Casa vuota

Non saprei come meglio riassumere quel Natale se non con tre parole: una Casa vuota.

Terzo piano, Via Roma n. 197, 19100 ( per il vecchio codice postale), La Spezia. Una città sul mare. Il palazzo dai colori sgargianti, tra il giallo, il rosa antico e il verde delle persiane, segnava la strada che profumava di pane fresco, focaccia ligure e panni stesi. Stava li, sull’angolo per la stazione che porta il più direttamente possibile ad  una delle zone turistiche più ambite d’Italia:  le 5 terre.

Il portone di vetro e ferro dorato si apriva prima di suonare il campanello  perché qualcuno era sempre vigile alla finestra, dietro le tende o sul balconcino troppo basso per essere sicuro, ad aspettare che la macchina della nipotina adorata si parcheggiasse nei dintorni.

Poi i tre piani di scalone in marmo bianco venato e ferro battuto che stranamente non pesavano alle gambe, tra i caldi benvenuti dei vicini e l’emozione di poter rivedere i nonni ancora una volta

La signora Lina, Walter, La Franca, anche se per educazione da bambina inesperta davo loro del lei li conoscevo tutti, e da ognuno sapevo di potere ottenere un piccolo contentino come le mentine artigiani della pasticceria poco lontano in piazza Brin. Non era molto ma mi piaceva. Mi piaceva quell’odore di antico appena entrata in un palazzo popolare degli anni 50. Mi piaceva quell’odore di cortile con ancora I fili per stendere e il lavatoio per i  panni. Mi piacevano i muri spessi da cui non filtrava un rumore se non le grida dei gabbiani e le urla dei bambini che giocavano a pallone. Non era molto: senza ascensore, senza portineria e senza rastrelliera per le bici che si portavano nel piano interrato dove poi iniziavano le cantine.

Salite le scale, finalmente vedevo il portone in  legno scuro già spalancato e i nonni sul pianerottolo ad abbracciarmi. L’appartamento era piccolo, raccolto, con i muri interamente tappezzati e i mobili in stile rigidamente classico. Vorrei poter raccontare ogni dettaglio, ogni colore, ogni oggetto d’arredamento come in una fotografia. E forse potrei farlo sforzando un po’ la memoria, ma avrei bisogno di poter risentire, almeno per un attimo, ciò che più mi porto nel cuore: il profumo di quella casa.

Nel film “La grande bellezza” di Sorrentino, il protagonista afferma che la cosa che gli piace di più al mondo è il profumo delle case dei vecchi. Io potrei dire che una delle cose  amo più al mondo è il profumo di quella casa vecchia e di vecchi. Perché non era solo il tempo di una vita che si respirava, era qualcosa di più.

Non era molto ma era Casa e mi piaceva.

Era Casa , Casa in senso profondo: quel luogo accogliente e sicuro dove sai di poter rimanere bambino per sempre. Quel posto dove sai che ogni tua lacrima sarà protetta e  asciugata dagli abbracci di una famiglia. Dove sai che sarai per sempre coccolato, viziato se vogliamo, e potrai lasciare il cappotto pesante di responsabilità e angosce ad asciugare sulla stufa almeno per un po’. Dove sai che sarai  il benvenuto. Dove sai che tornerai sempre volentieri. Dove sai che non sentirai mai la nostalgia di qualcosa.

È difficile considerare casa un posto così lontano da dove abiti. Ma ero poco più che bambina e ancora incapace di costruirmi da me delle radici. Ero nata lontana dalle terre d’origine dei miei genitori e loro non si erano più sforzati di tessere una rete affettiva nella nuova vita. Eravamo sempre stati noi tre, solo e soltanto noi tre, tre sradicati alla ricerca di un posto migliore. Dal paese alla città, forse per nascondersi meglio e poter avere ancora meno rapporti, io li seguivo: non avevo mai conosciuto altro. Eppure non mi bastava. Non ne ero pienamente cosciente all’epoca ma dentro di me, nel profondo, sentivo ogni tanto un piccolo vuoto allo stomaco, una strana nostalgia da lacrime sottili. Quel momento in cui non importa più dove ti trovi: tutto si pervade di un calore lontano e ti sembra quasi di affogare in un profumo che non c’è. Un ricordo mai vissuto per davvero eppure sempre sentito, più potente di qualsiasi pensiero o déjà-vu. Qualcosa che brucia agli occhi ma si blocca prima di un pianto o di un respiro lasciando solo un’ombra nostalgica di un passato inesistente. Non riuscivo a dare un volto a questa sensazione, solo crescendo ho capito che la nostra solitaria casa che preferiva avere ruote piuttosto che fondamenta non mi bastava.

