I
L’incanto di un sentimento nascosto
reduce da chissà quali atroci battaglie
prende possesso della mia persona interamente.
Una confusione stabile si erge condottiera
del mio animo innocente e caduco.
Come tremo in questo momento!
Sono in balìa di ammalianti voci paonazze,
di strabilianti silenzi indecisi,
di sozzure indegne dei miei foschi pensieri.
Sono steso su un talamo di ghiaccio,
sono immerso in acidi spaventosamente corrosivi,
sono di pietra e di terra bagnata,
in preda a convulsi gemiti di maniaca eccitazione,
devastazione dell’anima inerme.
Mai, mai riconsidererò il mio segreto
tal qual era;
mai, mai più riafferrerò la verità in mio potere
fino a qualche minuto fa.
Mai, come se non fosse nient’altro che
illusione imbelle, inutile.
Battuto come un ferro rovente,
come un tappeto persiano impolverato,
senza un’anima vera,
un’anima bisognosa di un corpo caldo,
forte, energico.
Una calda immagine,
un fresco giaciglio,
un desiderio inappagato,
un martirio dei dubbiosi sensi:
ecco ciò che mi turba, m’inganna.
Fortemente legato ad una misteriosa deformazione della realtà,
ad un’inattesa speculazione del mio amore,
ho perorato senza ambizioni
e inibizioni alla mia causa,
ad una forma senza senso e senza vita.
Immagino la mia distruzione
paragonabile a quella di Babilonia,
misurabile con la fine apocalittica,
con la fragile speme di una calorosa luce.
Chissà forse un miracolo
che viene da un cuore silenzioso e giusto,
che aspira alla suprema pace dei sensi,
che adempie finalmente al suo originale proposito,
che spegne oramai le nostre flebili fatiche
può animare la mia vita.
All’apice di uno spirito poetico mai obliato,
mi riapproprio del mio segreto ancora un po’.
Me lo cullo tra le devastanti e stralunate
dicerie degli insetti della gente.
Lo sfoggio senza inibizioni, senza premure
non curandomi del suo fetido alito.
Mio Dio come posso non tacere,
come posso veder vanificare
il mio meraviglioso proposito senza aprir bocca!
Sì è vero, sono un’inerme, un vile,
un taciturno di passaggio,
un cuore oppresso dalla sua stessa essenza
ma non posso ancora dimenarmi
tra coscienze non ancora disilluse,
tra storditi incanti di incontri sdruciti.
Perdonami se erro ancora,
se metto mano al mitra del mio pensiero
in guerra con esso solo e nessun altro.
La mia arte non avrà voce
se non c’è voce in te,
se mi abbandoni ogni volta
che imploro il Tuo aiuto.
Il segreto che custodisco è grande, lo so,
ma ha paura a rivelarsi.
Teme le risa, gli scoppi di pianto,
le minacce, i trucidi inganni di animi malfidati.
Ecco perché non è una richiesta adombrata
ma un fuoco di verità crepitante di incredulità immensa,
vanificata dagli scempi di un’umanità empia, errante.
E se mi fossi illuso di possedere ” il mio segreto ”
e se fosse un alibi da me creato
per scrivere qualcosa?
Eh… ora come faccio a guardarmi allo specchio
e non notare quanto io sia ridicolo, indisposto ad accettarmi,
intento a manipolare la mia mente
fino a renderla schiava di quest’andirivieni di congetture?
Solo una mente così atrocemente folle
potrebbe ardire ad un atteggiamento simile
abbandonandosi ad un sogno così insensato e fumoso.
La debilitante malattia dell’anima
si diffonde sottoforma di metastasi malsane e ignobili,
di bolle senz’aria, di allucinanti estensioni
di fobie mai represse.
Le crude immagini per dileggio da me create
spiegano l’arido sistema di non vita
del quale si avvale l’anima mia.
Lascio che le parole si contornano
di autentici significati atoni,
di sintomatici spurghi di insofferenze tradite.
Tutto così semplice:
basta esaudire l’inatteso desiderio
che pone fine al martirio avvilente
di un penoso destino.
Come sono pallido in questo momento!
Eppure non tremo, strano no?
Migliori auspici si prospettano
negli spazi corti di striminzite giornate
a scapito di insensibilità forzate,
animate da tutto ciò che anima la mia anima.
E’ pietrificante questo ridondante metter su
parola dopo parola, foglio dopo foglio,
sterili pensieri, timidi conati di flebili sentimenti.
E’ come se un concetto, figlio della mente,
avesse perso suo padre in un conflitto a fuoco con l’inerzia.
Oddio che caos! Che agghiaccianti sensazioni!
Chi mi perdonerà per quello che scrivo,
chi mi capirà senza fraintendere i miei sguardi plastificati,
chi si renderà conto dell’impalpabile scena del mio matrimonio
con la verità appena detta, appena descritta,
chi senza antiche ipocrisie accetterà sorridendo
queste assurdità presuntuose e infine
chi permetterà all’idea originaria morta sul nascere
di rivivere in me, dentro la mia follia,
nell’illusione del mio segreto?

