La guerra di Martino

Aveva sentito nel sonno Platone abbaiare come un dannato. A febbraio, di notte, a Castel di Sangro, il freddo è davvero una lama da rasoio. Il calduccio del piumone invece, un nido difficile da lasciare e così era stato facile convincersi che non c’era motivo di allarme. D’altronde il cane dopo alcuni guaiti si era zittito. Così Martino, il pastore, si era levato, come suo solito, all’alba per iniziare la sua giornata di lavoro. L’avvisaglia l’ebbe subito: Platone era disteso sulla neve con uno squarcio alla gola e con solo una chiazza di ghiaccio arrossato. Si era battuto il suo cane ma aveva perso. Il gregge stivato nella grotta lo accolse con un belato corale e Martino vi lesse una nota liberatoria.. Non c’era traccia di violenza a parte il cadavere del cane e Martino iniziò la conta delle sue pecore. Le conosceva una a una e ognuna per nome: si avvicinavano mansuete al suo sgabello per la mungitura. Quella mattina all’appello mancarono la Papela, la Mamuntina e la Santina. Erano scomparse nel nulla senza lasciare segno di sè. Fuori dalla grotta, alcune tracce, sebbene la leggera nevicata notturna. Ne aveva contate una quarantina abbastanza profonde. Erano di lupo, di un branco di lupi. A Martino il sangue salì alla testa e giurò vendetta davanti al cadavere di Platone che seppellì vicino al castagno, con una croce sul tumulo di pietre, come si fa con gli eroi caduti al fronte. Tutto il giorno stette rimuginando piani di difesa e di offesa, staccò dal chiodo la doppietta, la smontò in ogni suo meccanismo, la pulì, la lubrificò e avvolta in un lino, la poggiò con il calcio a terra di fianco al letto. Passò poi alle cartucce. Aveva bisogno di quelle caricate a pallettoni. Scoprì di averne solo una dozzina. Per il momento potevano bastare. Avrebbe telefonato a Ciccio di portargliene qualche scatola quando sarebbe venuto a ritirare il latte. Era una brava persona Ciccio, conosceva tutti nella valle del Sangro, e di tutti sapeva tutto. A volte si fermava per una partita di scopa e gli portava notizie della valle. Arrivò al crepuscolo e subito chiese cosa dovesse farne di quelle cartucce a pallettoni. Martino allora raccontò quanto accaduto al suo cane e alle sue pecore e confidò i suoi propositi. Parlò di assassinio, di violazione della proprietà privata, di mancanza di rispetto verso qualsiasi ragionevole regola di convivenza civile. Ciccio che era anche un poco letterato e che leggeva la gazzetta del Molise, lo ascoltò con attenzione e, talvolta, con espressione severa. Si era fatta una sua idea e attese il momento per esprimerla. Questo si presentò quando Martino al culmine della sua collera pronunciò la parola “guerra” senza quartiere ai lupi assassini in una sorta di delirante voglia di genocidio lupesco.-Vedi Martino, disse placidamente Ciccio, il diritto moderno stabilisce che non c’è colpa se l’azione è compiuta da chi non è consapevole di produrre un effetto vietato da una legge formale della società.
L’ho letto giorni addietro sulla pagina del Mattino con cui donna Rachela mi ha avvolto il salame. Lo diceva un certo Masullo professore e filosofo. Il lupo non sa di contravvenire alla legge dell’uomo. Egli ubbidisce alla legge del lupo. Devi sapere inoltre che anche Giovanni di Marcantonio qualche giorno fa ha subito danni. Egli è stato testimone dell’assalto: un branco di una decina di esemplari, capeggiati da un animale splendido nel suo candore niveo. Una bestia rara da queste parti. So di un Ente che protegge questi soprusi lupeschi in nome della protezione dei lupi, specialmente se in associazione e rari-
Martino alle parole di Ciccio s’inalberò ancora di più: -È proprio vero, questo mondo di oggi tassa gli onesti e protegge assassini e ladri. Non c’è più religione, non c’è buonsenso, le regole se ci sono valgono solo per gli agnelli che i lupi possono assalire a piacimento. Io come disse il buon’anima me ne frego e tiro avanti per la mia strada. Se i lupi non sono soggetti a regole, vuol dire che c’è parità di diritti anche per l’uomo e per gli agnelli.- Dopo di che armatosi della doppietta, salutò l’amico e si portò nella grotta fra il gregge, infilandosi nel suo sacco a pelo.