Forse non me ne rendevo conto allora perché avevo la mia preziosa valvola di sfogo. Avevo un posto dove non eravamo più solo noi tre, presi nel nostro chiuderci, scappare e nasconderci come se avessimo quasi paura di avere un motivo valido,  un viso caro per cui fermarci. Era a duecento chilometri di distanza ma sapevo di poterci tornare e quella certezza incrollabile scacciava via qualsiasi ombra di solitudine che mi attanagliava di tanto in tanto.

Ma quel Natale era tutto diverso, anche se ero completamente incapace di ammetterlo a me stessa.

Sarà stata la lontananza, sarà stata la difficoltà ad elaborare il primo vero lutto nella mia vita ma quando siamo partiti il 22 dicembre alla volta di La Spezia era  tutto così maledettamente normale che dentro di me non riuscivo proprio a capire cosa fosse cambiato. In realtà lo sapevo perfettamente, non mi ero dimenticata due funerali, eppure per quanto mi sforzassi non lo sentivo.

Cosa sono alla fine due bare in confronto alla certezza incrollabile che porti con te da dodici anni? Lo stavo per scoprire purtroppo ma durante un viaggio in macchina più silenzioso del solito ero ancora convinta di fare, come ogni anno, la mia solita fuga verso Casa.

Guardando dal finestrino le curve della Cisa spruzzate di neve e le uscite autostradali che conoscevo a memoria, ero ancora pervasa da quella calda speranza di ritrovare tutto come prima. Mai come in quel momento ho provato cosa significa avere il cervello che dice una cosa e il cuore che ne grida una completamente opposta. Folle, impossibile, contro ogni legge del tempo e della Morte, eppure così reale.

Non è bastato uscire dal casello, non è bastato parcheggiare la macchina. Ero sempre fermamente convinta che qualcuno da dietro le tende avesse già aperto il portone del palazzo.

Invece quella volta era chiuso e non si sarebbe aperto nemmeno suonando a un campanello che nessuno avrebbe potuto sentire.

Però fuori c’era sempre la stessa aria di pane fresco, mare e cortili: come poteva esser cambiato qualcosa?

Magari i nonni erano andati a far la spesa o in farmacia o dal dottore. Magari erano solo impegnati in casa e quindi non avevano potuto aprire ma ci stavano aspettando.

Non me ne rendevo ancora conto, nonostante il catenaccio pesante da aprire con le chiavi di un portone sempre trovato spalancato, la mia certezza incrollabile urlava ancora: “Li troverai lì. Ti stanno aspettando. Sali. Sei a casa.”

Ma salite le scale senza salutare i vicini perché troppa era l’ansia di dare vita alla mia speranza, mi sono ritrovata al terzo piano davanti a una seconda porta chiusa. E allora, ma solo allora, tra le grida si è fatta strada la flebile voce della razionalità: “Sono morti. La tua casa è vuota e persa per sempre.”

Ho scelto di non ascoltarla assieme alla voglia di piangere che avevo bloccata in gola e ho girato le chiavi. Tre serrature, tre ultimi respiri strozzati dalla tensione di scoprire la Morte e la verità definitivamente.

La Casa vuota. Un silenzio estraniante in cui si sentiva tutto.

Il cigolio del legno, i miei passi, le chiavi sul pavimento perché la maggior parte dei mobili era stata già portata via: sentivo tutto, tutto tranne il  cuore battere. Le mie voci e grida interne si erano zittite di colpo e ogni minimo rumore esterno martellava nel cervello fino a farlo implodere in mille prigioni, ragnatele d’acciaio corroso che attanagliavano qualsiasi pensiero lasciando la mia testa muta e intontita. Tutto era troppo forte in quel silenzio. Tutto era così incomprensibile e innaturale da lasciarmi vuota, vuota come il rifugio che avevo perso.