II
In questo mio silenzio io ascolto il mare,
il mare di un ricordo,
il fiume di un rimpianto.
Respiro la tua voce,
sinestetico incanto,
il cuore mio ingordo
di un semplice pasticcio.
E poi rimango solo,
curiosa via d’uscita
per un fragile impaccio:
la mia vita.
A mo’ di una canzone
questa mia poesia un po’ rintronata:
è facile capirla,
è difficile smentirla.
Ciò che ho scritto ieri
è l’istinto minaccioso di dire
quanto male è in fondo al mio cuore.
Oddio che mi prende !
Sto morendo, sto morendo!
Aiutami in segreto,
alibi palese di una difesa mal riuscita.
E’ forse questo un limite
o forse un disagio inaspettato
quello di non saper desiderare
un abbozzo di vita che sia essenziale,
miracolosamente naturale.
Senza affrontare un tema:
è poesia pura, confusa
con la melodia del canto di un’anima sentimentale.
Eh sì! Così è la mia strana vita.
In un attimo di pace confluisce
l’imbarazzo di trovare un senso per lei…per lei!
E’ il ritmo che manca,
la cadenza di una danza,
l’armonia dilaniata da una lama arrugginita,
senza rispettare la metrica della ragione e del buon senso.
Inesistenza assoluta di una logica ardita e sdrucciolevole,
apparenza elusiva di una parvenza di insensibilità,
di pudore per la verità.
Timore di repentini mutamenti di umore,
di stanche depressioni subumane
e di ilari felicità inebetite.
Ripercorrendo un sentiero angusto,
adibito alle consacrazioni effimere di bontà,
mi sento sempre più in preda
a lacerazioni profonde delle mie budella,
a fremiti esangui di agghiaccianti incubi,
a pericolose masturbazioni mentali
che interrompono il regolare corso
delle riflessioni più sincere.
Odio l’infante e l’adolescente
che percuotono la mia anima
di stupori e complessi atti a rimescolare
le torbide acque dei miei disincanti.
Amore mio che pena, che tormento!
Procedo lento e stanco
per non interrompere il tuo fluire,
il tuo vivere senza scintille,
senza gli scoppi e i trambusti di antichi ricordi.
Come sei lontana da me in tutto…in tutto!

III
Se io morissi per te esisterei di più.
E’ questa la lapide del mio cuore,
è questo il verso scritto ad hoc per l’occasione.
Striminzito disegno di un delirio infantile,
sofferente per un’anima così indisponente.
Non avrei bisogno di questi espedienti,
di nutrire queste assurde vanità
se ti adoprassi a vivere con il sorriso sincero e deciso
per una vita felice.
E ti pare poco abbandonarsi ad atti disumanamente fallaci
e restituire a quest’auditorio
un briciolo di speranza seppur vana!
Non ho più mentite spoglie,
terreni aridi da inumidire,
non ho più la forza di assaporare
l’altalena cigolante del mio respiro.
Oh amore inutile, frale, da me inventato,
da me generato sei morto in un ginepraio,
tra rovi e sterpi già odoranti di aliti mortiferi!
Non puoi ribellarti al mio volere,
non puoi debellare questo pensiero insoddisfatto e acerbo.
Niuna speme sarà come quella che un tempo fu,
mio ” hypocrite lecteur “.
Non saziare con le mie parole
la tua brama di conoscenza spontanea,
non lasciare che le impurità del mio poetare
ti ottenebrino l’ardimento
per una succulenta nuova trasgressione.
Lasciati andare, lasciati addomesticare
come un animale senza cervello
e prova a non essere nulla;
vedrai, avrai più considerazione di te stesso.
In questo giaciglio di pensieri non ci sono atti d’amore,
sapori di felicità perdute.
Qui ci sono segreti ancora taciuti
ma che per un attimo saranno svelati
e lasciati morire sul nascere.
Nuovi orizzonti di pericoli sorvolati
si ripresenteranno davanti ai miei occhi
senza tacere, senza smentire
alcune di queste parole or ora dette.
Con quale coraggio ti appresterai,
una volta letta interamente quest’opera,
a rileggerla ignorando il sublime nascondiglio del troglodita fantasma
da cui essa stessa si lascia incautamente avvolgere?
Dubito della mia abilità a persuaderti
dalle tue imbelli convinzioni
ma non mi limito ad ammonirti del rischio che corri,
anzi ti farò toccare con mano
il sangue e il mare nero gocciolanti dalla mia anima.
La perversione dei sensi e la turpitudine mentale
invaderanno l’innocente spirito bianco ed ingenuo
che ti castiga ad una magra ed esile esistenza.
Sarai fortificato da vacillanti considerazioni,
cementato dalle crudeli strategie dei miei demoni.
Ti porterò nel mio limbo
e avvisterai lo sperma sterile del mio male.
Scapperai, accelererai il tuo passo
per uscire dai miei vuoti immensi,
dai bui tersi di verità amare.
Parlerai di me come un falso poeta,
come una miserabile canaglia,
come un vile saccente.
Non avrai più stima di te
e perderai la tua dignità
contorcendoti dal dolore
per lo stridore di certezze ormai obliate.
Bombe, bombe intelligenti
ora scoppiano nella tua flebile mente
assicurandoti un’instabilità eterna,
un’ipocrita autocommiserazione
per un’esistenza così banale.
Ridurrò l’idea assoluta del vero
ad una vera follia fredda e contorta,
vaporosa e contagiosa.
Sì, sarai folle per sempre,
e come me aspetterai in silenzio un raggio di luce crepuscolare
rischiararti di fluorescenti visioni il tuo vivere.
IV
Mentre sciorinavo parole inconsuete,
distese su profonde coltri di ghiaccio perenne,
mi sono sentito misteriosamente titubante
all’ascolto dei miei complicati pensieri.
Niente di serio: solo timide palesi reticenze
alla riflessione arguta e sincera.
Può capitare, come vedi!
Nonostante le mie noiose esibizioni di esercizi stilistici,
tu mi ascolti attenta e preoccupata
di fissare intensamente il mio vago guatare.
La stranezza di queste inaspettate visioni
mi fanno ripensare a finali di sermoni laboriosi ed eleganti.
In un modo o nell’altro
ho sempre pronto l’asso nella manica
da sfoderare nei momenti opportuni,
quelli che richiedono la presenza del mio istintivo ingegno.
Ho come la sensazione
che le mie nuove parole
non siano più tali
e che servano soltanto
ad enfatizzare il messaggio
contenuto in queste pagine.
E’ come se avessi perso
il filo del mio pensiero iniziale.
E’ come se il mio larvale intento
fosse decaduto nella confusione di una mente
ormai piena di polvere più che di idee.
E pensare che ci sono attimi in cui riesco
a trasmettere perfettamente
il senso del mio poetare stanco!
Arriva così il brivido della follia
ad incipriarmi l’idea del vero,
il reale segreto del ” mio segreto “.
Cosa ti tocca ascoltare, amore!
Diventi mia lettrice,
mia superba amante della mia arte
senza poter assorbire completamente il senso di tutto ciò.
E’ sparita maldestramente l’atmosfera di sogno
che regnava accanto alla tua immagine d’alabastro.
Quante tonalità varie di colori fatui
sono vaporizzate secondo il tuo volere,
dietro il vivere tuo normale e sereno!
Sei adornata di un alone di serenità interiore
che non ti permette di affrontare l’accidia,
il tuo vizio nascosto e inconsapevole.
Ho capito tutto di te
senza avere il tempo e la possibilità di amarti,
senza troppe frasi coronate da questo stupido sogno,
da quest’ambizione forzata dalla mia annoiante noia.
La vita non ha saputo prendermi di slancio
e mi ha lasciato qui su un letto di emozioni
a dipingere le immaginarie scene
di noi due felici amanti.
Non c’è ricordo più blando di questo
che mi vede dolcemente scrivere
in un modo anomalo ed allusivo.
Peccato non ci sia nessuno accanto a me
se non questo vapore denso ed appiccicoso
dal nome amore.