- LO SPECCHIO

Via Guglielmo Marconi, a Terzigno, qualche anno addietro, era la via dei caprai. Con quell’indirizzo, le poste recapitavano le lettere alle poche case contadine coi tetti a cupola. Limitavano la strada sterrata. Era stata disegnata dall’acqua piovana, che irrompeva come un torrente lungo le pendici del Vesuvio. Oggi è una strada asfaltata, dove sfilano numerose vetture, anche se con qualche slalom, ad evitare le buche dimenticate dalla pubblica amministrazione. Durante le piogge, l’asfalto è un letto ideale per le acque torrentizie.
Ah, dimenticavo, le fognature sono assenti, in tutta Terzigno.
A Pasqua di quest’anno, è venuta tanta pioggia con lampi e tuoni ed un freddo cane. Dalla mia finestra ho osservato il temporale: era un incanto quella sua prepotenza, e, mi veniva da pensare ad una frase di mia madre:
-Dio ha creato il mondo solo perché l’uomo vi si possa specchiare-
Sul balcone di fronte, il vecchio mastr’Antonio, sedeva come di solito, per studiare il mondo che scivolava lungo la strada. Era sempre lì, con la pipa di terracotta ad annuvolargli il viso, sotto il porticato.
Era un bel vecchio mastro Antonio, con un viso antico, fatto di rughe che disegnavano la faccia con un tegolato simile a quello di coccio.
La mattina di Pasqua, la sua pipa gli pendeva dalle labbra un po’ abulica: dal focolaio, il fumo filava per inerzia; il capo era girato contro corrente e spiava, fisso, il flusso dell’acqua che veniva giù, lungo la strada, senza misericordia.
-Antò che guardate?- gli chiedo incuriosito.
A sentirsi chiamare, si gira verso di me come colto di sorpresa, poi, dopo aver provocato due anelli di fumo, -Eh Salvatore, le vedi quelle buste d’immondizia che galleggiano sull’acqua? Per un momento mi hanno riportato in Russia, nella mia trincea lungo il Don; galleggiavano allo stesso modo, come sacchetti di spazzatura: a volte s’incagliavano nella sterpaglia lungo gli argini. Noi alpini c’eravamo procurate delle pertiche: per liberarli e permettere loro di proseguire il viaggio. Sembrava un fiume infernale con tutti quei cadaveri che trasportava. Invece, per fortuna, questa è solo mondezza.
Mi perseguita, la trovo dappertutto, in pacchetti variopinti oppure a lutto, persino sfusa, alla rinfusa, lungo il sentiero che porta al vigneto, ma anche a formare piccole colline lungo la strada principale. Questa notte ho sognato: stavo lungo i binari della ferrovia; ad un certo momento, ho visto i binari muoversi come due serpenti ed i fili della linea aerea sfrigolare, poi, un boato enorme, mille volte più forte di quello che sentii quando saltò in aria la fabbrica delle polveri. Ho girato d’istinto gli occhi verso la montagna: Dio che spettacolo! Una fontana: prima saliva altissima come un razzo, poi, uno scoppio: si apriva ad ombrello, e si allargava in zampilli di fuoco dai mille colori.
Simile ad una bocca di cannone, il cratere sputava boati su boati: il fenomeno veniva alimentato ad un ritmo vertiginoso.
Che belli, quei fuochi!
Ce n’erano di tanti colori; e che forme! Gomme d’auto, bottiglie di plastica, giornali, vasi da notte, barattoli di coca, lamiere ondulate, la più parte erano bidoni sigillati, ma anche un manichino vestito da governatore e due altri da cacciatori che avevano i fucili a canne mozze. Tutto questo toccava terra in forma liquida e si srotolava come la pece ma di mille colori, prima in quattro direzioni precise come quelle della bussola, poi ognuna di queste fiumane si divideva in mille altri rigagnoli e portava sul fronte dell’onda, moltissime bandierine, ognuna col suo destinatario. Che peccato! C’è stato un tuono fortissimo che mi ha risvegliato! Mi sarebbe piaciuto vedere come andava a finire-
Io l’ascoltavo incantato, partecipe di quel sogno. Quel vecchio era sempre capace di sorprendermi per la sua immaginazione. Ma, forse, aveva ragione mia madre: Dio ha creato il mondo solo perché potessimo specchiarci.