Sentire il vuoto dentro. È difficile da spiegare a chi non lo ha mai provato. Non è una semplice mancanza e men che meno dolore. È proprio un non sentirsi più, un non riuscire più a comunicare con se stessi. Distaccarsi dal corpo, dalle emozioni, dai pensieri e vedersi solo come il riflesso di uno specchio. È come se si  diventasse dei narratori in terza persona della propria vita e ci si muovesse dall’esterno con la stessa freddezza che uno scrittore, onnisciente ma invisibile, usa per rendere un personaggio interessante. Non voglio scadere nel solito paragone delle marionette, non è così: il filo non esiste proprio. In quel momento uno guarda le immagini della propria vita scorrere con la stessa attenzione che dedica ad un film scadente, senza nessun trasporto. È come leggere un libro, un libro che per quanto tragico è scritto male e quindi non riesce a commuovere  restando solo un inutile pezzo di carta stampata. Ma la cosa più strana è la lucidità razionale che si riesce ad avere. Il cervello, depurato da qualsiasi macchia emotiva e privo di un vero e proprio proprietario ragiona ad una velocità impressionante e quasi crudele. Non c’è posto per la moralità o per i ricordi: risolve gli algoritmi mandati dagli stimoli esterni a cui è molto più sensibile e basta. Diventa una sorta di macchina perfetta, disumana, abominevole ma perfetta.

In quel momento ho sentito veramente il vuoto per la prima volta. Ma essendo ancora inesperta e disprezzando tutt’ora quello scudo che ogni tanto metto involontariamente tra me e il mio essere, quella lucidità di ghiaccio è durata poco ed è sopraggiunto il dolore.

Sentivo l’odore tanto amato di quella casa vecchia e di vecchi che persisteva e avvolgeva le poche cose rimaste. Era così limpido, così chiaro, così distinto che avrei potuto disegnarlo. Ma era l’ultima volta che mi pervadeva le narici e piano piano sarebbe svanito nell’oblio del ricordo. Sempre più leggero, sempre più leggero fino a perdersi e a non poter più distinguere i suoi contorni originali così forti dalla mia immaginazione. Quel triste ma inevitabile destino mi ha colpita come un pugno dritto allo stomaco e mi è salito fino in gola per strapparmi il respiro. Il vuoto era diventato mancanza, il non sentirsi più era diventato sentirsi a metà. Il mio stomaco era chiuso dal catenaccio del portone. Stretto in quella morsa, sparava un’aria tossica d’angoscia in gola e nel naso togliendomi il fiato, quasi a volermi strappar via ancora prima del tempo quel profumo tanto amato. Non riuscivo ancora a sentire il mio cuore battere, forse perché s’era eclissato nel silenzio della casa, forse perché andava troppo veloce ed io ero stanca, provata, sopraffatta. Mi pesava stare in piedi, mi pesava star ferma, mi pesava guardare in giro qualcosa di tanto caro che era diventato così ostile ed estraneo. Avevo solo voglia nascondermi, di sparire per un attimo e piangere in pace. Ma non potevo piangere, dovevo essere forte anche se stavo crollando. Almeno non dovevo farmi vedere. Così, con la testa che girava come durante una crisi di claustrofobia e il poco fiato che riuscivo ancora ad avere  nei polmoni, ho detto a mia madre che sarei andata a farmi un bagno perché avevo freddo. Lei, provata dalla situazione, dal dolore e intenta a sistemare le ultime cose che voleva tenere e portare via, non si è fortunatamente accorta del mio stato emotivo e non mi ha costretta ad ulteriori sforzi per parlare e sembrare normale.

Finalmente entrata nel piccolo ed unico bagno della casa, ho chiuso la porta e lasciato il mondo fuori, ma i ricordi mi hanno seguita anche dove i singhiozzi non sarebbero stati notati.

Il pavimento era nero e la vasca che stavo riempiendo bianca: stavo per fare un bagno nei colori della morte.

Più la vasca si riempiva, più i miei occhi si guardavano intorno e si colmavano di lacrime. Sul ripiano della finestra c’erano ancora le parole crociate con cui mio nonno passava il suo tempo in bagno. Il numero della seconda settimana d’agosto era incompleto, nonostante la sua abilità affinata in anni di allenamento. Era stato spezzato come il mio cielo dal fulmine di una telefonata in piena notte tra gli incubi premonitori.

Erano le sei del mattino dell’otto agosto, di lì a poco sarebbero iniziate le olimpiadi a Pechino. Avevo letto io il numero sul cordless e dopo i sogni angosciosi della notte prima passata quasi in bianco, mi portavo addosso conficcato nella schiena un cattivo presagio.

0187714702, Spezia. Non mi potevo aspettare certo buone notizie data l’ora della chiamata.

“Ciao stellina, mi passi la mamma per favore?” La voce della nonna era tesa come mai l’avevo sentita e mi sembrava quasi inutile chiedere ulteriori spiegazioni.

