IL PITTORE DELLA CORLA

Percorreva la strada polverosa, che serpeggiando si allungava verso la pianura quasi scomparendo in fondo. Aveva abbandonato il frastuono di un’esistenza vissuta nel lusso di palazzi in terre lontane. Dopo monti immensi, pianure, genti dagli idiomi incomprensibili, era giunto sotto quel cielo con il silenzio delle nuvole, la voce di nuove albe, il profumo di una terra diversa e sentiva ritrovato in sé la forza della bellezza che aveva smarrita molto tempo addietro. Il cavallo sollevava una polvere densa e biancastra mentre si avvicinava ad un boschetto di carpini oltrepassati i quali, entrò sotto una volta vegetale dove filtravano a fatica i raggi del sole di inizio estate. Il sentiero si era rimpicciolito e rivestito di erba rada, di fitto muschio, e grandi alberi centenari esprimevano la forza antica di una natura misteriosa, ancora complice di antiche credenze. Radici contorte affioravano per poi sprofondare nelle profondità della terra, rettangoli di verdi muschi adornavano il sentiero arrampicandosi sui tronchi, e lunghe erbe si spettinavano al passaggio del cavaliere. Querce come poderose sentinelle, segnavano i lati del percorso coprendolo con il loro fitto e rigoglioso fogliame, poi un filo di nebbia aleggiò a mezz’aria, ondeggiante, fluttuante in quel mondo magico. Egli procedeva senza fretta, il cavallo batteva gli zoccoli sul terreno erboso emettendo un rumore ritmato, ovattato, come voce di un mondo sotterraneo. Una folata di vento riportò il chiarore, e udì uno sciacquio sommesso provenire a lato del sentiero. Un rivolo d’acqua trasparente, vivace e ciarliera, correva all’interno di un alveo ricoperto da erbe, e cuscini di piccole prataiole qua e là; era un piccolo corso d’acqua che serpeggiava allungandosi verso una costruzione che gli apparve sfuocata. Si fermò scendendo dal destriero, immerse una mano nell’acqua del piccolo fiume, e come una coppa ne trasse un’abbondante sorso trovandola fresca. Si sentì improvvisamente in armonia con quel luogo che gli stava regalando sensazioni di buon auspicio, così riprese il cammino verso l’imponente costruzione che ora gli stava innanzi. Nuvole vaporose di graminacee, arbusti odorosi, piante aromatiche, macchie di rose bordavano il percorso di ghiaia e pietra che lo introducevano in quell’universo di preghiere, silenzio, lavoro, sotto un cielo che non conosceva. Lui, l’ultimo erede di un nobile casato, non potendo liberamente amare colei che lo ricambiava, aveva ripudiato quella vita, e un giorno era partito. Ora aveva un nome diverso, e forse anche come penitenza estrema, aveva accettato il ritiro presso quel convento. Entrando nella chiesa, rabbrividì per la cruda umida frescura che l’avvolse; Padre Arfon, così ora si chiamava, sentì nel suo cuore una pace mai provata prima.

