzoni preferite, che veniva richiesta spesso, era “Bandiera rossa”. La canticchiavo sempre appena partiva, ma quando mia madre mi sentì intonarla a gran voce per il vicolo, di ritorno dalla spesa, lei dietro con le borse in mano e io che la precedevo saltellando allegramente, mi zittì all’istante con mio con gran stupore. Non capii il perché, ma a nulla valse chiederle il motivo di quella censura perché mi rispose in maniera vaga e solo da grande capii che la sua risposta non voleva essere evasiva, ma che era lei semplicemente a non essere in grado di spiegarsi. Aveva fatto, in fin dei conti, solo la quinta elementare.
Quella volta tuttavia mi innervosii per non aver ricevuto una risposta convincente e imparai che non era utile fare tante domande. I miei genitori il più delle volte non erano in grado di dare delle risposte ai miei quesiti pseudo-filosofici. Anch’io come tutti i bambini avevo una testa che ribolliva di domande, una in particolare mi arrovellava ed era quando aprivo il salvadanaio, mettevo le monetine in fila sul tavolo e mi divertivo a costruire delle stradine. Ad un certo punto esse si interrompevano perché non avevo più pezzi da aggiungere, ma sapevo che se ne avessi avuti degli altri avrei potuto proseguire a lungo. E dunque c’era o non c’era una fine? Mi sforzavo di immaginare le strade che percorrevano le città, i paesi, le campagne o poi vedevo la fine della terra e dunque il precipizio, il vuoto, il cielo che si estendeva sopra e sotto il nostro mondo, che per me doveva essere piatto, anche se il dubbio permaneva.

A quei tempi giocare per strada era normale. Nel vicolo di casa, che ad un certo punto si allargava e si divideva in due strade più ampie, ho giocato a calcio, a pallavolo, a tennis con le racchette da spiaggia, ho gareggiato nella corsa e con le biciclette. Ogni tanto c’era qualcuno che gridava “macchina!” e allora ci toccava spostarci.
Ora il vicolo è solo pedonale, le due vie nelle quali si biforcava sono state allargate e collegate ad un tratto stradale costruito successivamente, demolendo qualche vecchia casa d’inizio novecento, intubando le rogge ed espropriando alcuni terreni.
-Facciamo un giro a piedi? – mi chiede Dora.
-Ok – rispondo – Hai fame? Potremmo fermarci e mangiare qualcosa, in fondo al vicolo c’è una trattoria; una volta era un’osteria, dove gli uomini giocavano a carte e fumavano. Io andavo a comprarmi i ghiaccioli. Ti va?
– Bene, devo anche andare al bagno.
Parcheggio il mezzo proprio sul terreno dove un tempo sorgeva una vecchia casa a due piani che si affacciava direttamente sulla strada. Al secondo piano c’era un terrazzino con pergolato d’uva fragola e sul retro si estendeva un giardinetto lungo e stretto che digradava lievemente sulle acque basse di un corso d’acqua di risorgiva. Mentre spiego a Dora che lì abitavano due miei amici, fratello e sorella, prima che la casa venisse demolita, rivedo le immagini della casa che cade a pezzi, sbriciolandosi al suolo come un grissino, e rivivo per un attimo lo shock provato davanti a quella scena. Dopo l’abbattimento della casa e il trasferimento dei miei amici, seguirono la rimozione del vecchio manto stradale, l’espropriazione di un campo e, in parte, di alcuni giardini. Il paesaggio mutò completamente il suo aspetto e in certi momenti della giornata, nelle ore grigio piombo dell’inverno umido e freddo, le strade che prima percorrevamo liberi, sventrate e bucherellate dai lavori in corso, parevano il suolo butterato della luna. Quelle strade che per noi erano state luoghi d’incontro, campi di gioco, piste per le gare, passerelle per farsi vedere e conoscersi, mettere in mostra la bici nuova o i pattini a rotelle, quelle strade dove eravamo cresciuti si stavano trasformando rapidamente come i nostri corpi di adolescenti. Di lì a poco, infatti, il traffico aumentò anche nel nostro quartiere e noi eravamo già piuttosto grandi per preoccuparci di rivendicare il diritto di vivere la strada con la spensieratezza di un’infanzia a cui non appartenevamo più. Ne discuto con Dora, mi infervoro sostenendo che questo sia stato uno dei tanti sbagli di una generazione frastornata dal cambiamento e baloccata dal progresso, che si è fatta prendere la mano e tutto il braccio, e ora rivendica, pentita, le città a misura di bambino. Una generazione che ha vissuto di corsa inseguendo il benessere economico. Dora mi ascolta senza interrompermi, vorrei sentire cosa ne pensa, invece lei preferisce parlarmi della sua infanzia nel paesino della Sila: la gente fuori fino a tardi, le donne e i vecchi sugli usci di casa, i bambini a giocare sulle scalinate o nella piazza della chiesa. E allora i nostri racconti cominciano a intrecciarsi.
Da bambina, nella corsa ero veloce. Non amavo la corsa di resistenza, né i percorsi campestri, preferivo l’asfalto della strada. Acquistavo forza elastica e diventavo imbattibile. Prima di partire guardavo dritta davanti a me, fissavo il traguardo, poi al via spostavo lo sguardo a terra e mi lasciavo ipnotizzare dal movimento veloce e ritmico dei miei piedi che rimbalzavano sul suolo grigio. La strada, che diventava un tutt’uno indistinto e uniforme, mi risucchiava e io mi confondevo con essa, mi piaceva quella sensazione di perdere l’immagine del mio contorno.
Spesso lanciavo la sfida. “Prova a prendermi” dicevo a qualcuno dei miei compagni di gioco. Mi piaceva in particolare se ad inseguirmi era Stefano, un ragazzino di qualche anno più grande con una testa piena di capelli castani leggermente lunghi e ondulati. Il padre aveva una piccola azienda in un paese vicino nella bassa pordenonese, dove stava fiorendo l’industria del mobile. Nel pomeriggio dovrò scaricare del materiale proprio in quella zona, in alcuni mobilifici di Brugnera.
La famiglia di Stefano, alla fine degli anni ‘60, si era trasferita in città in modo che i figli potessero avere maggiori opportunità. Stefano frequentava una scuola del centro, prendeva lezioni di tennis, trascorreva la maggior parte dell’estate al mare nella sua casa di Bibione e d’inverno andava a sciare nella vicina Piancavallo, come facevano tutti i rampolli della borghesia pordenonese. Si trattava di una piccola borghesia di provincia, senza alcuna tradizione, arricchitasi rapidamente nel giro di pochi anni, dimenticando la cultura contadina d’origine.
Stefano era comparso improvvisamente un giorno nel vicolo con la sua bici da cross riscuotendo subito un grande interesse da parte dei maschi; io ero rimasta colpita da quella massa di capelli che ad ogni frenata gli ricadevano morbidamente sul viso coprendogli gli occhi. Quando, qualche giorno dopo, mi arrivò alle spalle inchiodando la bicicletta con un rumore di freni stridente che mi fece sobbalzare, fu amore allo stato puro. Il primo.
Mi girai di scatto e gli urlai dietro qualcosa di poco gentile, scansandomi. Lui era sceso dalla bicicletta, mi guardava sorridendo e con un soffio si spostò i capelli dagli occhi.
-Ciao- mi disse- come ti chiami?
Da quel giorno cominciai ad affinare le mie arti femminili, per quel poco che potevo e conoscevo. Cercavo di stare un po’ più composta, di non farmi scappare insulti e parolacce, ma se il gioco lo richiedeva allora perdevo come al solito ogni contegno e mi buttavo nella mischia. Non che avessi grandi esempi da seguire, visto che mia madre non aveva molto tempo per prendersi cura di sé e le mie amiche erano piuttosto ruspanti. Avevo sentito i commenti dei grandi che dicevano che ero una bella bambina, ma io non mi guardavo mai allo specchio, non avevo voglia di pettinarmi al mattino né di vestirmi, detestavo fare il bagno e anche mangiare, mi parevano perdite di tempo..
Oggi, però, indosso un paio di jeans nuovi, leggeri, con qualche dettaglio femminile e una polo rosa regalatami dalle mie figlie per la festa della mamma. Dora ha apprezzato il mio look. “Ti sta bene il rosa” mi ha detto ed era da tanto che qualcuno non mi faceva un complimento.