Erano bastate così poche parole per spezzare il mio cielo e schiantare a terra quella stellina. Le parole che mancavano per completare la settimana enigmistica del bagno.

Ho preso freneticamente in mano la matita abbandonata anch’essa sul ripiano della finestra, come se riuscire a finirle avrebbe riportato tutto come prima. Ma ho stretto solo il fruscio di una carta grigia e le definizioni hanno cominciato ad appannarsi fino a che quella strana sensazione di claustrofobia è implosa nelle lacrime e nei ricordi che avevo preferito dimenticare per dare posto alla mia folle speranza.

Una crisi respiratoria. Era stata una crisi respiratoria a portarsi via mio nonno quell’estate. In quel momento, mentre mi ero immersa nella vasca senza smettere di piangere riuscivo a capire quanto fosse orribile non respirare.

Ci sono persone che ritengono il pianto liberatorio. A me, quando viene dal profondo, strappa solo la gola e brucia gli occhi.

In ogni goccia gelata che gettavo dalle ciglia nell’acqua bollente del bagno, rivedevo un’immagine di quell’ultima parte di vita che avevo voluto seppellire per tenere in vita i morti.

La partenza in fretta e furia da Brescia, io e mia madre in macchina, la seconda telefonata all’imbocco della Cisa: “È tutto finito, ora non soffre più” e il corpo esanime, grigio su un letto grigio, che avevo visto così pieno di vita e forza di volontà fino a una settimana prima. Il nonno era sempre stato il mio piccolo grande eroe proprio per quel testardo attaccamento alla vita e ai suoi piccoli piaceri che nonostante le mille difficoltà non lo aveva mai abbandonato.

Da ragazzo era stato deportato in Germania e, invece di trasformare quella sofferenza in un tormento, era diventato un “salvato” nel vero senso della parola se vogliamo citare Primo Levi. Era tornato con un amore per la vita che non ho mai visto in nessun altro. Non che facesse cose particolari ma era proprio questo il suo punto di forza: si godeva i suoi sfizi come se fossero intrattenimenti da re. Erano piccole cose:  le vacanze alle terme, il gioco al lotto ogni santa settimana, il caffè con gli amici al bar tabacchi “Da Mario”, il Chianti Gallo Nero sempre in tavola, seguire le partite della juve in tv, avere sempre qualche caramella Streglio (e SOLO Streglio)da mangiare. Sembra banale, quanta gente ha predicato e quanti poeti hanno scritto sulla felicità delle piccole cose? Ma sostanzialmente quanti di loro sono o sono stati veramente coerenti con ciò che affermano? Quanti sono riusciti realmente a curare e superare le loro angosce con le piccole cose? Io personalmente ho conosciuto solo mio nonno che, senza sprecarsi in prediche, era riuscito a farlo e a dimostrarlo ogni giorno.

Con il passare dell’età, a causa del lavoro in fonderia, era diventato silicotico e la sua salute era ulteriormente peggiorata con il sopraggiungere di un’artrosi deformante congenita che lo aveva ridotto da un metro e ottanta a uno e cinquanta. Faceva fatica sia a camminare che a respirare, doveva prendere la bellezza di dodici pillole al giorno eppure non si era mai lasciato andare e men che meno accudire. Le pastiglie le teneva meticolosamente in ordine nel suo cassetto della cucina senza dimenticarsene nemmeno una e, a costo di uscire, camminava col bastone fermandosi ad ogni panchina che incontrava per la fatica.

Qualche anno prima si era spaccato una costola cadendo in casa. Neanche quello lo aveva fermato: dopo un mese a letto aveva ripreso a camminare e a fare ogni giorno uno scalino in più fino ad arrivare di nuovo fuori dal palazzo.

Avrebbe avuto tutte le ragioni per arrendersi e rinchiudersi in casa a compatirsi  invece non l’avevo mai sentito alzare un solo lamento sulla sua condizione e men che meno sfruttarla per essere “viziato”. Al contrario, era una persona estremamente socievole e si faceva voler bene da tutti, persino dalle commesse nei negozi appena conosciute. Amava intrattenere la gente con storie divertenti più o meno inventate della sua vita passata ed era sempre pieno di amici pronti ad ascoltarlo. Persino la terribile prigionia in Germania era diventata una fonte inesauribile di aneddoti avvincenti. Raccontava del genovese e del suo alano che capiva solo il dialetto e cacciava nella Foresta Nera fagiani, lepri caprioli (a seconda della versione) portandoli poi a loro prigionieri da mangiare. Oppure di come aveva corretto un ingegnere tedesco su come mettere a posto un camion senza sapere chi fosse. O ancora di come avesse insegnato ai crucchi a mangiare pasta decente senza marmellata. Nessuno sapeva dove finisse la realtà e iniziasse la sua immaginazione ma poco importava: aveva trasformato un trauma profondo, una tragedia che non si sa quanti siano riusciti realmente a sopportare, nella sua più grande avventura.