Gli anni passarono. Padre Arfon dopo l’imbrunire, amava vagare lungo quel piccolo corso d’acqua fresca e ciarliera chiamato Corla, immergervi una mano e berne un lungo sorso. Poi, alzava gli occhi al cielo cercando quelle stelle che, nella sua oramai troppo lontana gioventù, aveva osservato accanto a colei di cui non poteva dimenticare il viso. Scacciava il pensiero. Con un dito scompigliava l’acqua che rifletteva le nuove stelle scomponendole e spezzandole in mille pagliuzze argentate per poi tornare tranquilla, e restituirgli la visione del cielo sotto il quale i suoi capelli stavano imbiancando La quieta era tutt’attorno, con le lucciole che illuminavano flebilmente nei campi il rigoglioso grano dalle bionde spighe. Egli era amato dai confratelli per la sua umanità, e coltivava la conoscenza delle cose terrene trascrivendole in fogli di pergamena conservati nel piccolo studiolo del convento. Bartlomeus, il più giovane dei confratelli, sovente gli faceva visita, affascinato da quell’uomo così impenetrabile nei suoi trascorsi, ma così aperto nell’insegnamento delle sue conoscenze. «Padre Arfon, c’è qualcuno che chiede di voi! vi aspetta davanti al portone della chiesa…non è uno del luogo» «Ti ha detto il suo nome?» «No, ma deve essere un nobile cavaliere, e deve venire da molto lontano perché ha un accento che mai ho sentito prima…se non da voi!». Padre Arfon si fece scuro in volto «Comprendo, ora vai da lui e digli che la persona che cerca non è più qui» «Ma perché non lo volete incontrare?» «Vai, e fai ciò che ti ho chiesto senza aggiungere altro. Non temere non ti farà nulla». Bartolomeus s’incamminò verso il portone della chiesa. Padre Arfon si avvicinò alla finestra della stanza, vide lo straniero parlare con il giovane e allungargli un piccolo involucro. Lo riconobbe, ritornandogli alla mente tutto ciò che aveva fortemente voluto dimenticare, ma non si mosse restando ben nascosto nella penombra della stanza. «Padre Arfon, questo è quanto mi ha dato lo straniero, e mi ha detto che più nessuno vi cercherà perché tutto è finito». Egli prese tra le mani il piccolo involucro. Attese l’imbrunire, poi la notte stellata, e il canto dell’acqua della Corla, per srotolare quel piccolo involucro dalla preziosa stoffa. Oro, argento, pietre preziose, tutto composto in un ciondolo che un tempo lontano egli aveva donato a quella fanciulla, ed ora era ritornato tra le sue mani perché si era compiuto il ciclo terreno della vita di lei. Come non faceva da tanto tempo pianse, non più tentando di soffocare i singhiozzi che salirono verso il cielo come una preghiera, e una mano gli restituì una carezza; una stella illuminò l’oscurità cadendo verso nord, verso le sue terre natie.

Padre Arfon aveva in cuore un desiderio. La chiesa era grande, e lui alzava spesso gli occhi verso le spoglie pareti laterali dove il fumo delle tante candele aveva lasciato cupe strisce grigie. Il suo desiderio consisteva nel poter riempire quelle pareti con storie di Santi e Madonne. Tutti i confratelli ne furono lieti perché in tal modo sarebbe lor parso di stare in cielo. Un mattino era in piedi sulla traballante impalcatura di legno, e stava dipingendo alcune immagini femminili, quando Bartolomeus, che lo seguiva in veste di aiutante, lo guardò incuriosito: «Padre Arfon, perché piangete?» «Non dire sciocchezze» l’apostrofò duramente, «mi è entrato nell’occhio un po’ di pulviscolo del muro!» Non pago della risposta Bartolomeus continuò: «Quelle Madonne che state ora dipingendo chi sono?». Padre Arfon non rispose immediatamente così il giovane incalzò: «Hanno volti più belli delle altre, vesti più sontuose, ma occhi tristi, e i loro sguardi non sono rivolti né al cielo e neppure a noi qui in terra, ma pare guardino lontano, oltre le mura della chiesa» «Bartolomeus, vai e portami un secchio d’acqua fresca!» Il ragazzo raccolse il secchio di legno, e uscendo venne inghiottito dalla luce che entrava dalla porta della chiesa. Padre Arfon sapeva di non poter cancellare la memoria dei volti di coloro che erano vissuti entro i confini della sua vita, ne avevano fatto parte, e non potevano cadere nell’oblio. Guardò le immagini ancora odoranti di fresco colore, seguì il giallo brillante dei panneggi, le morbide linee azzurre dei veli, il caldo colore degli incarnati, gli sguardi, e il suo cuore ebbe un sussulto, la gola si asciugò, gli occhi si inumidirono. Quanta forza aveva dovuto trovare per cambiare le abitudini ed entrare in una nuova identità, allenandosi giorno dopo giorno a pensare, agire come la nuova persona, scoprendo il bello di quella nuova esistenza, ringraziando ogni mattina per il miracolo di potersi dissetare ai primi raggi di luce. Sentì il rumore dei calzari di Bartolomeus giungere nuovamente sul piancito della chiesa, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano sperò d’aver scacciato ogni antico sentimento, poi rivolgendosi al giovane: «Giungerà un tempo in cui forse, avrai risposte alle domande che ora mi poni». Dopo le sue labbra tacquero, ma nella sua mente egli continuò: “In questi volti c’è il ricordo di coloro che ho amato in una vita diversa, e di cui ho creduto di perderne memoria. Ma essa non svanisce con la fine della vita, non ti scivola via tra le dita, vuole essere ascoltata, e si ripresenta ogni qualvolta credi d’averla dimenticata”. «Padre Arfon, spero che un giorno mi possiate considerare degno di farmi complice di ciò che avete nel cuore!» Egli non rispose, scese dall’impalcatura, immerse la mano a coppa nel secchio, e l’estrasse portandola alla bocca per un lungo sorso di quell’acqua fresca, poi vi immerse i pennelli. Si incamminò verso l’uscita entrando in quel pulviscolo dorato che il sole al tramonto spingeva all’interno della chiesa. Socchiuse gli occhi per non disperdere le immagini di quelle Madonne appena terminate, e si diresse verso il fiume, lasciandosi alle spalle la massiccia facciata della chiesa. Non avrebbe mai più dipinto. Sovente Bartolomeus l’avrebbe trovato in chiesa seduto su una panca con gli occhi rivolti a quelle Madonne, immerso nei suoi pensieri, avvolto dalle nebbie della sua lontana esistenza.