Stefano era pieno di sé, otteneva sempre attenzione e consenso, quello che diceva era legge nel gruppo e io ero troppo orgogliosa per dargli soddisfazione. Così quando raccontava delle sue vacanze, io mi fingevo annoiata e me ne andavo, quando si accorgeva di una scorrettezza nel gioco, facevo spallucce e contestavo anche l’evidenza, quando proponeva l’ennesimo gioco, mi arrabbiavo con gli altri che non avevano mai idee. Percepivo la differenza sociale tra di noi. Stefano mi piaceva e io sentivo di piacere a lui. Quando vincevamo una partita come compagni di squadra, veniva subito a complimentarsi con me, poi mi abbracciava. Mi faceva piccoli scherzi e battute per farmi ridere.
Non sopportavo che potesse avere dell’interesse per qualcun’altra. Invece Stefano era un playboy in erba e non disdegnava le altre ragazzine e la cosa mi faceva arrabbiare terribilmente. In particolare, detestavo quando, avvicinandosi ad un altro maschio del gruppo, commentava qualcosa sottovoce sorridendo maliziosamente guardando qualcuna che passava per strada. L’amico in questione di solito rispondeva con lo stesso sorrisetto cretino. Li trovavo imbecilli , mentre quella che era passata l’avrei uccisa, più o meno ciò che avevo desiderato per Michela. Mi vergogno nel raccontare questa cosa a Dora, ma in fondo è passato tanto tempo e io ero solo una bambina di undici anni.
Michela veniva da Roma, era la nipote del farmacista e trascorreva ogni estate qualche settimana a Pordenone. Parlava in modo spigliato con un accento romano marcato, agitandosi tutta e scuotendo i bellissimi capelli biondi dorati che invidiavo con tutta me stessa. Era molto diversa da noi, si capiva. Non solo usava una straordinaria quantità di parole italiane, che noi, in misura nettamente inferiore usavamo solo a scuola, cioè quando eravamo obbligati, ma inoltre gesticolava in continuazione con le mani, modalità del tutto sconosciuta e inconcepibile dalle nostre parti. Le prime volte l’ascoltavamo ammutoliti e quasi ipnotizzati. I maschi le morivano dietro, era evidente, e Stefano non la mollava un momento. Ciò che successe non fu intenzionale, né premeditato, non coscientemente quantomeno. Stavamo giocando all’aperto sulla strada davanti alla villetta di Stefano, dove ci eravamo radunati in una sera d’inizio estate, prima che lui partisse per il mare. Giocavamo a “darsela” e quando fu il mio turno di battere la mano su qualcuno, mi fu spontaneo cercare di colpire Michela, ma lei non si faceva raggiungere facilmente, era veloce e agile quasi quanto me e mi sfuggiva. Questo non lo potevo accettare anche perché detenevo il primato di velocità nella corsa, cosa incontrovertibile e riconosciuta da tutti, compresi i maschi. Non provai a colpire nessuno degli altri che intanto mi sfidavano avvicinandosi. Non li vedevo neanche. Puntavo unicamente la mia rivale. Alla fine riuscii a portarmi a pochi passi da lei, i suoi capelli lunghi e lisci mi sventolavano davanti, non potei resistere, li afferrai, anzi mi aggrappai ad essi, e li tirai con quanta forza avevo, a lungo, tenendoli stretti nel pugno anche quando la mia sventurata preda era già ferma e in ginocchio. Senza mollare la presa neanche per un momento mentre urlava “Ahi, ahi , ahi! Mollami, mollami… ahia..”, portandosi le mani alla testa, le sferrai una sonora pacca sulla spalla e dissi trionfante “Toccata!”. Mi rimase in mano un lungo ciuffo di capelli biondi che provai a riconsegnare alla legittima proprietaria la quale piangeva e si toccava la testa sanguinante. Sul palmo della mia mano aperta erano rimasti evidenti i segni, a forma di semiluna, delle unghie che si erano conficcate nella pelle.

Qualche giorno dopo, mia madre mi caricò sulla macchina dello zio Rocco e mi accompagnò da una specie di guaritore, un santone, che con l’imposizione delle mani poteva togliere l’energia negativa alle persone e farle guarire dai loro problemi. Quale fosse il mio non lo capivo, ma certo doveva essere una cosa seria. Non ero mai stata così tanto cattiva. Mia madre aveva ragione.
Lo zio e la mamma stavano seduti davanti senza parlare, io dietro, immobile, al centro del sedile della Fiat 1100 bianca, fissavo la strada statale dritta e lunga, che si liquefaceva al sole nell’aria tremula e afosa di una giornata caldissima come quella di oggi. Non c’erano alberi a fare ombra lungo i cigli di terra battuta, solo stecchi d’erba ingialliti dall’arsura, poi qualche casa silenziosa, cortili di ghiaia, il rumore monotono dell’auto, la nostra, la quale procedeva calpestando al centro la riga bianca, che sembrava bucare l’orizzonte madreperlaceo, rettilinea, sempre uguale, come il nostro silenzio.
-Sei diventata più buona, poi? – mi chiede Dora bevendo il suo caffè e sorridendo.
Ricambio il sorriso e una telefonata provvidenziale di mia figlia Martina mi toglie dall’imbarazzo di dover rispondere.
-Ciao mami, sabato siamo da te! Ci porti in piscina?
Martina quando chiama va subito al dunque, nessun preambolo. Lei è diretta, non perde tempo, telegrafica in ogni comunicazione come suo padre, non solo al cellulare.
-Ciao! Come va? Sei a casa?
-No, dalla nonna.
Aspetto che aggiunga qualcos’altro, ma non succede, ovviamente, quindi passo subito all’informazione che le interessa.
-Portatevi i costumi, a casa non li ho visti; mi sa che sono a casa di papà.
Martina riattacca, io mi alzo da tavola e vado a pagare il conto alla cassa. Dora mi segue in silenzio e ci dirigiamo verso il camion per ripartire. Usciamo dalla città e prendiamo la cosiddetta strada del mobile, per fare le ultime consegne nella zona di Brugnera, quella stessa statale che avevo percorso da bambina con lo zio e la mamma. Devo rinunciare, però, alla conversazione con Dora perché lei, appena salita sul mezzo, si è addormentata. Lascio la radio spenta e affondo in un pensiero denso come il caldo che ci attanaglia. Avrei dovuto spiegare a Dora che le cose in seguito sono andate anche peggio e che non sono sicura di essere diventata una persona migliore. Mi chiedo se avrò il coraggio di raccontarle il resto della mia storia fino al giorno in cui ho spaccato le gambe ad una donna, investendola con l’auto.
Le ho già accennato che le mie figlie, dopo la separazione, sono state affidate al padre, ma il motivo che ho addotto non era quello reale. Le ho mentito dicendole che la causa era il mio lavoro poiché mi portava a stare fuori casa per tante ore e a volte per giorni interi.
In realtà a quel tempo ero una supplente di lettere alla scuola media e ho dovuto rinunciare alla mia carriera d’insegnante per la condanna subita. Dunque non posso sentirmi compiaciuta quando Dora esclama sorpresa “Come parli bene!”, stupendosi per le mie citazioni, piuttosto mi sento a disagio e cerco di dissimulare l’imbarazzo con qualche battuta di spirito che possa divertirla e distrarla.

Stefano e io ci eravamo persi di vista durante l’adolescenza, in particolare nel periodo delle superiori. In realtà tutti ci eravamo un po’ allontanati dal gruppo, frequentando scuole diverse, anche fuori città, e nuove amicizie. Lo vedevo ogni tanto in centro in compagnia di altri liceali come lui, ragazzi benestanti, abbronzati anche d’inverno. Il più delle volte ci scambiavamo solo un’occhiata e un rapido saluto. Ci ritrovammo, poi, all’università, io pendolare prendevo ogni giorno il treno per Udine, mentre lui alloggiava in un appartamento in affitto a pochi passi dalla sua facoltà. Ogni lunedì mattina ci incontravamo in stazione, ma tutto si limitava ad uno scambio di sguardi e qualche sorriso, poi viaggiavamo separati, praticamente ignorandoci una volta saliti sul treno. Lui aveva le sue ragazze e anch’io le mie storie. Al terzo anno, un giorno piovoso di inizio novembre, in cui era scoppiato uno strano temporale come se fosse ancora estate, lui si era seduto al mio tavolo durante la pausa pranzo in una piccola trattoria di fronte all’università. Il pomeriggio lo trascorremmo a letto, nudi e avvinghiati sotto le coperte, scossi dai tuoni e dai gemiti. Stefano si stava per laureare, a me mancavano ancora due anni, ma a maggio rimasi incinta. La sua famiglia, a cui avevamo nascosto la relazione, non accolse bene la notizia, ma non potè fare nulla per ostacolare un desiderio che, assopito per anni, ad un tratto era esploso in modo del tutto imprevisto e incontenibile. A ottobre eravamo già marito e moglie e a febbraio genitori di Clara. Martina nacque quattro anni dopo, nove mesi esatti dalla mia laurea. Furono anni intensi in cui non c’era tempo per pensare ma solo per vivere: l’amore il sesso, le gravidanze, la casa, la laurea, il lavoro, le bambine. C’erano anche gli scontri, le liti, le divergenze. Avevamo idee diverse soprattutto sul piano politico e non sempre eravamo d’accordo sull’educazione delle nostre figlie.
Quella felicità non durò molto, ben presto iniziarono le mie gelosie, le scenate, le liti sempre più frequenti e violente. Avevo tutto il diritto di sospettare per i suoi ritardi, le assenze nei weekend, le uscite improvvise e immotivate. Mi ripeteva che dopo la nascita delle figlie lo stavo trascurando, che trascuravo anche me stessa e che aveva bisogno di un po’ di respiro. Avevamo smesso di sentirci speciali ed eravamo finiti per essere la classica coppia in crisi. Pretesti banali, pensavo allora e penso ancora adesso. Io mi scatenavo come una furia, con insulti pesanti e gesti violenti contro di lui. Era riemersa quella parte indomabile, impulsiva, fisica che con il tempo e l’educazione ero risuscita a controllare. Persi del tutto la ragione quando ebbi le prove dell’infedeltà di Stefano che, in modo ben poco originale, mi stava tradendo con una sua collega. Eravamo finiti dentro un copione insopportabilmente scontato. Cominciarono la guerra, le minacce, le ritorsioni da parte mia che non m’importava ormai più di niente ed ero disposta a rischiare tutto pur di avere soddisfazione. Non pensavo alle mie figlie, alla mia reputazione, al mio lavoro, andavo avanti come uno schiacciasassi o peggio ancora come un kamikaze, pronta a immolare me stessa e quello che avevo di più caro pur di vendicarmi. Totalmente obnubilata dalla rabbia e dal risentimento, una mattina invece di andare a scuola, mi presentai sotto l’ufficio di mio marito, mi appostai in attesa che la sua amante arrivasse e senza esitazione alcuna le piombai addosso con l’auto non appena quella scese dalla macchina per avviarsi al lavoro. La presi da dietro, volò in aria e ricadde pesantemente a terra, fratturandosi in realtà non solo le gambe, ma anche il bacino. A Dora dirò solo delle gambe, non voglio impressionarla con i dettagli di questo incidente e di tutte le sue conseguenze. Non so ancora quando e come glielo dirò, ma dovrò farlo anche se temo la sua reazione. É una donna intelligente e sensibile, senza pregiudizi, con lei trovo una calma sorprendente e sento che posso rivelarle cose di me che difficilmente riesco a dire, ma certo capisco che quanto ho commesso quel giorno svela un’indole non troppo rassicurante. Dopo Stefano ho frequentato ancora qualche uomo, ma sono sempre state esperienze deludenti che non rimpiango di aver interrotto. Ci tengo invece all’amicizia e all’affetto di Dora, sento che ora ho bisogno di lei. Com’è bella quando dorme, qui vicino a me, adagiata sul sedile! Il solo guardarla mi rende felice e mi dà serenità.