Terzigno il 25 marzo 2008


 

Omaggio a Sebastiano Vassalli

Non ricordo la data. Non sbaglierò di molto se dico fine anni ’70. Ricordo con precisione il luogo: Sasso Marconi; la circostanza: una delle ultime riunioni della redazione di Pianura. Mi trovavo lì, ospite a disagio, tirato per la giacca da Franco Capasso, poeta. Vassalli, quando ne scriveva il cognome, utilizzava un rebus aggiungendo a Cap l’immagine dell’asso, il nome invece diventava don Ciccillo per un suo gioco affettuoso. In quell’occasione ricordo oltre a Vassalli e Capasso anche Granaroli di Bergamo e Scalia. C’erano altri, ma la lavagna della memoria non li ha registrati. In quei tempi m’ero da poco trasferito a Salerno ma avevo ancora legami con Brescia ultima mia residenza di lavoro. Per questo, al termine della seduta che era continuata, come si usava allora, in un ristorante locale, me ne tornai in macchina con Vassalli verso il Nord. Scambiammo qualche parola. Mi meravigliai quando mi chiese la mia disponibilità a dargli una mano. Ci siamo rivisti altre volte, quando veniva ospite di Capasso a Boscoreale, o quando, quella volta, venne a Scafati a dormire a casa mia. Sono anche stato testimone dell’atto, a mio parere, più importante della sua carriera di scrittore. Ero con lui, partecipando, sia pure col minimo sforzo, a mettere in sesto, per il trasloco, Il Presbiterio di Pisnengo. In quell’occasione, di sera talvolta, veniva a dare una mano anche un pittore, ricordo le sue tele inquietanti, si chiamava Pinto. Di quella settimana vissuta insieme, ho un ricordo molto bello legato alla volta affrescata del salone, allo sgabuzzino abbandonato dal curato dove c’erano anche tanti bei libri, a quel lettino in ferro battuto della sua camera da letto, ed ancor più, a quel paesaggio vaporoso, innervato da canali e stagni, animati da uccelli d’acqua, rivestiti da manti di tenero verde che ne facevano risaie. Non ero abituato a quel tipo di bellezza. Dalle mie parti, solitamente, contemplavo un terreno nero e secco: così sono i paesaggi ai piedi del Vesuvio. Ricordo anche un piccolo diverbio nato, forse, per il mio scarso rendimento nel restauro di una finestra del presbiterio e favorito dalla fame che un panino non riusciva a saziare. Vassalli era infaticabile e, chi lavorava con lui, al confronto, appariva un fannullone. Ricordo che una bella cena in una locanda dei paraggi appianò tutte le frènes. Nacque una buona amicizia che veniva alimentata da una affettuosa corrispondenza nella quale io apparivo quello che ero, ingenuo, inesperto di tutto, e, Vassalli, incredula guida e consigliere. Durò qualche anno. Cessò di colpo perché, innamorato, la mia mente non lasciò spazio ad altro e la vita che il sentimento trasmetteva non accettava distrazioni. Ma veniamo a Vassalli. Da poco ha compiuto settant’anni e la rivista di cultura di Franco Esposito, “Microprovincia” gli ha dedicato il n° 49. Vi è il fior fiore delle firme laureate: da Giorgio Bàrberi Squarotti a Meriel Turante, da Lumitza Beiu-Paladi a Giovanni Tesio, da Roberto Cicala a Giovanna Ioli, da Dante Maffia a Tiziano Salari, ma anche Franco Cordelli, Carlo Fini, Angelo Gaccione, Andrea Kerbaker, Velania La Mendola, Giuseppe Lupo, Federico Mazzocchi, Cristina Nesi, Fulvio Papi, Ercole Pellizzone, Alberto Sinigaglia. Davvero un bel numero questo 49, basilare, per approcciare Vassalli scrittore.