Il tempo mutò ogni aspetto, gli anni corsero veloci cancellando la memoria dei Padri del convento. Le cose terrene e spirituali si sgretolarono assumendo l’aspetto soporifero del decadimento. Le genti si smarrirono sparpagliandosi, il meriggiare nei prati divenne di sapore antico, le lucciole sparirono come l’acqua della Corla. Di Padre Arfon si perse memoria, e le immagini che ricoprivano le pareti della chiesa rimasero mute. Ora, in quella piccola porzione di terra sconsacrata solo le ombre notturne vagano, e nella chiesa, dove il cielo vi entra e si spande, a volte un’ombra si ferma e resta immobile. Pare fissi una parete dove alcune stinte, sfigurate, corrotte immagini di Madonne ricordano quanto amore venne infuso da mani umane a quei volti. Valicando però i confini dell’immaginario Padre Arfon, il pittore della Corla, racconta ancora la sua storia, semplice e affascinante come tutte le leggende del buon tempo antico.

 


 

COME IN UN QUADRO

Tenue sordina cromatica di un paesaggio invernale, carezzevoli e armoniche curve, fuggevoli prospettive, e arcana intimità delle cose.
Il silenzioso manto di neve, che dalle balze alpestri si spiega giù nelle valli e si diffonde nella pianura, è una quiete senza un soffio, senza un brivido di vita che affascina nel biancore immacolato.
Il silenzio ermetico nella sterminata pianura, si contrappone allo sfolgorio della neve, alla luce radiosa, all’aria finissima.
Girando lo sguardo sul panorama attorno i particolari si precisano, risaltano sugli sfondi, si modellano nella prospettiva come quinte nel nivale scenario. Illuminata di sghembo, una cortina di balze campeggia nel quadro, e morbide ombre, ora appena accennate con impercettibili pennellate di azzurrognolo, ora distese e diluite a colpi di spatola, hanno la lucida patina del raso, l’opalescenza della madreperla, la vellutata freschezza del pastello.
Al declinare del sole, la plastica del paesaggio campestre si modifica gradatamente col diffondersi delle ombre, con il chiaroscuro che perde a poco a poco di vigore, finché non risalta più che il profilo della membratura.
Al sole morente, le distese di neve scintillano come venturina; sembrano colate nel metallo fuso, e in certe pieghe del terreno, guizzano sfavillii di brillante come polvere diamantifera. Le falde di neve saldamente attaccate ai ramoscelli creano aerei incantesimi, cespugli e alberi paiono fusi nel vetro, le fronde, i fili d’erba sono inguainati in una diafana pasta di ghiaccio, la selva tutt’intorno sembra scavata e scolpita nel cristallo, nell’avorio.
La neve compone scenari luminosi, di ampie prospettive, sbizzarrendosi in estrosi spunti ornamentali che costituiscono gaie notazioni nella sinfonia del quadro. Il gelo invece predilige il bozzetto, i ricami arabesche, e le trine d’alabastro.
Lo stillicidio da un canale offre motivo al gelo di sbrigliare la sua scapigliata fantasia creativa.
Piccole, delicate stalattiti di ghiaccio trasfigurano un banale anfratto in fauci dentate d’un fiabesco mostro.
Dall’acqua ferma degli stagni, coperti da una guaina di ghiaccio, spuntano grovigli di canne pietrificate, ed esili corolle di stelle attorno ai ciottoli affioranti.
Poco oltre, il canale esala un alito di vapore, che di notte si deposita in minutissimi cristalli di ghiaccio sulla cima delle erbette che escono dalla superficie dell’acqua, creando l’illusione di candide campanelle appese a fili.
Com’è possibile non lasciarsi sedurre dal paesaggio innevato, interpretare le delicate, effimere architetture che si sgretolano poco a poco rovinando a terra, non lasciarsi sedurre dall’invisibile artista dalla vena sempre alacre, e dai più impensati temi plastici e pittorici dei suoi quadri.