Invidio il sonno tranquillo in cui è sprofondata e penso invece agli incubi notturni che mi svegliano di soprassalto e rendono le mie notti difficili e tribolate. Di giorno, rivivo quotidianamente la scena del mio arresto, sento risuonarmi nella testa la voce del giudice che mi condanna ai domiciliari e mi assalgono puntuali l’angoscia e la vergogna per quello che ho fatto. Ho scontato la mia pena reclusa in casa e durante quelle interminabili giornate ho avuto modo di pensare a lungo. Ad un certo punto, ho dovuto pensare anche al mio futuro lavorativo, a cosa avrei potuto fare per sostentarmi e contribuire a mantenere le mie figlie, visto che non avrei mai più potuto varcare la soglia di una scuola come insegnante. Altro sbaglio irreversibile di cui mi sono resa conto troppo tardi. È stato proprio allora che ho ripensato allo zio Rocco che era stato camionista per tanti anni, dal suo ritorno dalla Svizzera fino alla pensione. Lo zio aveva lavorato per una ditta di spedizioni, aveva girato l’Italia e qualche volta sconfinato all’estero. Mi aveva portato tante volte con sé nei suoi giri e così avevo potuto visitare posti che altrimenti non avrei mai visto con i miei genitori. Ed è stato viaggiando con lui e ascoltando i suoi racconti che decisi che da grande avrei studiato per sfamare la mia curiosità e alimentare la mia immaginazione. Lungo quelle strade, macinando chilometri su chilometri, avevo immagazzinato, nell’occhio della mente, luoghi, paesaggi, cieli, terre, come fossero cartoline; avevo raccolto immagini di volti e corpi e con questi fantasticato di storie e vite. Nei momenti più bui spesso sono ricorsa a questo salvifico esercizio d’immaginazione per proiettarmi in un altro luogo e in un altro tempo, costruirmi altre identità e fuggire dalla mia.
Ma ora non ho paura di riconoscere i miei errori e ripercorrere il passato. La strada mi attende ancora e al mio fianco, forse, ci sarà di nuovo Dora ad ascoltarmi. Altre tappe, altri percorsi, caselli autostradali, centri commerciali, zone industriali, città e paesi, soste e viaggi, sempre sulla strada per fuggire o per ricominciare.

Dora sospira, forse sta sognando. Una strana e dimenticata dolcezza mi pervade mentre continuo a guidare.


La casa di campagna

La promessa

Il rito avrebbe dovuto aver inizio quando morì il nonno, venticinque anni prima.
Il giorno del suo funerale,dopo la sepoltura, si ritrovarono nella sala da pranzo della grande casa rossa e fecero la solenne promessa di rivedersi ogni anno in quella stessa casa per trascorrere qualche giorno insieme come quando erano stati bambini. Fin da piccolissimi, infatti, avevano passato le loro vacanze estive nella casa dei nonni in campagna, tutti i cugini riuniti. Arrivavano da posti diversi perché i loro genitori si erano tutti stabiliti “fuori”, chi in giro per l’Italia e chi all’estero. Quando il vecchio se ne andò,loro erano più o meno degli adolescenti e come tutti i ragazzi di quell’età erano mutevoli e svagati, poco propensi a mantenere le tradizioni di famiglia. Così, crescendo, finirono per sentirsi solamente al telefono e per farsi visita ogni tanto in occasione di qualche festa di laurea, matrimonio o battesimo. Sei anni prima, però, era morto Luciano, improvvisamente, stroncato da un infarto. Era il primo dei cugini, quello che il nonno aveva sempre portato in palmo di mano. Aveva appreso ogni cosa che il vecchio, considerandolo il suo degno successore, gli avesse insegnato sulla terra, le piante, i parassiti, i cicli naturali. Questa era la ragione per cui gli altri lo avevano guardato sempre con una certa devozione, che dipendeva non tanto dal fatto che fosse il maggiore per età, quanto, appunto, che godesse della benevolenza del nonno.
Sei anni fa, quindi, si erano radunati nuovamente per dare l’ultimo saluto a Luciano e fu in quell’occasione che Adele ricordò a tutti la promessa che si erano fatti da ragazzi, sostenendo che era arrivata l’ora di mantenere fede alla parola data. Così da quella volta si vedevano regolarmente tutte le estati nella casa in cui avevano trascorso una parte della loro infanzia.

Adele

Anche quell’anno Adele arrivò per prima, diede aria alla casa, preparò le camere e fece un minimo di spesa per tutti. Amava organizzare quell’incontro tra cugini ed era lei, sempre, a fare il giro di telefonate per chiamarli, anche perché fra tutti era quella meno “incasinata”. Col tempo aveva imparato a gestire molto bene la sua vita e a semplificare le cose e le relazioni con la stessa efficienza con cui gestiva il negozio di abbigliamento in centro a Pordenone. Aveva dato volentieri la sua disponibilità a mantenere i contatti e a sistemare la casa per tempo in modo che fosse pronta all’arrivo degli altri. Era legata a quei cugini da un sentimento di autentica amicizia, prima ancora che di parentela. Ci teneva a quella casa e temeva che potesse arrivare il giorno in cui qualcuno dei parenti avrebbe spinto per venderla. Da piccola aveva sempre aspettato con trepidazione il periodo delle vacanze con i cugini. Il momento più atteso era quello del riposino pomeridiano insieme ai più piccoli come lei, nel lettone matrimoniale, aspettando che la nonna socchiudesse i balconi per fingere subito di dormire e poi, appena chiusa la porta e rimasti soli, perdersi sotto le lenzuola, rotolarsi l’uno sull’altro, giocare con i cuscini, soffocando le voci e le risate per non farsi sentire. Ogni volta che metteva piede nella camera dei nonni le pareva di risentire i bisbigli,le risate sommesse e il fruscio delle lenzuola di cotone grosso, un po’ ruvide, odorose di bambini che avevano giocato all’aria aperta. C’era stato un periodo della vita in cui aveva desiderato più di ogni altra cosa avere un figlio, sarebbe stata pronta a qualsiasi rinuncia, ad ogni sacrificio, ma le sue storie sentimentali erano naufragate miserabilmente e si era ritrovata troppo presto invecchiata e senza un uomo accanto. Anche quel giorno, dando aria alla stanza e prendendo dall’armadio le lenzuola pulite, aveva provato una sensazione di vuoto nello stomaco e nella pancia, come se una ventosa le risucchiasse le viscere, lasciando un buco al loro posto. Si era dovuta sedere sul letto, respirare a fondo, massaggiarsi il ventre e ingoiare una pillola per tranquillizzarsi.
Dopo una doccia si sentì decisamente meglio e iniziò a prepararsi, scegliendo con cura gli abiti e il trucco. Anche questo l’aiutava a rilassarsi. In qualsiasi situazione il suo abbigliamento non era mai lasciato al caso, amava i tessuti pregiati e gli accessori semplici, ma non banali. Le piaceva il genere minimal e sofisticato che le desse un’aria ordinata e al tempo stesso un po’ altera,da donna sicura di sé, ma la sua amica Kitty non perdeva occasione per ricordarle che quello stile austero da signorina Rottermeier scoraggiava gli uomini a farsi avanti.
Dopo essersi guardata con compiacimento allo specchio, Adele si mise a ridere da sola immaginando la faccia contrariata dell’amica, poi scese al piano di sotto.
Tutto era pronto e in ordine, ormai e gli altri sarebbero arrivati in giornata.