V
Che io non abbia più la freddezza di un tempo
questo non posso saperlo,
ma è pur certo che il mutamento c’è
ogniqualvolta mi trovo ad ispezionare il mio periglioso pensiero.
Alla base di tutto c’è il mio segreto, lo so,
ma è pur vero che per rimuoverlo e renderlo credibile
sopravvaluto la mia riflessione comune e sincera.
Non avverto più quel soffio d’arte
che la poesia un tempo aveva
e soffoco mentre sento la presenza secca ed inquietante
della mia solitudine.
Nessun amore sarà in grado di togliermi da quest’impaccio,
nessuna galoppante passione potrà percorrere
i sentieri impervi del mio suscettibile pensiero.
La mia noia è pusillanime
e il tuo volto s’incendia
quando la mia tempesta ormonale è già esplosa.
Il mio rischio è calcolato,
il mio percorso verso il tuo inchino davanti all’altare è breve.
Sì, è breve, breve come il tempo andato,
come la via crucis del sentimento nascosto appena conclusa.
Ecco di nuovo questi bagliori di verità
mai sazi di luce, mai privi di essa.
Scusami, nemmeno ora ho sentito entrare
il tuo pensiero nel mio.
Sai, inconsapevolmente non hai bussato.
Ti ho lasciata entrare
perché amo vederti dispettosa e sicura.
Non aprirò bocca su ciò che è accaduto,
non illustrerò a nessuno di quale fonte incandescente
fosse pregna la tua anima solitaria e incustodita.
Il timore delle cose fa parte della nostra essenza,
è parte integrante del nostro spirito.
L’innocenza e la perversione sono opposti
che più delle volte coincidono
e si fanno apprezzare per questo.
Il verso non è più verso in questi fogli.
Non è più aulico e nemmeno prosaico.
Ha la stessa consistenza di briciole di pane sparse
su un pavimento poco pulito.
Miracoli dell’arte quelli di accostare
con grazia e sufficienza
banalità e stravaganze
senza possedere il triste messaggio dell’uno e dell’altro concetto.
Miracoli della natura quelli di addormentare
preziose fanciulle su sterpaglie e tristi letti di pietra calcinata
mentre i rossori di obliati amori
ritornano anche nella mia mente.
O debole ragazza, o debole virtù,
il tuo essere neoclassico e puro
mi rianima di energie fatali e crudeli
e fa in modo che in me risorga l’antico custode
del male lussuoso.
E invece tu anima ribelle, colma di vizi,
rossa di sangue e melassa melmosa
riapri in me arie agrodolci di musici innocenti,
sentori di nuove vite gioiose e festanti, di borghi antichi
dove i sapori dei romantici amori sono più vivi.
Ho riportato nella mia coscienza un turbamento
che è insito nell’aria che respiro, nell’acqua che bevo
ed ora una supplichevole armonia dei sensi
si riappropria di quest’unico uomo amante di te.

VI
Ondulate dune di sabbia rigano il deserto della mente.
Non ci sono oasi, solo cactus.
Opere di tristezza, stanze di inquietudine,
moltitudini in balìa di desolanti paesaggi.
Rigogliose foreste nascono da radici molli e frali.
Bramose tempeste di sole argentino
minacciano le nubi rosseggianti.
Manuali conteggi di giorni dilapidati
da queste maniacali esibizioni di stile.
L’orrore di certe stagioni
mi colpisce più di altre.
Cariatidi e muse,
Nausicaa e sirene in mezzo a menti folli,
adulanti di profonde distruzioni.
Penosa distrazione la mia,
penoso il mio discorrere
senza tendere le braccia a te,
regina del mio essere.
I miei atti non sono più la prole autentica dei miei pensieri.
E’ tutto denigrato da quest’orribile recitare con inutile ipocrisia.
Amabile creatura sei incosciente
di fronte al mio poetare,
inesistente pensiero
di fronte al distruttivo delirare.
Non chiedo il tuo aiuto,
nemmeno il tuo comprendonio.
Nulla chiedo.
Ecco, ho scritto ciò che ho pensato!
E’ fantastico !
Provo a riscriverlo: nulla chiedo.
Ancora una volta: nulla chiedo.
Non ho chiesto mai nulla.
Non sono autore di nessuna grazia,
di nessuna beltà esistente,
solo il creatore del nulla
perché io nulla chiedo.
Ripeto con ossessione: nulla chiedo.
Sì, mi biasimo ancora una volta.
Vittimismo, esasperazione, autolesionismo o cos’altro?
Non amo usare definizioni
per il mio modo di essere.
Lascio che esso sfumi, si tinga di grigio, o ancor meglio,
di bianco, bianco pallido o bianco malva o avana chiaro
o color avorio o…
Nulla di palpabile e definito
deve nascere da quest’opera senza prezzo e contenuto.
Immagino il tuo pensiero ora,
ma non voglio e non riesco a definirlo in una forma,
singola che valga per sempre.
Il mio ricordo per te sarà simile
a quello dei sogni mattutini in dormiveglia.
Sarai avvolta da uno di quei sogni
e non crederai ai tuoi occhi
quando non vedrai nulla
perché nulla ti ho chiesto e nulla resterò.
L’umidità della notte si presenta
in questo giorno silente ed umbratile
fatiscente e disastrosa.
I muri delle case antiche hanno aperto profonde ferite
e squarci mirabili di scene già viste.
Non è un film, non siamo in un teatro
o in uno di quei sceneggiati
dove è impossibile porre rimedio
a tanti sconvolgenti accadimenti.
Per me è inumano continuare con questi ritmi
improvvisando la parola scettica, fallace, impropria
per poi rimuoverla da un significato nascosto
estorcendole la favellante verità.
Se non scrivessi sarebbe meglio per chi mi sta accanto.
Almeno non si illuderebbe di questo incredibile talento.

