Jemaa el Fna, Marrakech, Marocco

La via è trafficata e ricca di palme ai lati che guidano in alto i vapori tiepidi e combusti della strada per lasciare il posto a fresche folate di vento.

Attraverso il frenetico ozio degli arabici ci avviciniamo con passo occidentale e affamato a una piazza e qui, con un angolo di cento gradi, il viale di palme cede all’incedere di una lunga fila di alberi ombrosi e di carrozze e cavalli poco nutriti che forse non sanno di essere arabi.

E’ solo pochi metri dopo la svolta che il viale ti appare come una pista di lancio poiché non riesci a dominare il ritmo che cresce delle tue gambe.

E’ un salire improvviso che tramuta il sospetto di fame nel richiamo sordo e tenace verso la grande piazza; dal cui fondo non fiotta più sangue ma solo un intreccio di fumi odorosi tra la miriade di piccole luci e il ritmo ondeggiante di flauti e tamburi.

E’ Jemaa el Fna, la piazza dei trapassati, dove giacevano un tempo, simbolo generoso di carne, teste tagliate di uomini sordi a una legge che una religione spietata aveva forgiato sulla misura del potere sultano, assoluto e libero da ogni umano rimorso.

Ora, per uno dei bizzarri scherzi che la storia genera ai nostri teneri occhi Jemaa el Fna appare un calice traboccante di vita, dove gli uomini prendono la loro rivincita su ciò che è stato un ritmo quotidiano e feroce che i secoli e complicati intrecci di generazioni hanno reso leggendario e lontano.

Eppure, seduto sulla terrazza che domina il gorgo attraente di vita, quando un vento poderoso e misto di caldo e di freddo consuma il ricordo delle ore di sole, poi che questo ha lasciato sola nel cielo un’araba falce di luna, ora sento nel ritmo che da ondeggiante si è fatto ossessivo pilota dei movimenti di fumi e serpenti, un richiamo a ciò che io sono gi stato, uomo antico e nudo, davanti alla morte: incapace di misurarne un senso personale e disgiunto da complicati e moderni confronti con leggi di varia natura, solo, sento che essa mi è data come la vita.


Essaouira, Marocco

Questa è la mattina che tarda si appresta a ricevere la mia presenza di uomo pigro e affamato e promette con consuetudine rara un pasto dolce, un sigaro e una spiaggia inondata di sole.

E’ il momento dell’affetto nel suo stato più puro; ciò che regala all’uomo la sensazione e non la nostalgia di essere bambino: ciò che stato, incosciente, che ora conosce e che un giorno tornerà, col piacere degli dei, a rimangiarsi, come una marea dell’oceano, le umide sponde della coscienza, per rigettare quell’essere nudo che è dentro di noi in un fantastico gioco di colori e arabeschi.

Sono sulla spiaggia e alla cieca ricerco un turbine vivo di musica araba nel vento che soffia di lato, sottile e raso; è una tiepida attesa quella che il sole arrivi a bruciare la pelle, tiepida e senza fine; è il vento che lenisce e inganna e dona al corpo l’illusione gelida di un’infinita resistenza.

Questa è l’ora del sole e del vento.

Le cose hanno i loro confini, che la gloriosa storia di un oceano ha voluto netti ma non duri; dolci come la linea lenta che degrada dalle colline e separa l’oro brillante del mare da quello opaco dell’arenile.

Restano del mio antico essere delle vestigia ostinate e calde; chi è mai stato veramente sul punto di partire sa quanto siano dolci e attraenti.

E davanti nessun oceano che abbia delineato con tanta forza e dolcezza la vita futura. La mia vita.

Forse è ciò che gli uomini hanno chiamato destino, incantati dall’eterno ripetersi della vita e della morte, delle condotte morali e alimentari, politiche e didattiche.

Ma guardarsi in faccia nella vita di un altro non è come guardare questa spiaggia, che appaga il bisogno sfrenato di verità libera dal manto del tempo che mi fa vivere.

Quando, orami stanche lasciano la presa, soffocante e vitale, le ore del sole e lo scuotere incessante del vento continua a ritmare l’eterno morire delle onde sul mare, un brivido, voluttuoso e tiepido, percorre il mio corpo, come un fulmine acceso contro un’opaca massa di nubi.

E’ l’inizio della sera, che cede al giorno il suo modesto contributo di freddo e prepara nel cielo l’angusto universo per una miriade di stelle; dal lontano spazio che si apre non chiaro al di sopra della linea del mare, arrivano pochi bagliori di barche; tremolano ma non sono fatui poiché portano, anche se anonima, la lucida testimonianza del duro lavoro dell’uomo.

Cala la notte e la promessa di stelle non è disattesa; si vedono l’orsa maggiore, Cassiopea e lo Scorpione; ma non riesco a distinguere, per l’onesto e geometrico gioco delle latitudini, la magnifica Croce del Sud; e così non si chiude quel glorioso arco di cielo che regala la notte all’equatore.

Dove occorre che nasca un tiepida forza è sotto un cielo di stelle, che non è che un barlume della tua innata ignoranza; e nonostante tutto tu lo conosci così bene, quanto i moti beffardi del tuo pensiero.

A volte vivere è sopportare la maleducata domanda: poiché li conosco e non li conosco entrambi ed entrambi offrono infinite varietà di sfondi, chi è più profondo, il cielo o il pensiero?