Un omaggio a Vassalli, per i suoi settant’anni, vorrei farlo anch’io, a modo mio, fuori da ogni schema ormai già ben disegnato. Sarà un racconto pieno di vuoti. Non nascondo un po’ di preoccupazione perché Vassalli è un mare così vasto e profondo ed inquieto che anche il più esperto dei naviganti può farvi naufragio. Vuol dire che i vuoti li riempirà il lettore, con le sue conoscenze e la sua immaginazione. Ho detto che il trasloco al presbiterio è stato fondamentale. Perché è lì che egli, finalmente, incomincia a coltivare a tempo pieno il suo giardino. Aveva già fatto di tutto fino a quel momento, e quasi tutto bene. Aveva fatto il pittore, il poeta, l’editore, ma soprattutto il romanziere (e che romanziere). L’aveva fatto da par suo, perché il furore artistico era nel suo DNA ,ma, nel solco dell’ondata travolgente che veniva da forze esterne (Nord Europa, Neo-Avanguardia e via dicendo), e non per oggettivo bisogno della sua scrittura: essa funzionava da sé, dotata com’era di altissima, naturale forza narrativa. Quegli anni di militanza collettiva, tra l’altro anche con napoletani come Piemontese e Cavallo e con riviste napoletane come “Altri Termini”, certo, affinarono ancor più i suoi strumenti ma gli ritardarono, senz’altro, l’approccio all’esercito di lettori consapevoli che sarebbero arrivati con i romanzi successivi. Fino alla fine degli anni ’70 Vassalli, coi suoi romanzi, aveva raccontato storie per proporre una sua teoria della letteratura ed una sua poetica vicina a quei movimenti. La destrutturazione delle parole (vedi “Tempo di màssacro” ma anche “L’arrivo della lozione”) è l’aspetto più evidente. Siamo negli anni successivi alla strage di piazza Fontana. “Tempo di màssacro” racconta impietosamente il disagio della sua generazione con una scrittura che propone un lessico fuori controllo come fuori controllo sembreranno gli esiti della così detta lotta di classe. Essa parte come atto rivoluzionario e sfocia nella strage. E se si va al titolo “L’arrivo della lozione” (1976), con un po’ d’attenzione si può leggerlo come La (-r-) rivol-(o)-uzione (leggi rivoluzione) per il gusto dell’autore di dare uno spettro di designazioni alle parole un poco più ampio. E quindi in quel titolo è possibile leggervi una rivoluzione che si fa lozione, come dire, “tanto rumore per niente” solo per dare un po’ di lucido. Anche la poesia che è di quegli anni vede Vassalli in una posizione, come dire, castrante perché mentre propone un lessico essenziale, cede al dettato del postmoderno e mostra tutta la sua inutilità. Talvolta, però, Vassalli si lascerà sfuggire l’idea di una poesia-miracolo: “un poco di vita imprigionata nelle parole”. Questo la dice lunga sulla sua simpatia, in fondo, molto crociana verso una idea di poesia. Certo, è una vicinanza a Croce sui generis perché, mentre si abbandona ad identificare il poeta nel suo “babbo matto” Dino Campana, e cioè in colui che soggiorna e muore espulso da quella società stando fuori dal suo tempo, che nasce e muore poeta subendone la condizione, nello stesso tempo, teorizza una poetica “della distanza” di matrice aristotelica che è poi il barometro della neo-avanguardia e che può solo portare ad una deriva minimale. Questa dialettica antinomica tra il razionale e l’irrazionale è presente quasi sempre anche nei suoi romanzi prendendo varie forme (ricco e povero, buono e cattivo, sano e malato, e così via un es. per tutti “Marco e Mattio” (1992)), Permettetemi di dire però che l’utilità o l’inutilità della poesia non la fa il mercato né quest’ultimo è il termometro della modernità (basta riflettere su quanto accade oggi in Europa): il mercato non è additabile come strumento di progresso né di benessere, in una parola il mercato non fa la modernità. Il poeta non è mai sopravvissuto guadagnando coi versi, anche quando la parola era una candida verginella, il poeta subisce il suo stato come il malato la malattia cronica. Ma la poesia può essere utile per scavalcare l’orizzonte più prossimo, addivenire specchio lontano di un mondo desiderato, rendersi utile e necessaria parlando per sensi immediati all’uomo spaurito. Con “Abitare il vento” (1980) Vassalli si rende conto, ma qualche avvisaglia l’aveva già fatta intravedere con il Millennio che muore (1972), che non vi sono più mura dietro ai quali rifugiarsi e che agli umani non resta che il vento, cosa che, se è drammatica per la caduta dei sogni, libera il genio dell’artista che può uscire fuori dal recinto del suo tempo abitando un vento leggero, distante dalla gravido terreno, un vento che vi soffia sopra, che l’attraversa, che lo tocca e lo sfugge. Matura così l’esigenza non solo di cogliere ed affinare il segno ma soprattutto quella di trovare personaggi che abitino spazi temporali altrimenti vuoti.