VII
La retorica sevizia il mio stile
per cercare di corromperlo.
In un primo momento
ho la spiacevole sensazione
che minacce scontrose ed infamanti
possono baciare la pelle dell’innocenza.
In un secondo tempo, invece,
il buon umore fa da spartiacque
tra la riflessione e il sarcasmo.
Addio stantii echi di notti incaute,
colme di pietismi isterici!
Addio istanti penosi di sazie voluttà!
E’ un crescendo di sensazioni,
di pulsazioni aleatorie di suoni vari,
è un armonia che si appresta a catechizzare
l’emozione di sterili rossori.
Come si librano stanche
le luci di nane bianche
in questo scintillìo di crepitanti comete!
Si è appena visto scoppiare il cielo in lacrime
senza poter lenire il suo acerbo dolore.
In un mare dove il blu appare rosato
attraverso prolungati piagnistei crepuscolari
si celebrano gli incontri traditi di malaugurate circostanze.
Quel mare è tiepido e dolce.
Prende tutti i miei sospiri inabissandoli in sé
e spingendoli a vivere isolati in un abbozzo di pensiero.
Quale anima meretrice potrà fermare lo sfacelo del vivere,
di quale potente inganno essa potrà avvalersi
se vorrà illuderci ancora?
La sua scelta mi turberà
e mi sconvolgerà più del dovuto
e mi pulirà da tutte quelle scorie di saggezza aggressive ed ingiuriose
invadendo così lo stato neutrale del mio cuore.
Non so se quell’anima abbia un volto,
un immagine su cui potersi specchiare.
Temo un viso pallido, quasi funereo
pronunciar parole di fuoco e di ghiaccio
smarrendo per un istante il senso della vita.
Ciò che essa vuole è cullare il suo rancore tra le nostre gioie,
disilluderci da ogni tipo di pulizia morale,
da ogni sorta di perversione etica.
Spetta alla rivelazione di un presagio
metterci in guardia dal tentativo superbo
di poterci ammaestrare.
Non ho mai percepito un così innaturale abbandono dei nostri corpi
a perdersi in una comunione atavica ed impaziente.
Sebbene nascano ancora precisi disegni
di affascinanti intrighi nella mia mente,
sacrifico il mio vivere
ad un isolamento coscienzioso e coraggioso.
Non sono caduto nella rete dei sopraffattori
silenti e sitibondi di distruzione
ma sono caduto tra le braccia divine dell’arte umana
e non mi staccherò dal suo corpo finche ho vita,
finché non sentirò il grido rauco di verità assurde
togliermi il respiro.

VIII
Il silenzio mi è maestro,
mi dona pace rendendomi beato.
Risorge in un attimo quella parola pura,
miracolosa, innocente, decisa, dolce
che punisce il chiarore dell’esistenza
in uno stato abnorme di sussistenza tecnica.
Il contrasto creato è sintomo della presenza
di una nuova energia, virginale e pudica
che non teme confronti,
non teme l’oltraggio al suo pudore.
Come chiasmi di astruse e meste mancanze,
si inebriano nell’aria satura di allucinazioni
i codardi poeti schiavi del potere.
Io sono schiavo di me stesso,
della mia labirintica poesia
e solo tu, immagine di donna amata,
sapresti con cenni del capo
animarmi di riflesso di nuovi pensieri.
Se ti pensassi in modo normale,
saprei perfettamente cosa dirti
ma non rispettando la metrica del pensiero,
sono obbligato a scegliere vie anguste,
troppo ardue per l’impaurito mio cuore privo di battiti.
Adesso attendo che il silenzio
prenda possesso del suo impero
in questa stanza senza emozioni.
Ecco, ora è tutto fermo,
senza immagini o incubi.
Le parole sono morte,
sono diventate innocue e circoncise,
reduci da valorose battaglie
e ormai abbandonate da tutti i soldati.
Eppure ho creduto in una loro risurrezione,
in una spietata rivincita,
ma esse erano sazie di se stesse,
contente di aver perso ancora una volta
contro il terribile alleato del silenzio: la noia.
Contro di essa si sono scontrate
arti figurative, musicali, scenografiche
ma a nulla è valso il coraggio,
l’ardimento, l’ostentazione di tenacia
con cui essi si sono battuti.
E’ finita in malo modo ma chissà
potrebbe esserci una riscossa
di coloro i quali hanno la sensibilità giusta
per amarla a tradimento, per poi ucciderla sul nascere.
Amore mio, di questa speme sublime si è accesa la mia anima
in un crocevia di delusioni, in un mare di desolazioni.
Ho trovato lo spunto giusto per penetrare
gli animi incauti e frenetici, bisognosi di vita vera
sopportando i risentimenti corposi
degli ipocriti martiri di soprusi mai ricevuti.
Un filo di vergogna riga il loro viso acceso
e stagnante in una fissità incredula.
Il miracolo di una vittoria mirabile
non può non avvenire
ed in un istante si spegne la fiammella della morte
di noi poveri attori della vita.