Luisa

Luisa iniziò a suonare il clacson già in fondo al viale alberato. Adele le andò incontro.
– Ciao cara, sei sempre in perfetta forma – le disse Luisa scendendo dall’auto e trascinandosi dietro un piccolo yorkshire al guinzaglio che abbaiava come un forsennato.
– Ciao, tutto bene? Hai trovato traffico? Sempre isterico questo cane, vedo. Che cos’ha?”
– Povera, forse è un po’ stanca per il viaggio in macchina – rispose Luisa che cercava inutilmente di calmare la cagnetta tenendola in braccio e afferrandole la bocca.
– Avevi detto che forse venivi con Alessandra. Ci speravo, è tanto che non la vedo …. no, veramente ci siamo viste ieri su skype …. Vieni, entriamo, ti aiuto …
Prendendo la valigetta della cugina, Adele si diresse verso la casa facendo strada.
– Ti prendo un po’ d’acqua per il cane – le disse appena entrata in cucina.
– Grazie ….. vediamo se si calma. E’ sempre così agitata quando si trova in un posto nuovo. Magari gli metto anche delle crocchette. Noi ci beviamo un caffè? A casa non l’ho preso, ho pranzato, mi sono preparata e ho detto ” ragazzi vedetevela da soli, siete grandi, organizzatevi, io vado”. Ah, questa volta si devono proprio arrangiare, sono stufa di fargli trovare sempre tutto pronto. Devono crescere.
– Incredibile, non è da te – aggiunse Adele –Cosa ti è successo? Ti sei accorta finalmente che sono cresciuti … i pargoli?
– Sono troppo dipendenti da me, non va bene. Finora mi sono occupata sempre e solo di loro, adesso è arrivato il momento di imparare ad essere un po’ autonomi. Questa volta non mi sono fatta scrupoli.
Staccarsi dai figli era sempre un problema per Luisa. Aveva fatto fatica in quei cinque anni a lasciarli a casa da soli con il padre durante il suo soggiorno estivo in campagna. Avrebbe preferito portarseli dietro, ma loro non volevano saperne di seguirla e insistere era stato perfettamente inutile. Con i cugini parlava continuamente dei tre figli raccontando dell’ottimo profitto scolastico, dei successi negli sport, dei mille interessi che avevano. C’era sempre qualche aneddoto pronto che li riguardava.
In più, quest’anno avevano deciso di andarsene in vacanza per i fatti loro e lei a casa senza nessuno dei tre non si sentiva utile a niente, quindi per la prima volta aveva accettato volentieri di partire.
– Ale sarebbe venuta con me, ma poi ha deciso di rimanere a casa per fare compagnia ad un’amica che ha bisogno di essere tirata su di morale. Sai, poverina!, è stata promossa per il rotto della cuffia, ha un sacco di debiti formativi. Ha pregato così tanto Alessandra di aiutarla nello studio per recuperare i buchi, che lei non ha potuto dire di no. La Ale è troppo buona! Non sarebbe capace di dare un dispiacere a nessuno! Si faranno qualche giorno insieme al mare, nella casa dei genitori della ragazza, brave persone, eh!, per distrarsi anche un po’ … non solo studiare. Francesco in questo periodo pensa solo alle ragazze. Sapessi… tutte che gli corrono dietro, bello com’è! Dovresti vederlo, si è fatto proprio uomo! E’ più alto di suo padre, ormai. Anche lui sta organizzando con un gruppo di amici una vacanza da qualche parte. Prima che partissi, mi ha detto “Mamma, vai tranquilla”. Devo ammettere che sono proprio bravi i miei tesori. Pensa che il piccolo, per agevolarmi nei preparativi, questa mattina mi ha aiutato nei lavori di casa: si è fatto il letto, ha pulito il bagno ed è andato a fare la spesa.
Mentre diceva questo, Luisa seguiva con apprensione Milù che, dopo aver tuffato il muso nelle ciotole e aver sparso acqua e crocchette tutt’intorno, stava gironzolando nervosamente per la cucina. Non appena Milù si soffermava ad annusare qualcosa, Luisa
approfittava di quella breve pausa per estrarre il cellulare dalla borsetta aperta, appesa allo schienale della sedia, e buttare un occhio al display.
– Scusa controllo che i ragazzi non mi abbiano mandato qualche messaggio.
– Vuoi che sentano già la tua mancanza!?.. Ma se si sono appena liberati di te!– disse Adele ridendo.
Luisa contraccambiò con un sorriso forzato.

Ruben

Adele stava mettendo su il caffè, quando sentirono le ruote di una macchina avanzare sulla ghiaia del cortile e subito dopo una portiera sbattere. Luisa si alzò dalla sedia e si sporse per guardare dalla finestra, poi girandosi di scatto verso la cugina, con gli occhi spalancati per la sorpresa quasi gridò:
– Ma è venuto anche lui!? Guarda, c’è Ruben!.
Ruben aveva lasciato a casa la giovane compagna al nono mese di gravidanza, a tre giorni dalla scadenza del parto. Si era portato dietro le sue scorte di semini vari, seitan, tofu, salsa alle alghe ed altri ingredienti per la dieta vegana che seguiva ormai da anni, precisamente da quando aveva deciso di abbracciare una nuova filosofia di vita, diventando animalista e ambientalista al tempo stesso, sostenitore di tutto ciò che era no global. Ruben abbassò il cofano del bagagliaio, si spostò indietro le lunghe treccine rasta un po’ ingrigite e affrontò le due donne con piglio sicuro.
– Beh, che c’è? Non mi volete?!
– Dove hai lasciato Rebecca?- chiesero praticamente all’unisono le cugine.
– A casa, tranquille, è al sicuro. I maschi sono d’impiccio in questi casi, non possono essere d’aiuto. Abbiamo organizzato tutto perché la bambina nasca in casa e ad aiutare Rebecca ci siano la madre, le sorelle e un’amica, oltre al dottore se ce ne fosse bisogno. La presenza del padre è superflua, anzi rischia di interferire negativamente sull’aura mistica che si crea in quel momento, perché la nascita è comunque un’esperienza mistica che ti mette in contatto con le forze creatrici della natura. Il maschio, che non può avere il controllo sulla situazione, diventa nervoso, aggressivo e rompe la magia di un’esperienza che è unica nella vita di una donna … – poi, guardando le loro facce stranite concluse -…lo so, non pretendo che possiate capire.
Adele,che un attimo prima non aveva creduto ai suoi occhi vedendolo arrivare, ora non riusciva a credere neppure alle sue orecchie, mentre Luisa sbottò in un sincero commento di rimprovero:
– Tu sei tutto scemo! Una donna deve condividere con il suo uomo questo momento così “mistico”, come dici tu. Devi tornare a casa e subito, le stai vicino e le tieni la mano, la conforti con la tua voce e la tua presenza.- Poi rivolgendosi ad Adele:- Di’ qualcosa!
Ruben non le diede il tempo di aggiungere nulla, tornò fuori a recuperare il resto della roba che si era portato dietro, compreso il tappetino per gli esercizi di meditazione.
Rebecca chiamò cinque minuti dopo nel bel mezzo di un’animata discussione tra i tre e parlò al telefono con Luisa, spiegandole che Ruben se n’era andato perchè colto dal panico, ora che la nascita della figlia era imminente, terrorizzato all’idea di diventare padre. Dopo quella conversazione Ruben si chiuse in camera e chiese di non essere disturbato per nessun motivo, neanche se quella notte fosse nata anticipatamente sua figlia. Il mattino dopo quando si presentò in cucina per la colazione, trovò Edoardo che si imburrava una fetta biscottata leggendo il giornale, mentre la radio accesa trasmetteva il notiziario locale.

Edoardo

– Ciao – disse Edoardo – ho messo su un altro caffè, ti va?
Ruben fece un cenno di saluto con la mano e rifiutò la tazza di caffè perché quella mattina aveva mal di testa e aveva solo voglia di farsi una camminata nei campi o di andare in paese e trovare qualche faccia conosciuta, come quando da bambino il più delle volte non gli andava di unirsi ai giochi dei cugini e preferiva giocare da solo o con i figli dei contadini che davano una mano a suo nonno nel lavoro dei campi. Edoardo abbandonò la colazione sul tavolo e seguì Ruben fuori dalla cucina, fermandosi nel patio dove si accese una sigaretta mentre con lo sguardo seguiva il passo del cugino che si allontanava lungo il viale. Adele e Luisa gli avevano raccontato tutto, ma aveva preferito per il momento evitare qualsiasi commento, ben sapendo che sicuramente ci avevano già pensato le donne. Lanciò il mozzicone di sigaretta sulla ghiaia e sfilò dalla tasca dei pantaloncini il cellulare, quindi chiamò in azienda per vedere come andavano le cose.
– Pronto, Daniela, passami Antonio … ehm…ciao Toni, hai sentito i fornitori?
Dall’altra parte del filo una voce roca imprecò e bestemmiò, scatarrando una sfilza di suoni apparentemente incomprensibili, data la concitazione, intercalati, al contrario, da parolacce ben scandite. Alla domanda – ma tu dove cazzo sei finito?- Ruben chiuse la chiamata. Due minuti dopo sullo schermo comparve a chiare lettere il messaggio “pezzo di merda”.
Edoardo era arrivato durante la notte con il suo Cheyenne bianco, il Rolex d’oro al polso,l’ultimo modello di smartphone e un’amichetta che ora dormiva al piano di sopra. Non aveva rinunciato neanche questa volta ai suoi gadget di lusso, compresa la ragazza che viaggiava firmata da testa a piedi. Aveva commesso per la prima volta nella sua vita un grosso sbaglio investendo un sacco di soldi in un software per l’azienda, che doveva essere innovativo ed invece era risultato un grosso buco nell’acqua, e ora stava commettendo una vigliaccata e un’altra follia: mollare tutto, cambiare vita, proporre agli zii l’acquisto della casa e dei terreni, avviare un’azienda agricola e un agriturismo. Avrebbe chiesto ai cugini di intercedere per lui. Il nonno e Luciano,se fossero stati vivi, ne sarebbero stati orgogliosi.
Mentre pensava a come spiegare tutto questo, si ricordò del caffè sul fuoco che ormai era salito e stava gorgogliando fuori dalla moka, spargendosi sul fornello. Afferrò il manico della caffettiera e lanciò un urlo che quasi coprì il rombo delle due moto che si stavano avvicinando alla casa. Poi con le dita sotto il getto d’acqua fredda del rubinetto, fece seguire una serie di imprecazioni che neanche il suo socio Toni avrebbe saputo eguagliare.