Quando con la Mondadori Vassalli pubblicò ”Mareblù”(1982), mi trovavo a Salerno. Lo aspettavo quel romanzo. Lo divorai più che leggerlo. Volevo parlarne. Non sapevo come fare perché “La Voce della Campania”, con cui collaboravo, aveva chiuso i battenti. Per trovare spazio alla recensione del romanzo, mi rivolsi ad un tecnico delle F.S., papà di Lucia Annunziata (la giornalista Rai per intenderci) perché mi presentasse il direttore di “Dossier Sud”. Fu così che potei stampare la recensione sulla terza pagina di quella testata. Il romanzo mi aveva davvero colpito. Per quella lingua finissima e curatissima, per quell’irridente ritmo che non ne ostacolava l’agilità ma addirittura sembrava favorirne la fruizione. Ricordai una chiacchiera che avevamo fatto in macchina poco prima dell’uscita del romanzo. Vassalli mi confidava lamentandosi, o forse parlava solo con se stesso, che pur avendo apprezzamenti lusinghieri un po’ da tutti, non riusciva ad ottenere le vendite necessarie per vivere di scrittura. Gli risposi: -di che ti meravigli se parli una lingua che essi non possono comprendere?- Oggi mi rendo conto dell’ingenuità della mia risposta, ma tant’è. Pensavo che “Mareblù” sarebbe stato il romanzo di svolta. Quella recensione, che Vassalli certamente ha fra le sue carte perché gliela spedii, diceva, tra l’altro, di capitoli che si muovevano come diapositive sfilando uno sull’altro ed uno accanto all’altro. Forse fui il primo ad accostare Vassalli a Manzoni per quel suo modo di raccontare. Altri con firme più riconoscibili hanno consegnato un Vassalli manzoniano ortodosso. Forse per il fatto che Vassalli con le sue storie fa la Storia, e così, improvvidamente, parlano di “romanzo storico”. Niente di più sbagliato perché per il nostro Autore la Storia è un falso, al più una successione di dati, un vuoto a perdere dove le stagioni si succedono circolari ed uguali e sempre con i loro scarichi di sottoprodotti. Vassalli indaga da un osservatorio completamente opposto a quello del romanzo storico ottocentesco, perché non ne ravvisa la presupposta accettazione della Storia come valore assoluto. Ed utilizza le storie dei singoli uomini come elementi gnoseologici, per capire di più, per cercare di svelare a se stesso ed agli altri le loro peculiarità, i loro meccanismi. “Mareblù”, metafora dell’Italia del compromesso storico, era il nome che riduceva la nostra penisola ad un campeggio. Già questo la diceva lunga. Gli italiani ridotti a turisti campeggiatori, le regioni a roulottes distinte per targhe. C’erano i Napoli, i Torino e così via. C’era il padrone che appariva presenza astratta del delirio ideologico di Augusto Ricci, e c’era quest’ultimo, con il ruolo di guardiano del campeggio. Vassalli, (vado a braccio sul filo della memoria), lo presenta marxista, leninista, individualista, ma anche guardone, nella sua guardiola, in compagnia di un pappagallo e sotto l’ombra dei giganti della Storia. Questi ultimi campeggiano nei manifesti attaccati alle pareti. Il racconto avanza agile, intriso di comicità paradossale e tragica, assai credibile, ed evoca la verisimile condizione degli anni ’80. Quell’azione rivoluzionaria vagheggiata dal Ricci come conseguenza della dialettica marxiana, e cioè l’incendio del campeggio, si realizza, ma solo per un improvvido gioco dei ragazzi. Si leva così una risata isterica, una interminabile risata, una risata-urlo a segnare la comicità disperante di fronte alla caduta di ogni certezza. Il Caso, il vero protagonista, muove le storie ed è Personaggio sempre presente nei romanzi di Vassalli.