IX
Ho dimorato per lunghi tratti nell’infermità mentale.
Mi sono promesso di dimorare in questo stato
ancora per un po’ di tempo.
Ma ho ceduto.
Sono stato inghiottito dalla mediocre vanità quotidiana.
Sono diventato il discepolo di una realtà
sempre osteggiata, mai amata.
Sono stato ipocrita con me stesso
prendendo la decisione sbagliata,
l’errore causato da una necessaria rivalsa
verso il sentimento materiale.
Mi sono augurato tempi fecondi,
mondi ilari e gioiosi,
fisime di un’assurda e triste coscienza.
Turbato, ho ripreso il cammino
verso luoghi infernali e riprovevoli.
Il fascino di quei luoghi
ha reso il mio animo spiritato, quasi malefico.
Ho auspicato catastrofiche depressioni esistenziali,
vani tentativi di ripresa,
atti e parole dedite alla ricreazione della perversione autentica.
Incubi e tormenti inesauribili
si sono impossessati di tutto il mio essere
in preda a convulsi gemiti
di una sofferenza mai vista.
Il demone nascosto si era svegliato
e tutto intorno a me si agitava
e tentava di spingermi verso un oblio irreversibile.
Le mie sensazioni sono divenute a poco a poco più instabili,
odoranti di sudore posticcio,
sporche e annerite da brutali brividi interiori.
Ho previsto la fine imminente
e sono stato liberato poi dai risvegli mattutini
sempre più dolci e pieni di tepore.
Tutto si è risolto magicamente
ma resta il timore di una prevedibile rivincita
del demone silenzioso che corrompe e devasta
questa mia anima frale e caotica.
Nella mia stanza ci sono ancora i segni
di terribili notti impotenti al suo volere
e le lacrime che giù sono scese
sembravano sangue bianco
di un celestiale angelo sofferente.
Le parole biancocelesti sono opera del mio cuore,
quelle rossonere sono opera del mio male.
Le innumerevoli introspezioni selettive
si sono riempite di caos fine a se stesso
e mi hanno permesso di fare indagini accurate
sugli stati d’animo di persone malate d’amore come me.
Le preghiere si sono spente;
le suppliche sono cessate
e i messaggi preziosi e incauti
sono sbiaditi dietro occhi lucidi e stralunati.
In quest’aridità di sentimenti
primeggia l’anima mia come non mai
e l’obbligo ad amare diverrà per me una vanità,
un lusso da poter mostrare
nelle gallerie d’arte e nei musei,
da considerare come cimeli di antiche virtù e nuove tragedie.
Il timido saluto che io porgo al tuo sguardo
è segno che l’ora dell’addio è giunta
come cliché di incontri forzati,
come preziosa immagine da tenere immobile
nel serbatoio colmo dei ricordi.
Tutto rimane così come un segno del passato,
come il presentimento di un avvenire rassegnato
ad una futile identità,
come il capriccio mai placato
di poter recuperare il tempo perduto.
C’è ancora un nodo da sciogliere:
è arte quella in cui l’amore per essa
annulla la sua stessa essenza,
escludendola da ogni sorta di giudizio critico?

X
Ho sempre pensato che l’amore fosse un istituzione da destituire,
senza pudori e false moralità,
sacrificando davanti al suo altare
le vergini carnali e silenziose.
Nell’attimo in cui ora trovo modo di concedermi un riposo
alle mie riflessioni sitibonde di conoscenza,
mi celo dietro l’ombra di quella assurda definizione.
Il rimorso cresce, diventa ansioso,
aspira alla propria corposità di sentimento;
resta in gabbia, in preda alle terribili inibizioni
dovute ad altri presuntuosi sentimenti:
l’orgoglio, la ragione, l’indifferenza.
Essi diventano spietati;
si impadroniscono della mia anima
rendendola priva di buoni propositi,
anelanti a zeli audaci e perversi.
Non so quale sia la loro reale natura.
So solo che mi pento di averli ascoltati
in tempi per me non sospetti.
Ho paura del mio stile
ridotto ad un pugno di parole secche e vuote,
quasi evanescenti nel loro subdolo significato.
Non credo mi basti lamentarmi
o chiudermi in me stesso
e in un modo o nell’altro troverò un messaggio
metodico e razionale che sappia insegnarmi a vivere.
Quel segreto di cui avrei voluto svelare i misteri
non si è più reso visibile ai miei vaganti occhi cerulei e miopi.
E mi trovo ancora per un po’ spaesato e tremulo di emozioni,
schiavo di rancori e amori ancora troppo acerbi
per essere assorbiti dalla mia scettica personalità.
Come posso pretendere di capire il senso dell’amore
se esso mi ha voltato le spalle
quando ha saputo solleticare il mio spirito
tanto da farsi adulare come simulacro vendicativo?
Se prima l’amore era per me un sogno,
adesso è un incubo tragico
senza poter rivelarsi indolore e innocuo.
L’umido dei miei occhi si increspa
come le onde di un vecchio e stanco mare
volenteroso di naufragare.
Ed io mi perdo in quel semplice pianto
ancora sterile di sofferenza
ma fertile di autentica commozione
che mi fa affogare nell’inconscia ansia fraterna
di bontà perdute.

XI
Forse soffocato da questo mistero,
ho adorato gli scempi commessi
dagli stordimenti della mia sensibilità.
Ho confuso tutto ciò che c’era da confondere,
anche me stesso con te.
Sono stato troppo impulsivo, lo so,
ma il mio delitto non è stato generato da me solo.
C’è qualcosa di oscuro che si cela
dietro questi pannelli solari,
dietro i miei incubi allucinanti.
Se sei il miracolo che dici di essere,
salvami dall’oblio, dall’indifferenza dei sensi,
dai miei mali, insomma.
Mi sento solo senza aver mai vissuto da solo.
Chissà perché?
Un terribile presentimento è il frutto di queste mie paure,
di questi stanchi rancori strozzati in gola.
Il mio pensiero si è eclissato
dietro le più buie sofferenze,
senza avermi dato il segno giusto della luce vera.
E che se potessi tornare indietro!
Indietro…indietro dove?
E per cosa, per farmi ingannare ancora una volta?
No, non credo più ormai.
Ingannato o no, chi paga i suoi errori
è sempre colpevole delle proprie colpe
se non di quelle degli altri.
Eh…sì! Sono consapevole della mia aridità,
della mia non eccessiva severità,
del mio dispotico giudizio senza appelli,
ripensamenti, scetticismi.
Non ho pianto finora e non credo voglia farlo più in là.
Sono deluso, ecco tutto. Deluso anche di me come artista
oltre che come uomo.
Se il riferimento alla mia privata è troppo palese
non ci fare caso.
Sono alle ultime pagine, alla frutta.
Ciò che volevo dire l’ho detto.
Ora tocca a te regolarti di fronte
al mio dispettoso volere.
Lasciami in pace ed io te ne sarò grato per sempre.
Non ci saranno più fogli da riempire inutilmente,
non avrai più reticenze o riflessioni;
tutto ti sembrerà come un sogno
per poterti così ridestare con il sorriso velato
e finto quasi senza sospetto.
L’analogia tra il mio segreto e l’idea di te
ha sconfinato oramai in campi decisamente aridi
per sostituire il mio ardente desiderio
con la tua forte freddezza.