VERDI TESORI

Nei primi giorni di un inverno arido e brullo, al di là delle ultime case dell’abitato, stava percorrendo le cavedagne aduse alle impronte grifagne dei copertoni di trattori, più che al piede infrequente dell’agricoltore. Oltrepassò l’edicola votiva, superstite di religiosità ormai dimenticate, fino a giungere in aperta campagna. Il cielo era alto, di blu cristallo, immensamente sereno. Davanti si apriva la distesa ormai brulla della campagna, punteggiata dai cascinali, muti retaggi di una tramontata civiltà contadina, e da “giardini informali” di arbusti, alberi più o meno secolari, che ombreggiavano scalcinate pietre oppure adornavano maceri abbandonati.
La pianura che si apriva innanzi aveva una sua solennità e fascino; tersa e quasi diafana nelle albe rugiadose che segnavano il corso dei ruscelli di un tenue fumigare, violacea e sanguigna nei tramonti che accendevano i grandi specchi d’acqua dei maceri. Questa terra parlava al suo spirito contemplativo parole sconosciute ai più fastosi paesaggi che si potevano ammirare altrove.
Lei camminava velocemente per raggiungere un piccolo specchio d’acqua, dove le piaceva indugiare nelle calure estive all’ombra di alberi vetusti. C’era un piccolo scolo a lato, che con le piene del vicino canale, gorgogliava riempendo d’acqua l’assetato bacino. Le erbe si sforzavano di fissarsi al letto sabbioso e le lunghe, grandi radici scoperte degli alberi, facevano da davanzale ad un minuscolo mondo animato e svolazzante. Era un microcosmo delicato, silenzioso, che si rinnovava ad ogni stagione all’ombra delle fronde degli alberi secolari, da essi abbracciato quasi a volerlo proteggere.

Soffiava un gelido vento che le sferzava il volto, ma presto sarebbe arrivata la Primavera, e con essa le fronde ombreggianti degli alberi del piccolo specchio d’acqua. Attendeva con impazienza l’arrivo di zefiro, il vento di ponente, e con la sua soave brezza avrebbe mitigato l’aria, risvegliato la vita.
I piedi scivolavano in una melma grigiastra, dove l’erba estiva pareva scomparsa grattata dall’ultima aratura, e dopo la curva ecco la meta finale.
Notò un fascio di luce inusuale. Investiva una parte dello specchio d’acqua inondandolo intensamente. Una sponda era avvolta da ombre plumbee, mentre quella opposta era investita da una luminosità che mai prima aveva notato.
Tutta l’aria attorno era immersa in un tormentoso silenzio, e vide la mutilazione compiuta su quella sponda: erano stati abbattuti gli alberi secolari!
Di quel grande patrimonio arboreo, restavano, come cicatrici piantati nella nuda terra, solo i monconi di quelli che furono un tempo i guardiani secolari e imponenti di quel piccolo mondo.

Molti e molti decenni pima, l’avveduta mano della natura aveva fatto sorgere da quella terra giovani virgulti, che crescendo erano divenuti imponenti querce, e avevano procurato gioia, ricchezza, alimento. I tempi poi erano mutati così, l’umana stupidità e miopia, aveva tagliato quei verdi tesori.

Con gli occhi increduli lei guardava lo scempio compiuto. Un pensiero si fece strada nella sua mente; Aprile avrebbe rinverdito quella riva, e dai monconi sarebbero cresciuti nuovi verdi germogli. Poi, in un tempo a venire, si sarebbero nuovamente specchiati nelle calme acque del bacino, i tronchi svettanti dei giganti arborei, e tra le loro fronde sarebbe rifiorita la vita.