Aveva sperato molto da questo romanzo e dalla Mondadori. Ma esso ebbe poca fortuna, credo, per scarsa pubblicità. -(…) Confesso che cambiando editore speravo cambiasse qualcosa anche nel rapporto con il “pubblico” e invece mi sto accorgendo di essere caduto dalla padella nella brace. L’editoria è una macchina infernale e l’Italia è un paese da terzo mondo che si merita i suoi democristiani e i suoi comunisti e i suoi cinquantasettemilioni di furbi testé censiti (…). (così, tra l’altro, mi scriveva l’11 marzo del 1982).
E quindi era costretto, per tirare avanti, ad una serie di racconti, dal sapore guareschiano, commissionatigli da “il Mattino” di Napoli. Vi rappresentava le sedute del consiglio comunale di “Pieve sul Lastrego”, nome che io leggevo come piove sul lastrico perché mi sembrava di cogliervi quella pioggia che ha già tutto rosicchiato ma che continua imperterrita a dilavare. -Gentile Violante, (….) ho letto l’Arkadia di Vassalli. Gli dica, se le capita, che mi ha colpito quell’immagine dei “santi portati sulle spalle in processione”, ma soprattutto il cuore e l’onestà che batte sotto l’acredine di quel libello. Del resto di quel mondo di impoeti non c’è proprio niente da dire. Sono la cronaca delle nostre miserie, anzi della miseria del nostro tempo. E, si, i poeti sono proprio quegli esseri misconosciuti e derisi che lui dice. Perché la convenzione esalta sempre la retorica o la lugubre eco di ciò che è morto. Proprio come l’arte funeraria nei cimiteri -. Così mi scriveva Franco Loi. Il poeta milanese non data la lettera ma il timbro postale sulla busta segna il 21/1/85. Il libello di cui parla Loi era uscito nel 1983 ed aveva certificato quanto già da qualche tempo egli aveva fatto intuire. In quella “storia degli impoeti d’italia” afferma addirittura di aver scoperto che egli stesso non era poeta. Era una sciocchezza ovviamente, o meglio, forse ne era convinto, ma si riferiva al genere letterario. Perché la poesia è in Vassalli trascritta in prosa, nella forma per la quale ha dedicato tutte le sue energie, tutto il suo tempo, tutto il suo cuore. Lavoratore infaticabile, si è meritato tutto il successo che gli è arrivato, e forse, avrebbe meritato anche di più ed altro. -Caro Salvatore grazie delle buone parole. Il fatto è che sono incasinato assai. La sto pagando cara quella “vacanza” tra primavera e estate. Stento anche a fare quei raccontini per il “Mattino” con cui, fin che dura le cose vanno bene….(…) Entro l’anno dovrei finire un libro, una specie di “romanzo storico” che mi è stato commissionato su una vicenda giudiziaria del primo novecento; poi ce ne ho un altro, e poi ho….il mio (che ancora non sono riuscito a riprendere). Come vedi, il dono della scrittura è anche la maledizione della scrittura (…)- Era il 13 dicembre dell’anno 1985. La vacanza di cui parla Vassalli è un suo viaggio in Germania avvenuta nell’estate dell’anno precedente, per apprendere il tedesco, una vacanza di lavoro, propedeutica, forse, all’impegno che avrà con “Sangue e suolo” il libro inchiesta sulla condizione degli italiani in Alto Adige. Di quel libro non faticai a comprenderne il senso: ero stato in trasferta per l’intero inverno del 1976 a Malles Venosta, nel profondo Sud-Tirolo, mi sono sentito lì italiano all’estero esattamente come gli altri italiani residenti, sbarcato da capo stazione per arrotondare il salario. I sudtirolesi maschi che conoscevano benissimo l’italiano, mi parlavano in tedesco per dispetto e qualcuno di loro, con la scusa dell’ebbrezza da vino, ostentava un marciare nazista intorno al tavolo dove pranzavo, in quell’osteria di fronte alla stazione. Le donne no. Erano molto più aperte ed affettuose. Forse speravano di poter lasciare quei luoghi così puri ed ordinati. Il romanzo, forse il solo davvero storico, di cui parla Vassalli nella lettera è certamente “Il Cigno” (1993), l’altro dovrebbe essere “Cuore di Pietra” mentre il “suo romanzo” è senz’altro “L’oro del mondo”(1987). Intanto era già uscito nel 1984 “La notte della cometa” in cui la vicenda umana e letteraria