Lui per me incarnava la vera forza. D’animo, di volontà, dell’amore, della vita.

Nemmeno la Forza aveva potuto qualcosa contro la Morte. Pensare che una settimana prima, l’ultima volta che l’avevo visto, eravamo andati a prenotare l’operazione alla cataratta per settembre. Quegli occhi che volevano vedere meglio non avrebbero visto mai più. Il mio eroe era crollato sotto la falce del tempo ed era diventato una fredda statua.

Il resto della giornata era stato inutile tra le lacrime di tutti i parenti ed amici che erano venuti a trovarlo e mia nonna che già affermava con convinzione di voler morire.

Poi c’era stato il funerale tenuto dal parroco da poco in Italia che ancora faticava con la lingua e la nonna che alla fine si era comprata due Ceres da bere in casa.

Altra lacrima nella vasca: la cremazione. Si, avevo assistito anche a quella anche se non mi ricordo il perché. Ovviamente non si vede nulla, solo la bara che entra nella camera ardente per assicurarsi che il corpo venga effettivamente bruciato e non donato alla scienza o pseudo-scienza senza consenso.

Solo mentre stavo lì, immersa nel bagno in cui lui passava delle ore, tutte queste scene prendevano veramente vita. Fino ad allora erano sembrate così insignificanti da poter esser dimenticate, invece sarebbero rimaste per sempre incise nella mia memoria perché per la prima volta avevo veramente perso qualcosa: un nonno, un eroe, il modello a cui ispirarmi, una parte della Casa in cui mi rifugiavo. Forse avevo perso troppo per essere la prima volta.

Ma le lacrime non erano ancora finite e nemmeno le mie perdite. Dopo una settimana da quel fulmine che aveva spezzato il mio cielo, verso le undici di sera la nonna era caduta alzandosi male dalla poltrona. Le sirene dell’ambulanza e le luci blu e rosse che illuminavano l’oscurità della notte. Ero rimasta a vedere la televisione con gli occhi umidi  fino alle due, mentre mio padre m’aveva chiesto se volessi giocare a carte. No. Non volevo. Mi aveva insegnato il nonno a giocare e non mi pareva giusto farlo senza di lui. Così avevo aspettato, imbambolata da quei colori falsi dello schermo che mandano facilmente il cervello in ospizio, fino alla chiamata di mia madre che confermava il ricovero e la frattura al femore.

Il giorno dopo in ospedale avevo incontrato il dottore che avrebbe eseguito l’operazione il venerdì stesso. Una persona viscida a pelle, ma le sue parole consolatorie riguardo alla facilità dell’intervento avevano messo a tacere le mie cattive impressioni. I desideri di mia nonna invece erano immutati e le sue uniche considerazioni dal lettino a sbarre dell’ospedale erano state:” Ma che operazione? Lasciatemi morire che io voglio solo quello.”

Evidentemente qualcuno dall’alto l’aveva ascoltata e i miei cattivi presentimenti non si erano sbagliati, come al solito.

Il giorno dopo l’operazione fallita, infatti, ci siamo ritrovati nello studio del dottor Pesci.

So che avevo detto che non avrei fatto nomi ma se per caso quel lurido arrogante e viscido figlio di un verme e di una cagna in calore esercitasse ancora spero che questo gli rovini la carriera. E non lo insulto per l’intervento sbagliato, no. Errare è umano anche per i medici purtroppo. È stato il suo discorso senza il minimo tatto e con quel ghigno idiota stampato a rivoltarmi lo stomaco e farmi capire la bassezza, il marcio che si nascondeva dietro quelle mille lauree.