Piergiorgio

Piergiorgio parcheggiò la sua moto sotto la tettoia della vecchia stalla. Tolto il casco, rivolse un balletto di saluto, come quelli che fanno certi calciatori dopo un goal, alle due cugine che raccoglievano fiori in giardino. Ridendo e cantando si avvicinò al patio, dove intanto si erano dirette anche Adele e Luisa. Diede un bacio con lo schiocco sulla guancia della prima, tenendola per le spalle e facendole fare un casque, mentre all’altra riservò un inchino e un baciamano. Ad Edoardo, suo fratello, che era sopraggiunto in quel momento, soffiandosi sulla mano ustionata, rifilò un pugno sotto il mento senza colpirlo.
– Allora, ci siamo tutti? Io ho portato un amico. Quello è Gianluca.
Il centauro al seguito era un ragazzone muscoloso con un sorriso da bambino. Piergiorgio lo presentò dandogli una pacca sulla spalla e sferrandogli due pugni in pancia. Si sentì il suono sordo dei suoi addominali che si contraevano e mentre cercava di rispondere ai saluti si riparava dai colpi. Piergiorgio non aveva mai confessato apertamente la sua omosessualità anche se questa non era ormai più un segreto, almeno non per i cugini. Preferiva dare di sé l’immagine di un simpatico ragazzaccio, sportivo e burlone, pronto alla battuta. Viveva ancora con la madre, alla quale non avrebbe mai potuto dare un dispiacere e detestava la parte del gay piagnucoloso e sentimentale, depresso per la sua condizione. Poteva essere quello che era senza bisogno di sbandierarlo, in fondo, a suo modo, era un conservatore, ci teneva alla forma, rispettava le convenzioni e pensava che salvare le apparenze fosse una scelta doverosa per mantenere gli equilibri e non danneggiare nessuno. Anche il rito di ritrovarsi ogni anno in quel luogo era una tradizione da rispettare, un’abitudine che rinsaldava i legami, l’amicizia, i valori della famiglia. Finalmente all’ora di pranzo si ritrovarono tutti riuniti a tavola. Nel frattempo erano arrivate anche le ultime due ospiti.

Ilaria e Giovanna

Erano comparse improvvisamente sull’uscio della cucina, sudate, con la bandana in testa, i guantini mezzodito e i pantaloncini da ciclista rinforzati sul posteriore. I pantaloncini aderenti in materiale tecnico mettevano in mostra la pancia gonfia di Ilaria e le vene grosse e bluastre di Giovanna, ma si capiva che da giovani erano state due belle donne. Avevano ancora un bel seno, alto e un sedere piccolo, un corpo proporzionato. Da ragazze erano state due atlete promettenti e avevano praticato sport diversi, primeggiando da agoniste nel nuoto. Da adulte poi avevano sempre continuato a fare dell’attività fisica.
– Ehilà, avete iniziato a mangiare senza di noi?
Si alzò un coro di voci: – Eccole!… Ben arrivate!…Vi stavamo aspettando!… Ciao belle!… Carissime….
– Dai dai, su, mettetevi a tavola, è quasi pronto – Adele le invitò a sedersi, ormai la pasta era quasi cotta.
– Ci rinfreschiamo un attimo e arriviamo.
Si presentarono a tavola con magliette pulite, capelli pettinati e raccolti sulla nuca da mollettoni colorati.
– Che brave, ve la siete fatta tutta in bicicletta! Quanti chilometri? – chiese Ruben
– Una sessantina. Ma se non fosse per questo caldo, non sarebbe un problema pedalare.
Ilaria si versò subito del vino rosso nel bicchiere e se lo trangugiò di gusto. Era irresistibilmente fresco. La sorella la guardò per un attimo di traverso, poi le disse qualcosa sottovoce mentre gli altri applaudivano al piatto di pasta che veniva appoggiato al centro della tavola. Ilaria si avventò con la forchetta sugli spaghetti fumanti, ma Giovanna le bloccò il braccio con aria infastidita.
– Che palle che sei! Ne volevo prendere solo uno per assaggiare! Questa crede di essere la sorella maggiore, invece la più vecchia sono io, fino a prova contraria, visto che sono uscita dopo di lei. Ditele di stare al suo posto per favore. D’accordo che mi mantieni, ma non sono una bambina!
A queste ultime parole, la risata iniziale che si era levata spontanea fu smorzata da un certo imbarazzo. Per fortuna la pasta stava per essere messa nei piatti e questo distolse l’attenzione dal discorso.
Dopo la separazione di Ilaria dal marito, le due gemelle avevano ripreso a vivere insieme e Giovanna era la sola ad avere un lavoro. Era lei che provvedeva alla sorella e ne sosteneva le cure e la terapia per la disintossicazione dall’alcool. Ilaria era sempre stata più esuberante ed estroversa, ma in un certo qual modo più vulnerabile. Quando si era sposata, dopo aver avuto un sacco di uomini e fidanzati, Giovanna ne aveva molto sofferto ma senza darlo a vedere. Aveva aperto una palestra e si era buttata a capofitto nel lavoro. Non si era mai sposata, solo qualche flirt e brevi storie. Il marito di Ilaria era scomparso all’estero dopo dieci anni di matrimonio, un figlio nato morto, due aborti spontanei, senza dare più notizie di sé, lasciando la moglie nella disperazione totale e senza un soldo. Giovanna stava facendo di tutto per recuperare quella sorella che stava annegando nell’alcool. Era disposta anche a sopportare in silenzio le sue battute sarcastiche e i modi insolenti. L’anno prima l’aveva dovuta portare via da quella casa, caricandola sull’auto di peso, a un niente dal coma etilico. Quest’anno sarebbe andata diversamente, se l’erano promesso.