di Dino Campana diventa sangue vivo e mostra qual è l’idea di poeta che ha Vassalli. Mai romanzo è stato scritto in cui l’autore ha versato sangue al posto dell’inchiostro più di questo. La partecipazione è totale e Vassalli sembra essere meno distante fino quasi ad identificarsi con il poeta di Marradi. D’altra parte lo sente come il suo “babbo matto”. “L’oro del mondo” è il più autobiografico dei romanzi di Vassalli. È il suo romanzo come dice. La figura del ragazzo così studioso, lo zio locandiere che si impegna a farlo studiare, l’altro inabile che ha bisogno di scaricarsi periodicamente con l’ausilio della zia, il padre ex gerarca che si ricicla nel dopoguerra vestendo i panni del casanova con annunci-trappole per vedove danarose, la madre che assiste il nobile invalido con la speranza di un’eredità tanto promessa quanto improbabile, i cercatori d’oro e così via, sono così verisimili da apparire veri. C’è tutta la fatica del vivere, talvolta del sopravvivere, c’è tutto l’amaro sapore del pane. Il 1990 è l’anno di Sebastiano Vassalli. Si stampa “La Chimera” arriva il premio Strega e con esso la consacrazione definitiva ed il successo editoriale. Il viaggio di Vassalli nel villaggio di Zardino, per ritornare al discorso sul romanzo storico, non è il vezzo tutto letterario di un romanziere che vuole indagare il seicento, ma il tentativo di un viaggiatore che ritorna sui suoi passi per cogliere il senso del percorso fatto ed utilizzarlo per i sentieri futuri. “Marco e Mattio” esce nel 1992. Un romanzo stupendo in cui Mattio Lovat, ciabattino, è il ritratto della miseria dell’epoca in contrapposizione alla lussuosa ostentazione della ricca borghesia e della nobiltà. Il poveretto si ammala di pellagra. Nel delirio della malattia pensa di poter cambiare il mondo immolandosi come Cristo. La sua croce sarà l’inedia e ne morirà per il rifiuto del cibo, nel manicomio di Venezia. Non riesce a cambiare le cose a Casal di Zoldo né la follia di Mattio e neppure Napoleone Bonaparte. La vessazione era identica anche con gli austriaci. La fame e la malattia è la condizione sovrana delle classi subiette. I Marco sono nel romanzo tutti quelli che, lucidamente, resosi conto della cruda realtà, cercano un altrove possibile in cui perdersi con il pensiero. L’unico vero romanzo storico Vassalli lo propone con “Il Cigno”(1993). La storia lì raccontata è del tutto vera. Una storia ricavata dai giornali dell’epoca. Una vicenda di mafia avvenuta in Sicilia: l’assassinio del sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo direttore del ”Banco di Sicilia”. Fu pugnalato in treno con ventisette colpi. Fu il primo cadavere eccellente per mano mafiosa registrato negli atti giudiziari. Il clamore del delitto eccellente, fece sentire tutti i siciliani sotto accusa per cui, pur di rispondere, finirono per difendere un delitto di mafia. Un po’ come avviene oggi tra “Padani e Neo-borbonici“. Sicuramente entrambi dotati di identiche argomentazioni stupide. Il processo che durò 11 anni finì con l’assoluzione e la messa in disparte dell’accusato del delitto. Si trattava dell’ex fiduciario di Francesco Crispi ministro. La vicenda fu completamente dimenticata. Si ripeterà con il generale Della Chiesa e successivamente con Falcone e Borsellino. La pubblicazione del romanzo provocò molte polemiche pretestuose andando a sollevare una presunta rivalità fra Sciascia e Vassalli. I campanilismi giornalistici andarono a tirar fuori un vecchio lavoro sussidiario che Vassalli aveva fatto per una edizione scolastica de “Il giorno della civetta”. Le note e correzioni che Vassalli aveva proposto per quel testo erano state lette ed accettate da Sciascia ed erano sembrate opportune visto che il libro doveva essere proposto agli studenti. Ma tant’è, tutto faceva brodo per andare ad alimentare la diatriba nord-sud e la relativa connessa stupidità. Forse, l’unico rilievo ragionevole, poteva essere quello di sottolineare la differenza sostanziale tra chi scrive in una stanza adibita a polveriera e chi racconta di fatti lontani. Ad