XII
Ho camminato solitario e indisponente
per sentieri da me sconosciuti.
Ho assaporato senza sospettare del male emanato dai loro odori
i fiori di un giardino vermiglio e chiassoso.
Fallendo nel mesto ritorno a casa,
ho incrociato gli sguardi di autunnali mendicanti
impiegati a vivere di stenti.
Di miracoli non se ne vedono più,
semmai ci fossero stati un tempo!
Un tempo ormai remoto
ma non obliato e nemmeno adulato.
E’ solo l’idea del presente ad esaltare il passato!
Se così non fosse cesserebbero lamenti e chiacchiericci inutili,
fini a se stessi e così io potrei dimorare tranquillo
nella mia solitudine senza attingere ai luridi desideri carnali.
Il mio fiele adombra la tua immagine,
sperimenta il mio amore.
Non lasciarti contaminare dalle mie inquinanti provocazioni.
Sono timido, debole e temo il tuo inappellabile giudizio
ed è per questo che chiedo clemenza e sollecitudine.
Ti immagino sconvolta,
avvinta dalle mie rivelazioni segrete,
pronta a trivellare con sagaci colpi
il quadro dipinto su tela della mia persona
nell’ariosa stanza della tua mente.
E come uno specchio in frantumi
raccogli i pezzi di vetro sparsi sul pavimento
in modo da poter riflettere ancora una volta
la tua immagine nel mio dolore.
Non c’è finzione più bella della realtà inumana;
non c’è paradosso migliore di un falso paradosso.
Ecco ciò che mi ispira,
che solleva la mia anima aldilà di tutto, nel tutto.
In uno spazio corto, quasi invariabile nel tempo
è nata la mia poesia
sbocciata con tutti i suoi maldestri millantatori.
E’ lì che è stata spinta la passione
e l’autenticità del sentimento.
E’ lì che mi gongolerò, sul mio trono inafferrabile,
smerigliato di pietre preziose,
ornato di auliche vanità, di odoranti ovvietà.
Non distinguerò più le buone azioni dalle malvagie,
i paradisi dagli inferni,
i tremori e le paure dagli isterici momenti gai e illogici,
mischierò le carte delle umane emozioni,
taglierò il mazzo per evitare equivoci,
le distribuirò equamente senza favoritismi o preferenze.
L’astratto dominerà il reale
per far sì che il caso possa regnare nel caos
e animare il vispo angioletto
che porto nel mio maschile grembo.
E affogo nel mio mare, amica mia di un tempo.
Mi son perduto, intanto, ascoltando il tuo pianto;
rispondimi ti prego, dammi un segnale, un annuncio: non rinuncio.
E mi ricordo ancora la nebbia di mattina,
la fragile carezza data ad una gattina.
La quiete che vacilla, il sogno che si rompe,
la frase che si uccide senza avvertire…e poi più nulla se non il silenzio triste di notti
insonni.


I

Dall’apparir soave s’alza il canto mio
In breve tempo dianzi al sogno tuo,
al cospetto dell’atteso forte desio.
Se d’apparenza e di risa m’inebri
E di rilevar l’esser tuo mi dinieghi,
nel mio ameno cor cangia e sparisce
l’esperta face amorosa del tacer.
Il viso tuo m’appare come defunto
E reciso da una cesoia tagliente
Che il saggio offre al buon viandante
E del suo piacer non rapisce la mente.
Se il senso d’esser a te più non giugne,
s’apre il cupo sentier piangente
d’uom depressi nella sparuta mente.
Tra lor l’alma mia sola si spinge oltre;
il silenzio offre spazi ai miei lai
e sanza alcun pudore, né fremito,
il respir fumante gela nel vomito.
Il tuo atteggiar vibrante m’opprime
E il vuoto che lasci dentro mi rende beato.
Il voler mio tu aneli d’ogne parte,
o falsa speme di virtù presuntuosa,
il cor disarmato non ti sarà dato
e del finto amor che di te si nutre
non ci sarà orma sulla terra muta.

II
Di restia stanza s’adopra il pensier
A mutar gli intenti che sovrastano
I capei tuoi a diventar dispersi
Come naufraghi dotti e astuti
Ma spenti dianzi al divino voler.
S’apre così un sentier solingo che
Scosceso, irto ha le tue sembianze.
E poi lo percorre l’incauto destrier
Come l’intrepido amante avvinto;
d’impervia fattura s’avvolge il fato
che ammalia l’occhio bramoso e fiso
tacendo l’ardor supremo e malato.
L’amore produce siffatte storture
D’istinti incerti sazi di ragion
Che da dormienti diventan presenti.
È qui che il mio peregrinar è frale
E nell’umile vita da me vissuta
Il cuore cede al mio divenir reale
Per bramar lo spazio libero negato.
Se alimenti codesta brace di piacer,
parimenti s’inibisce il tuo ardor,
con ghiaccio fumante e sanza pudor
s’aprono le danze dell’incerto amor
che ingentilisce li occhi brutali.
Fatal sorte all’uom solingo e pio,
che tanta mestizia rende amar la via,
è offerta non per dileggio dal fato
ma per volontà di Nemesi altera.
Che il mio elegante canto t’arrida,
o dolce pulzella vile e infame,
e che il beffardo mio riso s’espanda,
ti riempia il cor di nero catrame.