Margherita

Durante la prima portata, Edoardo non fece altro che ricordare i bei tempi passati, quando loro erano bambini, Luciano era il capobanda e il nonno godeva ancora di buona salute ed era in grado di gestire la tenuta. Mentre la fanciulla al suo fianco con una mano mangiava e con l’altra mandava sms, lui si sdilinquiva nel raccontare episodi della loro infanzia e nel rammentare gli anni fulgidi dell’azienda del nonno, tuttavia fu solo alla fine del dolce che trovò il coraggio e le parole per fare la sua proposta. Calò subito un assordante silenzio nella cucina, poi sembrò che le posate si muovessero di moto proprio,come se non ci fosse nessuno a tenerle in mano e a comandarle. Per fortuna il cellulare di Luisa squillò: era la madre di Rebecca che informava che la bambina stava per nascere, le acque si erano rotte. Luisa supplicò Ruben di rinsavire e di ritornare a Spoleto dalla compagna a fare il suo dovere di padre. Anche questa volta non potè fare a meno di citare il suo meraviglioso rapporto con i figli, la felicità di essere madre, l’importanza di avere condiviso ogni momento con il marito, comprese le gravidanze e i parti. Ruben senza spostare lo sguardo dal piatto continuò a mangiare indisturbato,come se la cosa non lo toccasse. Ilaria approfittò del momento di confusione per scolarsi indisturbata un altro bicchiere. Adele si sentiva non solo responsabile per quella situazione ma era anche terribilmente imbarazzata rispetto alla richiesta di Edoardo. Di solito aveva la risposta pronta e sapeva sempre come uscire d’impaccio (anni di psicoterapia comportamentale le avevano insegnato qualcosa),invece era agitata e incapace di prendere qualsiasi iniziativa. Sentiva che aveva bisogno di ricorrere alle sue benzodiazepine che teneva sempre in borsetta, la quale in quel preciso momento si trovava sulla madia dietro il posto dove ora stava seduto Gianluca. Quando fece per estrarre la confezione, la scatola le cadde a terra e il ragazzo fu velocissimo, con quelle braccia lunghe, a raccoglierla, il che sarebbe stato un gesto gentile da parte sua, se però avesse evitato di leggere il nome del farmaco; invece con il massimo candore pronunciò a gran voce il nome dell’ansiolitico scandendone bene le sillabe e aggiungendo:
– ….. il principio attivo è il delorazepam, ottimo contro gli attacchi di ansia acuta e di panico. Lo conosco, funziona! – concluse convinto, appoggiando la scatola sul tavolo accanto al suo piatto.
Subito Piergiorgio si sentì in dovere di precisare con evidente soddisfazione: – E’ al quinto anno di medicina!- e gli accarezzò la coscia muscolosa sotto il tavolo, voltandosi verso di lui con un sorriso compiaciuto.
Adele, però, non si sentì più leggera dopo aver appreso quella notizia, in compenso nella stanza aumentò il clima di imbarazzo collettivo, che ancora una volta fu rotto da una chiamata telefonica. Con apprensione Luisa afferrò il cellulare, poi guardò i commensali con occhi lucidi e sorriso radioso.
– E’ nata Margherita! La piccola sta bene e la madre pure!- annunciò con voce quasi commossa, ma non ci fu il tempo di girarsi verso Ruben per le congratulazioni di rito perché Edoardo immediatamente aggiunse: – Ecco la chiamerò così, Margherita… Tenuta Margherita..in onore all’ultima arrivata, che ve ne pare? Seguì una risata liberatoria e un brindisi festoso. In fin dei conti la tradizione continuava. Ne avrebbero discusso con calma anche il giorno dopo.
Ilaria si illuminò in volto, le piccole venuzze rossastre sul viso si schiarirono e si dichiarò disposta a dare una mano nella Tenuta Margherita, vedendo la prospettiva di un lavoro fattibile per lei e di una possibile ripresa.
Adele pensò che era un bene che qualcuno prendesse in mano la casa e si occupasse dei terreni ed era senz’altro felice al pensiero che fosse uno di loro a proseguire l’attività del nonno. Rimettendo la scatola del farmaco nella borsa, cercò di persuadersi che forse nel trambusto gli altri non avevano fatto poi tanto caso alle sue medicine. Fu in quel momento che le arrivò un messaggio sul telefonino, era di Alessandra: “Ciao zia, mi dispiace ma non vengo, stare un po’ lontano dalla mamma mi fa bene! Baci Ale”.


 La prova di sopravvivenza

– Mi chiamo Rebecca e sono un IDA cioè un “Individuo Debole e Attaccabile”. Sono stata nominata dai miei professori perché sto subendo da due anni i maltrattamenti dei miei compagni di classe, in particolare quelli di Jenny che io chiamo Balbù-zebù, ma lei non lo sa, almeno non fino ad ora. Comunque sono una ragazza tranquilla, non do fastidio a nessuno e non capisco perché gli altri se la prendono con me.
-Salve, sono Jenny e dicono che sono un IP “Individuo Prepotente”. Mi trovo qui perché a mio carico ci sono alcune denunce di bullismo da parte dei miei compagni e dei loro genitori, in particolare quelli di Reb che sono tutti i santi giorni in presidenza a lagnarsi di me. Ma i miei sono solo scherzi, tanto per divertirsi, mica ho mai fatto male a nessuno! Io, comunque, quella lì non la sopporto, è più forte di me! Non sopporto neanche quei due vecchi rognosi dei suoi genitori che non hanno il senso dell’umorismo. Andrebbero puniti loro e non io.
Per dire queste parole Jenny aveva sudato parecchio, si era dovuta concentrare molto e prendere più volte fiato per evitare di balbettare. Era rimasta più di una volta con la bocca aperta in attesa che le parole le uscissero fuori.

-Bene Rebecca e Jenny, ora vi leggeremo la relazione presentata dal Consiglio di Classe così conoscerete le motivazioni che hanno spinto i Maestri a rinunciare all’azione educativa nei vostri confronti e a nominarvi in extrema ratio per la prova.

Oggi, 16 marzo 2075, il Nobile Consiglio dei Maestri della classe Seconda A della Scuola Superiore dei Licei Riuniti, prende in esame il Rendimento Scolastico e la Condotta Morale delle allieve Rebecca Castrelli e Jenny Bumbado. L’alunna Castrelli ha un rendimento scolastico sufficiente in tutte le materie, raggiunge di norma il sei nei test scritti, a volte anche il sette, altrettanto non si può dire per le interrogazioni orali durante le quali abbassa la testa, biascica risposte vaghe o incomprensibili, dato il tono di voce impercettibile, o addirittura si mette a ridere per minimizzare la situazione. Durante le lezioni non partecipa mai con osservazioni personali o domande, evita il contatto oculare con l’insegnante, non prende appunti, spesso guarda fuori dalla finestra o un punto nel vuoto davanti a sé. Sembra assente e svogliata. È spesso bersaglio di scherzi da parte dei compagni, ai quali reagisce ridacchiando. Non osa contraddirli o rispondere con un rifiuto o l’indifferenza alle loro richieste e provocazioni. L’atteggiamento è quello del cagnolino che si mette a pancia all’insù, in segno di massima sottomissione. Talvolta si vanta con i compagni di cose improbabili: dice di conoscere personaggi famosi dello spettacolo, di essere corteggiata da molti ragazzi, specialmente dai più ammirati e ambiti della scuola, di essere un hacker capace di entrare nei sistemi informatici dei governi. I compagni inizialmente fingevano di darle corda e di crederle per lasciarla parlare e divertirsi alle sue spalle, ora la sbeffeggiano apertamente.
L’alunna Bumbado ha un rendimento scolastico insufficiente, nello scritto difficilmente raggiunge un sei, nell’orale si arrampica sugli specchi, azzardando perlopiù risposte casuali. Tende a mettere in discussione quanto viene detto dagli insegnanti, verso i quali ha spesso un atteggiamento di sfida. In classe disturba se non trova altro di meglio da fare, per esempio dipingersi le unghie, tatuarsi le braccia o usare il telefonino. Inneggia spesso al “potere nero” sostenendo apertamente la superiorità della gente di origine africana, ogni pretesto è buono per tirare fuori questi argomenti. Gli insegnanti non sopportano i suoi atteggiamenti da primadonna, non avendo questa alunna alcun merito scolastico da vantare; al contrario c’è un gruppo di compagni che sembra apprezzare molto le sue sceneggiate. Una delle occupazione preferite della signorina Bumbado è quella di infierire sui compagni più deboli con parole pesanti e atti di bullismo. In particolare ha preso di mira la compagna Rebecca Castrelli. Le ha passato lo smalto per unghie sui capelli mentre quella era seduta nella fila davanti e, immersa come al solito nei suoi pensieri, non si è accorta di niente; le ha appiccicato sulla schiena un foglio con su scritto “sono scema”, facendo ridere mezza scuola al suo passaggio; le ha nascosto i vestiti durante la lezione di ginnastica, così tornata dalla palestra non ha più trovato gli abiti per cambiarsi e ha dovuto trascorrere la mattinata in pantaloncini corti e maglietta, subendo i commenti pesanti di alcuni maschi; l’ha convinta a seguirla in bagno e, di fronte a un gruppetto di spettatori, bere birra dalla bottiglia e fumare uno spinello, inventandosi un rito iniziatico indispensabile per essere ammessi ad un nuovo e fantomatico club studentesco; infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso: la manomissione di un compito d’italiano lasciato incustodito nel tablet per cinque minuti, integrato furtivamente con la complicità della vicina di banco della Castrelli con parolacce ed insulti rivolti alla professoressa.
A fronte dei fatti suddetti, i Maestri all’unanimità ritengono le alunne Rebecca Castrelli e Jenny Bumbado inadatte alla vita sociale della classe, in quanto sprovviste finanche delle minime competenze sociali richieste. Preso atto dell’inefficacia di qualsiasi misura educativa adottata fino ad ora, esaurite le forme punitive consentite dal Sistema Scolastico, appurata l’inettitudine dei genitori, il Nobile Consiglio rimanda al Comitato Supremo per l’Educazione del Cittadino qualsiasi altra azione da intraprendere.

-Arrivati a questo punto, Rebecca e Jenny conoscete che cosa vi attende: la prova di sopravvivenza! Se riuscirete a cavarvela da sole, trovando forme di collaborazione e aiuto reciproco, sarete riammesse a scuola e vi attenderà la grande festa del “Ritorno”, in caso contrario, saremo costretti ad intervenire noi in vostro soccorso, ma non avrete più diritto ad entrare a scuola, sarete destinate ai lavori nelle campagne fuori dalle mura della città, fino al compimento della maggiore età, quando deciderete che cosa fare: se restare o tentare con un’altra prova di essere reintegrate nella comunità degli individui sociali. Ora, preparatevi, sarete presto trasferite nella foresta degli Alberi Silenti, alcune telecamere nascoste e dei droni vi riprenderanno, noi vi seguiremo attentamente, a sera trasmetteremo una sintesi della vostra giornata sul canale nazionale EXTRAEDUCATION. Buona fortuna!
Lo schermo si spense. Le ragazze rimasero da sole nelle loro camere all’interno del Collegio Giovanile Rieducativo. L’indomani, nel pomeriggio, furono calate da un elicottero nella foresta e abbandonate in due luoghi diversi.