“Eh, si ma è un’operazione da niente. Vai lì col martellino a smussare TIC TIC TIC e a posto. Solo che sta volta ha fatto TIC TIC TRACK e si è frantumato di più l’osso. Succede una volta ogni cento ma ormai dobbiamo metterle la placca. Ehh pace signora, succede una volta ogni cento è toccata a sua madre”

Il gelo. Penso non sia stato ricoperto di insulti solo perché avrebbe avuto di nuovo mia nonna sotto i ferri ma l’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento sarebbe stato togliergli quel sorrisetto dalla faccia spaccandogli i denti e le mandibole uno ad uno con quel martelletto con cui si divertiva a giocare con le ossa delle persone. Odio chi non prende seriamente il proprio lavoro, ma i medici che lo fanno si meriterebbero uno degli ultimi gironi dell’Inferno.

Fatto sta che purtroppo era rimasto illeso e almeno per la seconda operazione mia nonna non era stata la “volta su cento”.

Tuttavia la situazione non era migliorata perché lei non collaborava alla riabilitazione e dopo tre passi urlava, piangeva e scongiurava gli infermieri di riportarla sulla sedia a rotelle. Né le mie lacrime, né i discorsi di sua figlia e dei cari rimasti riuscivano a distoglierla dal suo grande desiderio di morire.

Non mangiava quasi più. O almeno non senza una litigata per ogni boccone.

Dall’ospedale era stata spostata in una casa privata di riabilitazione gestita dalle suore, in modo che avesse la sua stanza privata e più attenzioni, anche perché di lì a poco sarebbe iniziata la scuola e non avremmo avuto modo di vederla se non nel weekend.

All’inizio scendevo una volta si e una no, poi mi madre aveva deciso di ridurre le mie visite per non farmi vedere tutte le volte la stessa cosa: una donna distrutta, piegata, senza più una ragione per rialzarsi e camminare e men che meno per mangiare.

Mi è rimasta impressa solo l’ultima di quelle visite. Era ormai autunno inoltrato ma non sapevo ancora che sarei stata condannata ad odiare quella stagione.

La camera era la stessa ma mia nonna no. Era ulteriormente peggiorata e i suoi occhi spenti e vacui non mi riconoscevano quasi più. Si leggeva chiaramente nel suo sguardo che era già morta. Le avevamo portato i pasticcini, era sempre stata golosa di dolci. Ma dopo nemmeno due morsi fatti da imboccata si era messa a piangere, urlando che non ce la faceva e invocando sua madre e la morte. Il pugno nello stomaco che le era arrivato dallo sforzo di mangiare quella pastina controvoglia aveva trapassato anche il mio.

Spero non abbiate idea e che mai l’avrete, di cosa voglia dire cercare disperatamente di salvare una persona amata e sentire che tutto il vostro amore non è abbastanza nemmeno per farle fare lo sforzo di restare in vita. Impotenti di fronte a una volontà che non si cura di voi, per cui voi non siete abbastanza.

Una morte annunciata. Una morte sperata. Una morte arrivata dopo poco grazie ad un ictus cerebrale. Un secondo funerale a distanza di tre mesi dal primo. Una seconda cremazione e due urne cinerarie erano tutto ciò che rimaneva dei miei nonni e di Casa.

Avevo finito le mie lacrime di flashback, ci avevo riempito a fondo la mia anima e quel bagno nei colori dei morti.

Dicono che si diventi adulti quando si incontra la Morte per la prima volta, se è così il mio passaggio all’età adulta è stato in quella vasca da bagno e fin troppo traumatico.

Avevo perso due nonni, il mio modello di vita, il mio rifugio, la mia certezza incrollabile, Casa e il Natale. So che c’è chi paga prezzi molto più alti ma in quel momento a me sembrava già troppo alto il mio.

Pensare che i nonni quell’autunno si sarebbero dovuti trasferire a Brescia. Dopo mille litigi per il dolore di lasciare le loro radici, si erano decisi a comprare l’appartamento che ora giaceva più vuoto di questo a pochi minuti da dove vivevamo. Già mi ero immaginata di andare li a mangiare dopo scuola. Già mi ero immaginata il Natale tutti insieme in casa nostra. Un destino avverso e crudele ci aveva insegnato che tentare di sradicare una persona significa ucciderla e che senza radici si vive tristi.

Non mi restava che una lezione troppo dura e i vestiti da indossare per andare dalla prozia.

Avremmo passato lì le feste, giusto per avere una minima, vaga illusione che fosse Natale.

Ma non bastava il brodo di cima ripiena e i ravioli artigianali il giorno dopo.

Tutto era cambiato e il Natale non lo sentivo più, aveva completamente perso il suo senso in quella vasca da bagno.