III
Non ti saprei dir quale vita t’aspetti
Nel brusio triste dei semplici pensieri.
Non controllo le tue idee, le divoro.
Non dirò favella sulle tue mancanze,
mentre il tempo ritorna al lavoro
si sposteranno da presso le speranze.
Il mutar degli eventi sarà lento
E ogni cosa tornerà al suo posto.
Ti abituerai alle mie sviolinate
Che cambieranno musica intorno
Quando sarà già pronto sanza lode
Il treno giusto per il mesto ritorno.
Quando calerà il primo sipario
Davanti a questi stonati versi,
per il poeta grigio ci sarà calvario.
L’eccessivo sentor di cose lontane
Stimolerà il canto che anticipa
Gli eventi senza obliare la voglia
Di cancellare il tuo viso in ombra
Dalla mia sterile mente che si spoglia.
Ma il tuo gioco è all’ultima mano
E non c’è alternativa all’assenza
D’idee specchiate negli occhi ardenti
Che bruciano le tappe ai sogni veri.
Sempre il fine ultimo del domani
Sarà assegnato dalle apparenze
Che mi asciugano le sudate mani
Alterando tutte le esperienze.


Il cantor degli umani pensieri
riprende a navigare
sull’oceano solcato dalla storia

Nell’ ugual tempo riempiendo
d’origini antiche la sua storia,
le genti faicchiane fecero dimora nel loro cuore
l’ istinto di ricevere l’ ambito momento di gloria.
Da una penna straniera
venne il dotto saper;
di botto, nel silenzio,
un fulmine di antica poesia
illumino’ l’oscuro ciel.
La terra si riuni’ tutt’intorno,
stretta nell’ abbraccio fatal
della notte che divenne giorno.
Primitive genti da tanto cammino incitati,
incontrarono luoghi angusti:
acque e monti e fiumi spietati.
L’ombra del tempo con un sol colpo uccise
le loro membra e nella contrada Odi
la sua eco s’ assise.
Gli occhi visionari fuggono gli intenti
da Ripa di Cantalupo neolitiche vestigia uman
dilaniano le menti.
Cruente battaglie nei secoli avvenire si sparsero
tra Sanniti e Roman,
e corpi sacrificati a Marte
sul patibolo si arsero.
Di militar ingegno Sanniti furon cosi’ intrisi
che Roman nulla poterono
e sull’ Acero uccisi.
La speme di pace fu parca e sanza vigore
attendendo la giustizia divina
come l’ uom che auspica il suo salvatore.
Opera militare soverchia l’ Acero monte,
dove le anime agli Inferi
sentono il tridente di Caronte.
Dal monte Monaco di Gioia
Arce sannitica si paleso’ ,
come testimonianza d’ingegno militar
e per secoli li’ dimoro’.
Tra Massa e Fontanavecchia
cruenta battaglia si svolse
e il tanto penar rese ai Romani
cio’ che per anni l’Acero tolse.
Sanniti perdenti a testa alta,
tre secoli prima di Cristo :
cosi’ Tito Livio racconta su carta.
Tanto sangue li’ si rapprese
che in altri siti l’Impero fu magno
e non duro’ certo un mese.
L’ Occhio sul Titerno ci dice
che Fabio Massimo non avea
del tempo suo amico
e l’ astuto Annibale da li’ passo’ felice.
Ancor prima il figlio Tito egli perse in guerra,
il Sannio di quella morte
si sposo’ con l’ eterna sorte
tanto che ogni Roman che ivi passa
il ricordo del cuore di certo non lassa.
Sullo Iaco ancor si passa a turno
laddove confluisce il Titerno col Volturno;
il patrizio nell’ozio vi abitava,
mentre il plebeo a suo dir
il loco ameno bramava.
Straordinaria postura d’ acquedotto
il Roman lascio’ presso Fontanavecchia
e attenzione, non sopra ma sotto !
Lo splendor condiviso in Odi
si apre alla vision di Criptoportici
che da Roma non sbagliarono di sicuro i modi.
Secoli d’Impero apriron le porte
a nuovi mondi, nuove vite
e le genti sopravvenute accrebbero l’ardor
nonostante il clima mite.
Di Longobarda origine furono i sopravvenuti
a dominare quelle terre per ben cinque secoli
prima d’ esser finalmente caduti.
Di quell’ epoca governata dal Gastaldo di Telese
son datate la mirabile costruzion
di monumenti, opere e chiese.
Tra la Chiesa di S. Andrea a Marafi,
del SS. Salvatore e S. Giovanni Battista,
il cupo medioevo si espanse
serrando nella favella latina la mente dell’ artista
per evitar che il barbaro invasor
del suo genio ne aprisse le stanze.
Nell’ antro rupestre si rifugio’ l’ eremita,
da solo pregando, le fatiche divorando
e togliendo i piacer di sua vita.
Altri pensieri appartenean
agli abitanti del castello di Faicchio
e curandosi men dello spirto e piu’ della pastura
ricoprivan di lodi chi dell’ oro serbava almeno uno spicchio.
E se egli ne offriva parte al povero viandante
che giugnea dianzi a quelle mura
dell’ eterno riposo non dovea aver certo paura.
Tra le rimanenze di longobarda memoria
si ergono dal tempo segnati
le due torri di Marafi, l’ una piu’ vecchia, l’ altra meno,
ognuna immota come la stella
che rende i sogni illuminati.
Dal nord della Gallia superando le tenere Alpi,
nuovo popolo invasor giunse nell’italica penisola.
Il loro capo grido’ : “E’ l’ ora che il Normann salpi !”.
Feudo faicchiano di man in man venduto,
nel 1151 a Guglielmo Sanframondo
non fu certo dispiaciuto.
La sua semenza mantenne il regno della contea
per tre secoli adunque,
di la’ dai monti Acero ed Erbano
nuova profonda statura s’ avea.
L’ arte del castello muto’ faccia,
di gotico−rinascimental maniera
si sperimento’ nuova traccia.
Popolo agreste quello faicchiano :
ottimi prodotti della terra, orgoglio del lavoro
