Al MIO NONNO COSTANTE

Passano le lacrime,segnano il volto ed il cuore.
Passa la vita.Passerò anch’io.
Sarà un giorno come gli altri.
Rivedrò le mani, segnate dalla vita e dall’età ,di quell’uomo che era mio nonno,
il suo volto altero e quegli occhi di un azzurro misterioso.
Mio nonno era un bell’uomo,alto,sobrio e delicato nel muoversi,
forte nel suo lavoro di contadino che intrecciava i suoi pensieri alle stagioni.
In quella stanza buia,illuminata da alti ceri rossi,
stava avvolto nel suo completo marrone,sul quale,le mani appoggiate l’una sull’altra,immobili,
nell’eleganza e la discrezione delle dita lunghe e sinuose,tenevano i miei quindic’anni
e tutto quello che di più caro avevo al mondo.
Quando sorrideva gli occhi si facevano fessure e il suo sorriso si confondeva con i ciliegi in fiore.
Passeggiavamo nei lunghi pomeriggi autunnali,fianco a fianco,io saltellavo per tenere il suo passo.
Lui rastrellava le foglie,increspate d’autunno,del nostro vigneto:
io ,con le mie mani di bambina,le mettevo nel cesto come lui mi aveva insegnato.
Le nostre foglie ingiallite:io non capivo che lui se ne stava andando e che lasciava a me
l’eredità della vera essenza della vita.
Lo capii standogli accanto,giorno e notte,su quella poltrona,dividendo il mio tempo con la morte che, sentivo
via via ,farsi vicina e lui,solo guardandomi,capiva e mi dava la sua pace e raccoglieva il mio terrore.
Lui mi chiedeva di raccontargli di quando facevamo la vendemmia,delle noci che andavamo a raccogliere,
del due giugno,giorno in cui ,per festeggiare la nascita della Repubblica,andavamo a raccogliere le ciliegie:
era la prima raccolta che il nonno destinava solo per il due giugno e che apriva l’arrivo di un’altra estate,
tutta per noi.
Mio nonno mi manca,è vivo in me,nei miei cinquant’anni,nei miei occhi verdi c’è una parte del suo sguardo,
un pennello d’azzurro che lui mi ha regalato,così come mi ha regalato questo profondo dell’anima che sa sentire
i silenzi abissali e temibili della caducità della vita.
Ti rivedo in quella bara,avvolto nel tuo completo marrone.Le tue mani serene ed il volto disteso nel riposo
infinito:dedicavi a me la tua pace per tramortire il mio dolore .
Rivedo e risento le mie mani sfiorarti in quel freddo gelido che è la morte,ma io ricordo solo i tuoi occhi
pieni d’azzurro.
Nessuno mai mi amerà come te.Nessuno mai ti amerà come me.
Mio adorato nonno,la mia vita corre su di un filo sottile;se la mia vita dev’essere così, spero solo che sia breve.
Ed ogni volta che sto per cadere le tue mani regali e scolpite dagli anni mi sfiorano il capo.
La tua voce ritorna come un richiamo inaspettato: d’improvviso mi ritrovo fra le mani e nelle tasche foglie ingiallite.
Lì ritrovo la giusta dimensione,la giusta misura e so cosa vuoi da me : che io,con coraggio,sia una donna,, che con i capelli imbiancati e gli occhi sorridenti,stemperati di verde e d’azzurro,cammini ,fianco a fianco, alla sua ,tanto amata, nipotina Giulia, a raccogliere le foglie ingiallite in quel vigneto, scrigno di eterni legami dell’anima.
Così niente di te si perderà nell’oblio e l’eredità del senso della vita che tu mi hai trasmesso, rimarrà eterna nei
gesti e nelle emozioni di chi rimarrà dopo di noi.


LA MARATONETA

La mia vita : un incanto di frizzanti occhi verdi e di passi silenziosi, cadenzati nel ritmo dell’asfalto,
inghiottito a canzoni.
Un intreccio di sguardi lontani e abbracci dovuti,di sguardi vicini e abbracci sentiti.
Di lento vivere e di forte sentire, di parole strozzate e risposte non date,
un malessere perpetuo di nostalgia, il rincorrersi ossessivo della malinconia.
Sono morta e rinata in un letto d’ospedale,
sono morta e rinata mille volte dentro al cuore.
Sono stata una collezionista di dolore,
me lo sono fatto amico per poterlo un po’domare
perché anche nel dolore avevo la forza di sperare,
di sperare che domani non poteva essere peggio di così,
perché il peggio ormai stava di casa qui.
Peggio di così si muore: sì ,è vero, ma a me non è stato concesso questo lusso:
ogni mio suicidio non ha avuto lo sperato successo.
Per questo mi sono decisa a vivere: perché non mi è stato dato di morire.
E allora da qualche parte dovevo pur ricominciare:
io ho imparato a vivere come da piccoli si impara a camminare.
Quando mi sono accorta che anche di corsa potevo andare,
la gioia ha riempito ogni respiro, ha comandato ogni volontà :
ad ogni chilometro che, mio facevo, pensavo :”Sono felice di essere qua.”
Sono andata da Maratona ad Atene , come Filippide, per portar la vittoria,
ma ciò che volevo non era la gloria, ma raccontare che da maratoneta sono riuscita a salvarmi la vita.


TU NON PARLARE, SUONA IL MIO VIOLINO

Quando verranno a chiederti il mio nome,
tu dì pure che hai scordato le parole,
che ricordi solo le canzoni che cantavo
e le note col violino che steccavo.

Quando verranno a mostrarti i loro fogli,
pieni di grafici dei vivi e dei morti,
tu lascia perdere l’ultimo che hai visto,
quello che dice che ormai più non esisto.

Vivo dentro di te, dentro la mia musica
che mille e mille volte mi hai fatto risuonare,
perché capivi che, se dentro stavo male,
solo nella musica aveva un senso il mio dolore.

Quando ti chiederanno perché e come
tu dì solo che il freddo dell’inverno mi ghiacciava le vene,
che ero stufa di essere perbene,
ero stufa di lacci e di catene.

Volevo vivere, ma in un mondo mio,
dove anche la tristezza è un regalo di Dio.
Così dì pure che, in quel gennaio
mancò la forza di reggere un febbraio.

Un febbraio come tanti altri
che ,però,per me eran troppi,
così accorciai il calendario
chiudendo a tutti gli occhi.

E tu dì pure che dove sto, sto bene,
che l’hai capito in un aprile raro, imbiancato di neve,
che mando a tutti un saluto,ma non di dovere
che lo mando loro perché da qui più forte è ancor l’amore.