ogni modo credo che bisogna ringraziare autori di libri come “Il Cigno” o come “Gomorra” perché non inventano eroi parlando di delinquenti, né miti esoterici discutendo di associazione a delinquere e tuttavia non è un caso che tra Vassalli e Saviano è il secondo a vivere sotto scorta. “Cuore di Pietra” uscirà nel 1996. Qui Vassalli utilizza la costruzione di una casa per attraversare un tempo che va dalla spedizione dei mille fino al contemporaneo, ed evidenzia che in fondo, non c’è niente di nuovo sul fronte delle cattive abitudini umane. L’architetto è personaggio utile per mettere alla berlina gli artisti che cercano di nascondere dietro la facciata retorica la vacuità dei loro progetti: gli arkadici. La ricontrattazione della spesa che incontriamo nel romanzo ci racconta di quanto oggi avviene nelle opere pubbliche, vecchia abitudine cara da sempre alla imprenditoria nostrana insieme alle inutili quanto fruttuose per essa, cattedrali nel deserto. Ma è anche e soprattutto il racconto della sconfitta dell’opera dell’uomo che è sempre destinata al fallimento, flagellata dal tempo e dai nuovi bisogni e dalla sovrintendenza degli dei che si curano poco delle fatiche umane ed anzi si divertono a vederli in affanno. È anche la critica alla pretesa di ridurre a scienza la Storia col suo dettare i tempi alla rivoluzione. La Storia come scienza, di fatto, costruisce vuoti teoremi, non produce progresso ma procura solo malessere ed odio e, talvolta, anche quando produce sommovimenti essi si manifestano con connotati completamente diversi da quelli sperati. Nel 1995 vede la luce “3012” che nelle intenzioni di Vassalli doveva far riflettere tutti coloro che identificavano il suo romanzo con il genere “storico”. E così va dove la Storia non può essere scienza ma solo frutto di una immaginazione cosciente: il futuro. Il tremiladodici è abbastanza lontano e fuori da ogni previsione che non sia magica o poetica. Vassalli è il contrario del mago. Quindi è costretto a muoversi da poeta. Questo, immagino lo faccia incazzare perché non ama essere avvicinato all’ esangue figura del poeta. La sua immaginazione che per le altre storie aveva recintato il nulla di spazi certi con studi d’ambiente e con viaggi nel passato, in questo romanzo non è possibile. Deve osservare il transeunte presente per realizzare una verisimiglianza futura. La crisi energetica, l’attività umana che riempie i quotidiani di delitti efferati, fanno da lucido propellente. La sua solita verve ironica, inventa il nuovo prodotto energetico. Lo chiamerà “eum” e risulterà dalla lavorazione dei sentimenti negativi come l’invidia, l’odio, l’egoismo. L’umanità futura si alimenterà di questo. Sentimenti come l’invidia spingeranno l’uomo a fare di più, perciò a farlo progredire. Basta intendersi bene sul significato di questo termine. Basta intendersi bene sul significato di progresso. Il romanzo tutto giocato sul filo della sottile ironia sembra un avviso che Vassalli spedisce agli uomini di buona volontà. Mi fermerei qui. Per evitare a quei due o tre lettori di stancarsi troppo. Mi riservo di continuare in un prossimo futuro se ne avrò l’occasione. Mi viene solo da aggiungere ancora una cosina su quel “Nulla” e sulle “storie”. Il “Nulla” di Vassalli io l’ho recepito come un’opera di pittura informale. Vassalli lo riconosce ogni volta incorniciato da una finestra. Gli arriva come espressione automatica che però stimola consapevolmente una sua volontà gnoseologica ed il primo accaparramento conoscitivo è sicuramente quello di una tenuta in pugno del tutto. In quel “Nulla” c’è l’annullamento di tutta la dialettica della vita reale. Ma Vassalli è un moderno, non è interessato a questo, non può accontentarsi di prendere la realtà come un blocco dogmatico sia pure magmatico e facile all’astrazione. Il suo occhio ne coglie le contraddizioni intrinseche per cui racconta la realtà per scomparti sia pure distillandoli nell’alambicco della lontananza. Ecco le sue storie. Titoli come “L’utopia ceramica” o “Archeologia del presente” ne sono la sintesi.