e di certo non s’ aspetto’ l’ eta’ dell’ oro.
Il tempo Normanno ormai segno’ il passo,
la contesa aragonese ed angioina
porto’ il feudo al regno lasso.
Nuovo titolar del feudo faicchiano
fu Pietro Cola d’Alessandro
che dopo due anni lo vendette in modo strano.
Un maggiordomo del Re Ferrante
senza indugio lo acquisto’,
un tal Giovanni de Monsorio errante
ed il suo sangue un di’ di grande meraviglia
lo vendette ad un certo Guerrello Origlia.
Altre chiese in quell’ epoca s’ aggiunsero,
di S. Nicola e di S. Lucia eran le maggiori
e con l’ avvento di nuovi palazzi s’ elargirono gli onori
che nel tempo a poco a poco si consunsero.
Residenza vescovile feudo divenne,
grande l’ onor della curia papale
che ad ogni gradito servigio
il buon cristiano sovvenne.
Sanguinario Barocco ormai era alle porte,
di nobili palazzi Faicchio
ne avea gia’ le scorte.
Di furente pensier mordace,
in anni dove la guerra
era un sentiero di pace
le genti faicchiane non spensero l’ ardor di vita
e dei prodotti della terra
ei celebraron la bonta’ infinita.
Da quell’Acero monte che il buon vino producea
anche Orazio in Roman tempore
quel mistico aroma suggea.
Feudatario novizio nel seicento
fu Gabriele del casato dei De Martino
e il fuoco di castellana vita
allor non fu mai spento.
Rifacendo il castello a simiglianza seicentesca
partenopeo baron che divenne duca
lascio’ il segno della sua presenza appena fresca.
Nuove altre chiese, oratori e conventi
si mostraron ad occhi
che celavano dietro i timori gli intenti.
La Chiesa dei Casali e del Carmine
ancor oggi son presenti
per amor del mondo
che accende la sua luce
negli occhi dei credenti.
Di tanti novelli sarcedoti e servitori di Dio
si impreziosi’ il pio paese,
che lo scrivan il cui nome s’ignora,
con ironiche pretese
chiamo’ Faicchio “terra dei preti”
e similar cosa non e’ certo ora.
Nella terra piu’ profonda
orribile energia si scateno’,
devastazione inerme e maceria imponente
sul suolo sanza difesa si scaravento’.
Ne ebbe paura il giovinetto
come l’ anzian sapiente;
il silenzio accrebbe lo spavento
nella valle desolata e piangente.
Non per lo mondo…
ma per amor della verace manna
seppero ricostruir i padri e i figli
dal nulla almeno la capanna.
La caritade offerta ai Romiti
sommandone a quattromila ducati
non fece ruinar la Chiesa del SS. Salvatore
su mille detriti.
Il paese che un tempo noto era
col nome di Favicella prese novo aspetto
e nel tempo d’ un giro della luminosa stella
ogn’ uom avea sul capo un tetto.
Da poco tempo l’illuminato secolo era volto
all’ ultimo De Martino
l’ erede maschio tanto sperato fu tolto.
Il Salvatore ormai disperato
consenti’ ai Baroni di Pietramelara
di dare al feudo novo casato
anche se la svolta fu assai amara.
Feudalesmo ebbe la sua ultima luce fioca,
nova coscienza umana si espanse in tutta Europa,
non piu’ con l’irrazional vision Ella gioca.
Da che il Napoleon potente
ebbe posto man a suo Impero,
stette anco la terra faicchiana
a proclamar il tempo del gallico condottiero.
Non a tutti egli fu gradito;
dal cavalier al brigante, all’ eroe
il passo non era poi cosi’ ardito.
Lo Sciarpa col Mammone di Sora
e Fra Diavolo : di loro fama ivi
la face non si e’ spenta ancora.
Adiacente all’ Erbano monte
il Giordan bandito in uno speco s’ ascose
da li’ colpendo con la mente e con l’ arme
e non certo con le rose.
Il mito del brigantaggio avea un senso,
nato dal popolar bisogno di ricever
dal nobile di pietra un misero assenso.
Feudalita’ omai abolita,
la fin d’ un epoca appena lontana
apria le porte alla luminante ragion
che alla mente era d’ un tratto risalita.
Nel tempo recente ora si perde la memoria
e non e’ dolo del cantor
se Favicella similar ad altre contrade
omai era la sua storia.
S’ ebbero natali illustri d’ ogni parte
di codesta piccola comunita’ :
Angelo, Don Nicolo’ e Pietro Martino,
uomini di ampia cultura e affine nobilta’.
Al citar anco di Vincenzo Porto
e Luigi Palmieri a Faicchio
non si fa’ di sicuro un torto.
All’ alba del ventesimo secolo
sull’Acero monte s’ ammira
Monumento al Redentor :
ecco cio’ che ora m’ispira.
Settant’ anni dopo, vento tremendo sul monte spiro’,
la statua dal suo basamento,
un salto, un tonfo e poi crollo’.
Di San Salvatore Emilio Bove s’ impegno’
per la restaurazione
della statua del Cristo Redentore.
Dopo men di cinque anni di Giovedi’ Santo
torno’ al suo posto
ed ora anche con forte vento
forza ignota non obbedisce al movimento tosto.
Dell’ ultima guerra, “Ahime’ !”, si ha memoria viva
e dalla roccaforte dell’Acero monte
il germanico furioso il suo nemico schiva.
Tre giorni di dura battaglia,
uomini del novo mondo a liberar terra italica
e dall’ alto il fuoco ancor c’ abbaglia.
Alcune suor son cadute per le bombe
di lor memoria non restan altro che le tombe.
Anni di pace su nostra terra prosieguono,
su altre, speranze son fioche,
e venti di guerra omai si temono.
In lo futuro e al Creator
la mia mente si rivolge,
al calar del caldo sole,
nello spazio ameno di questa bella terra,
il pensier mio si svolge
e lascio lo iudicio sanza freno
di faicchiane genti
di quest’ opera che rende
i vostri occhi sorridenti.