Avevano a disposizione poche cose: un coltellino, un saccopelo, una borraccia, una torcia, una corda, un rotolo di nastro segnaletico bianco e rosso, qualche abito, uno spazzolino da denti, una scatola di aspirine; niente cellulare, mp3, orologio, bussola. Pochi alimenti, il necessario per la sopravvivenza di qualche giorno: qualche scatoletta, alcune barrette, del pane, un po’ di olio d’oliva, un pacco di pasta. Una aveva a disposizione un piccolo fornelletto a gas e un accendino, l’altra un pentolino. Volenti o nolenti dovevano cercarsi e dimostrare, almeno all’apparenza, di andare d’accordo. Trovarsi non fu semplice, ma nessuna delle due faceva neppure lo sforzo per rintracciare l’altra, questo almeno nei primi due giorni, quando le scorte erano ancora sufficienti, ma il terzo giorno iniziarono entrambe a perlustrare la foresta con la speranza di incontrarsi. La foresta era di tipo planiziale, non presentava grosse insidie, era attraversata da piccoli ruscelli, acqua ce n’era in quantità, non esistevano specie pericolose di animali, al massimo c’era il rischio di imbattersi in qualche cinghiale. Ma queste erano ragazze abituate ai confort della città, alle loro case sicure, agli apparecchi elettronici, a comunicare in qualsiasi momento con chiunque avessero bisogno o voglia. Non erano in grado di riconoscere nessun suono naturale, nessun verso d’uccello o d’animale terrestre che non fosse il cane o il gatto. Non sapevano capire che ore fossero: così abituate ad affidarsi al display del loro cellulare, non avevano mai fatto caso alla lunghezza delle ombre né tantomeno alla diversa intensità della luce nell’arco della giornata. Non sapendo di cosa aver paura in quel luogo sconosciuto, avevano paura di tutto e cominciarono ad immaginare bestie feroci che potevano comparire da un momento all’altro e, influenzate dai racconti fantasy che avevano letto, sospettavano che da qualche parte si nascondesse una creatura con vaghe fattezze umane interessata a catturarle. Passati, dunque, i primi due giorni, iniziarono a spostarsi e a chiamarsi a gran voce per farsi sentire. Jenny cominciava ad avvertire la fame, ormai le era rimasta una barretta soltanto. La notte prima aveva sognato di mangiarsi l’hambuger con il ketchup e la senape e ora avrebbe dato qualsiasi cosa per bersi una Coca-Cola. Non era proprio quello che si dice un figurino, Jenny, tuttavia si considerava in diritto di prendere in giro Rebecca per i suoi denti storti e per essere senza tette. Camminare non le piaceva per niente e i rotolini di grasso non l’aiutavano, perciò era costretta a fare spesso delle pause e bere. Ora però le mancava anche l’acqua e non c’era nelle vicinanze nessun ruscello. Sentì all’improvviso uno strano fruscio di foglie e pensò a qualche belva affamata che avesse sentito il suo odore, il tempo di girarsi e intravide da lontano la Castrelli e si lasciò scappare un benvenuto nel solito stile:
-Stronza! Per…perché non t… ti fai riconoscere?
Rebecca sbuffò, questa volta non ammiccò in alcun modo, posò lo zaino e chiese:
-Come va?
-Come vu…oi che vada? Ho fame. Ti è rimasto qualcosa?
-Sì, adesso vedo. – Aprì lo zaino e tirò fuori una scatoletta di carne e una di fagioli e le lasciò scegliere quella che preferiva. Ovviamente la carne.
-Hai anche dell’acqua?
-Sì, ecco. Ho appena riempito la borraccia.
Seguì qualche minuto di imbarazzo, non avevano altro da dirsi. Jenny non riusciva neanche a guardarla in faccia, la considerava responsabile di quella situazione e sentiva di detestarla con tutta se stessa. Evitava di girarsi verso di lei per non rischiare di insultarla ancora una volta, tuttavia le fece notare con poco savoir faire che non aveva un buon odore: – Come puzzi!
Rebecca replicò: – Anche tu,però,.. sentissi..!!
Dopo un secondo di silenzio scappò a tutt’e due da ridere. Il Comitato assegnò a questa risata un ottimo punteggio, annullando quello negativo attribuito per il “gentile” appellativo con cui Jenny aveva accolto poco prima la sua amica. Trovarono un posto dove dormire e il giorno seguente si costruirono un piccolo riparo con la legna raccolta da terra e gli indumenti che non avevano ancora avuto bisogno di utilizzare. Jenny tendeva ad essere sprezzante nei confronti di Rebecca, ma doveva riconoscere che Reb ci sapeva fare con le mani ed era riuscita a tirare su la capanna quasi da sola e per una volta senza tanti risolini, quelli fastidiosi da ochetta che a lei davano tanto sui nervi. L’aveva vista, al contrario, molto presa dal suo lavoro e compiaciuta dell’esito finale. In effetti, Rebecca si era quasi meravigliata di se stessa e si sentiva forse per la prima volta orgogliosa di qualcosa che aveva fatto con le sue mani e che era utile a sé e a qualcun’altro. Comunque Jenny non le voleva dare troppa soddisfazione né intendeva farsi degli scrupoli. Durante quel pomeriggio, mentre Rebecca si era data un gran da fare, lei aveva sentito i morsi della fame. Si era avvicinata allo zaino della compagna, aveva sbirciato dentro e aveva visto un paio di scatolette di tonno con piselli e mais. Le ultime. Pensando che la Castrelli avesse ricevuto più cibo di quanto fosse toccato a lei, si sentì giustificata ad appropriarsi di quelle due scatole. Senza farsi notare le sfilò dallo zaino e con la scusa di dover fare pipì, si trovò un posto comodo per consumare in pace e lontano dagli occhi dell’amica il suo pasto.
-Dove eri finita? – le chiese Rebecca che stava completando la copertura della capanna, quando la vide ritornare.
– Mi sono p..persa, c’ho impiegato un po’ a.. a ritrovarti.
– Ok, ho quasi finito, poi possiamo mangiare, ho ancora un paio di scatolette.
-Mmh- fece Jenny senza essere minimamente preoccupata.
Rebecca si diresse verso lo zaino, infilò una mano dentro, iniziò a frugare e a cercare inutilmente le due scatolette. Poi alzò lo sguardo e vide Jenny che sghignazzava.
-Che cosa vuoi? Smeee..ttila di guardarmi con quella faccia, a.a..avevi più roba da mangiare di me!…Dimmi dov’è l’acqua che vado a prenderne un po’.
– Adesso ti arrangi. Trovatela!- Per la seconda volta Rebecca si stupì di se stessa. Era stanca, non aveva niente da mangiare, era da sola in quella maledetta foresta, aveva raccolto la legna, l’aveva legata, piantata a terra e aveva fatto quasi tutto da sola: ora non aveva proprio voglia di ridere per il solito scherzo idiota di Balbù.
Jenny sbuffando, prese la borraccia e iniziò a mettersi alla ricerca dell’acqua. Cominciava a fare buio, aveva paura di allontanarsi e di perdersi, si era pentita di non aver preso la torcia, ma non poteva tornare indietro e fare una figuraccia. Improvvisamente vide uno dei nastri bianchi e rossi che Rebecca aveva legato intorno agli alberi per ritrovare il punto di partenza, il luogo dove era stata lasciata il primo giorno. Allora si sentì più sicura e continuò la strada, sapendo che lungo quel percorso la sua amica aveva trovato il ruscello e riempito la borraccia d’acqua che le aveva offerto quando si erano incontrate. Altri nastri legati ai rami qua e là, la incoraggiavano a proseguire. Finalmente sentì l’acqua scorrere poco lontano, iniziò a correre ed era quasi arrivata al piccolo rio quando….-AAArrggh…- si sentì mancare la terra sotto i piedi e precipitò in una buca profonda circa due metri. Le ginocchia e la schiena le facevano male, aveva sbattuto anche la testa all’indietro contro le pareti di terra. Guardò in alto e provò a saltare, ma non riusciva a raggiungere il bordo, provò a scalare le pareti scavando via un po’ di terra per infilarci le punte dei piedi. Ogni volta ricadeva all’indietro. Iniziò ad agitarsi e a tremare. Era finita nella trappola destinata a qualche animale. “Oh, dio. Chissà chi si sarebbe affacciato fra un po’ a quel buco!” Chiamò Rebecca, urlò più volte il suo nome, piangendo e pregando. Rebecca che si era addormentata, si svegliò dopo qualche ora di soprassalto e non trovando Jenny nel suo saccopelo non riuscì più a riaddormentarsi , ma non ebbe il coraggio di muoversi da lì finchè non arrivò l’alba, poi si caricò lo zaino in spalla e partì sperando di ritrovare Jenny. Il cielo si stava schiarendo, Jenny sentì dei passi che si avvicinavano e iniziò a chiamare con voce flebile: non sapeva se era meglio farsi sentire, sperando che ci fosse qualcuno in suo aiuto, o se era preferibile starsene lì buona e zitta per paura di veder comparire un volto o un muso terribile sopra di sé. Vide invece la faccia di Reb, che dopo averla fissata in silenzio le disse:- Ciao!
L’aiutò a risalire in superficie, calandole nel buco la corda. Jenny ricadde dentro ancora un paio di volte, rischiando di tirarsi dietro anche Rebecca, ma alla fine riemerse. Non pronunciò neanche un grazie, però tenne la testa bassa, fingendo apprensione per le sbucciature sulle gambe e le unghie rotte, anche se in realtà si vergognava tremendamente. Provava dolore dappertutto e avrebbe voluto appoggiarsi a Reb, ma si sentiva già abbastanza umiliata per farlo, perciò camminò con le sue gambe fino alla capanna seguendo l’amica come un cagnolino bastonato, lagnandosi e rimanendo sempre indietro. Rebecca per di più le aveva mollato lo zaino, ritenendo che non toccasse più a lei fare quella fatica: si sentiva in vantaggio e cominciava a provarci gusto. Si poteva anche permettere di dettare qualche condizione, finalmente! Jenny,invece, quel giorno non potè fare altro che stare in silenzio. Era meglio non rimbeccare in nessun modo. Così, quando Reb , guardandola bene in faccia, le disse apertamente “Sembri uno spaventapasseri di colore”, Jenny ingoiò il rospo senza fiatare. In fin dei conti aveva ragione: le treccine nere si erano disfatte e i capelli sfuggiti sembravano quelli di un personaggio dei fumetti colpito da una scossa elettrica, il viso coperto di striature bianche lasciate dalle lacrime e dal moccio pareva che fosse stato solcato da tante lumachine, qua e là aveva graffi sporchi di sangue e di terra e i vestiti strappati. Se si fosse vista allo specchio non si sarebbe riconosciuta; sicuramente non si era mai sentita così male e a disagio.
Nel frattempo i genitori delle due ragazze da casa seguivano con apprensione la prova, in particolare quei momenti così difficili. I compagni parteggiavano soprattutto per Jenny, mentre i professori, pur auspicando pubblicamente di attendersi una riconciliazione tra le due, erano segretamente contenti che Jenny si trovasse in maggior difficoltà e avesse quel che si meritava.

Rebecca il primo giorno era stata intenzionalmente lasciata al margine del bosco (la vittima meritava di essere avvantaggiata) e aveva così scoperto che poco oltre la fitta vegetazione iniziavano i campi coltivati, le serre, gli allevamenti, i bei giardini botanici, i parchi e i piccoli orti sociali. Quel lato della foresta per fortuna confinava con la campagna che riforniva i mercati della città e serviva soprattutto a sfamare la sua popolazione. Ci era andata tante volte: in gita con la scuola in visita alle aziende agricole oppure la domenica con la famiglia per il pic-nic in qualche parco. Quell’area super controllata e protetta era accessibile ai cittadini comuni solo la domenica. Per entrarvi in qualsiasi altro momento era necessario un particolare permesso rilasciato dall’USUT, Ufficio per la Salvaguardia dell’Ultima Terra. In quelle campagne che si estendevano a perdita d’occhio nella pianura lavoravano anche molti “asociali”, individui reietti che venivano sfruttati nei lavori più umili e guardati a vista da sorveglianti armati . La maggior parte di essi viveva nelle aree magredili lungo i fiumi carsici, dove ormai le terre non erano più fertili e vi crescevano solo pochi ciuffi d’erba e qualche strana varietà vegetale, zone off- limits dove era meglio non avventurarsi in nessun momento della giornata e non solo per la presenza di numerose discariche, ma anche e soprattutto per la tipologia umana poco raccomandabile che vi abitava. C’erano i poveri più poveri, i disperati, i deboli, i disadattati e i violenti che non erano mai riusciti ad accettare e rispettare le regole della vita sociale. Fuori dalla città, oltre la foresta, dopo le campagne, si estendevano le lande desolate degli ultimi.

I genitori di Jenny l’avevano portata raramente fuori città e lei di solito marinava la scuola nelle giornate in cui era prevista un’uscita didattica, preferendo trascorre quelle ore in qualche underground-bar, locali sotterranei dove si beveva, si mangiava junk food e si ascoltava musica alternativa tutto il giorno; oppure nelle virtual towers, dove vi erano modernissime sale giochi e cinema che proponevano i film in 4D ( la quarta dimensione era quella sensoriale con possibilità di selezionare tipo e intensità di sensazioni).
Spinte dalla fame , raggiunsero il margine della foresta e, calato il buio della sera, entrarono in un piccolo orto sociale per raccogliere le primizie. C’era il ben di dio: insalatina fresca, radicchietto, rapanelli, asparagi, basilico, menta,… Rebecca conosceva quasi tutte le varietà presenti, Jenny aveva deciso di fidarsi e tirava su da terra tutto quello che poteva. Poi s’intrufolarono in un pollaio , ma sul momento questa non sembrò una buona idea, visto che si trovarono davanti un cane che le accolse ringhiando. Jenny cacciò un urlo e fece per scappare, ma fu trattenuta dai denti del quadrupede, di piccola taglia ma di grande tenacia, che non intendeva mollarle il polpaccio. Allora terrorizzata fu costretta ad implorare l’amica d’aiutarla:- Ti prego, aiuto. Fa qualcosa!- Questa, prima recuperò le uova, poi usò l’accendino e un bastone per allontanare il cane e permettere alla compagna di liberarsi e darsi alla fuga. Una volta nel bosco, preso fiato, si abbracciarono congratulandosi per il successo con cui avevano portato a termine l’impresa. Finalmente avevano trovato di che sfamarsi nei giorni successivi! L’abbraccio decretò praticamente la fine della prova. Ritornarono alla base e mettendo insieme ciò che avevano a disposizione riuscirono a cucinarsi due uova a testa. Condirono un po’ d’insalata con qualche goccia d’olio e mangiarono alla grande! Il fuoco del fornelletto faceva allegria e cominciarono a chiacchierare raccontandosi aneddoti della loro infanzia. Rebecca ad un certo punto iniziò a singhiozzare: pensava a quanto tempo ancora avrebbero dovuto rimanere isolate in quel posto. L’altra che non sopportava chi rideva per niente, ma non poteva resistere davanti alle lacrime di nessuno, si sentì stringere il cuore e per la prima volta provò tenerezza per quella sua strana amica. Le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse piano a sé : poteva capirla, anche lei avrebbe pianto volentieri se ne fosse stata capace, si trovavano nella medesima situazione, stavano provando le stesse paure, ma erano insieme e potevano farcela. Voleva farcela! Lo disse anche a Rebecca “ Vedrai che ce la faremo” e mentre lo diceva aveva preso ad imitare la voce e i gesti di Mr. Double il giovane conduttore transgender di un programma musicale televisivo che spopolava tra i giovani. Da lì iniziò una carrellata di imitazioni e Rebecca divertita smise subito di piangere. Jenny aveva un grande seguito proprio per questo: era istrionica, un’attrice nata, amava esibirsi e attirare l’attenzione. In ogni momento era capace di metter su un teatrino. Ma questo a scuola non era molto compreso né apprezzato e lei lo sapeva bene. D’altra parte, imitare dei personaggi, giocare con la voce, interpretare dei ruoli erano l’unico modo per non balbettare. Se immaginava di essere qualcun’altro si dimenticava di incespicare nelle parole e riusciva a parlare con scioltezza.

Trascorsero insieme ancora tre giorni nella Foresta degli Alberi Silenti. Giusto per scrupolo il Comitato aveva voluto attendere ancora un po’ prima di dare termine alla prova e verificare che quegli approcci amichevoli fossero genuini e consolidati. Quando videro l’elicottero sorvolare le loro teste, Jenny e Rebecca alzarono le braccia al cielo, gridando dalla gioia. Prima di scendere a terra e andare incontro alle rispettive famiglie, le telecamere riuscirono a rubare il loro ultimo scambio di battute.
-Ciao Reb ci vediamo presto.
-Ciao Balbù-zebù.
-Che hai detto? Non ho capito…. Bal..?..Belbu..?
-Balbù-zebù…. Sei tu! È il nome che ti ho dato, è il tuo soprannome.
-E che vuol dire?- chiese Jenny con aria stranita.
-Balbù perché sei balbuziente e zebù perché sei nera e cattiva come belzebù.
-Ahhh!!… E… e brava Rebeee-cca ! Attenta, che domani vado dal preside e…e..e.. gli dico che mi ..mi ..mi..p.. preeendi in giro.
Così dicendo le strizzò l’occhio. Rebecca, invece, le mostrò la lingua.
Il Comitato fu molto soddisfatto del risultato ottenuto. Gli sponsor della trasmissione lo furono anche di più, visto lo share raggiunto durante tutte le puntate trasmesse. La scuola ne ricavò un’ottima pubblicità e soprattutto un aumento di finanziamenti sia pubblici che privati. Pochi insegnanti sapevano ammettere il loro limite educativo e la decisione ultima e ben ponderata di ricorrere al Comitato e dunque alla prova di sopravvivenza aveva dato dimostrazione di senso d’umiltà e capacità di discernimento da parte dei Consiglio dei Maestri. In questo modo avevano reso possibile il recupero di due giovani donne che potevano ora a pieno titolo far parte degli individui sociali, vivere all’interno della città godendo di tutte le opportunità che essa offriva. Fuori dalle sue mura rimanevano gli asociali.