DA OMERO A PUBLIO VIRGILIO MARONE SINO A DANTE ALIGHIERI NEL MITO ED OLTRE IL MITO

Assorbita tra le acque del mar Iono, situata ad oriente, abusata e  costretta dai flutti del mare, sosta una penisola tratteggiata da ristrette isole, che ne schizzano i confini, macchiettandone le coste, questa offriva ai naviganti mille e più approdi e ciò si verificava anche 2000 a.C. quando la Grecia del tempo veniva invasa da una popolazione indoeuropea, appartenente alla stirpe degli elleni, da Elleno loro capostipite………………

1184 a. C.

Se la mitica Pandora avesse rialzato il coperchio del misterioso vaso donatole da Giove, e l’avrebbe fatto all’interno delle possenti mura di Ilio (Troia), tutto ciò in esso contenuto (i mali del mondo), non si sarebbe  dipanato da quel luogo.
Il contenuto del vaso di Pandora si sarebbe insinuato tra quelle mura come una larva che divora la sua dimora.
Ferocemente divorate dal loro interno si sarebbero sbriciolate, aprendo in tal modo uno sconsiderato varco per altrettanti sconsiderate genti.
Ilio avrebbe rifocillato la sete di questi popoli giunti da lontani ed ulteriolmente inferociti dalla lunga attesa.
Le mura di Troia avrebbero emancipato la città dalla loro protezione.
Un fiume di sangue ingrossato da un torrente di lacrime sarebbe stato prosciugato dalla forza intensa delle fiamme che ogni cosa avrebbero divorato, case, oggetti, monili, cadaveri.
1184 a. C. la potente cittá di Troia cade definitivamente abbattuta ed umiliata dal ferro acheo……

Ogni popolo, dal più primitivo al più evoluto, organizza, idea ed omogenea all’interno della propria struttura sociale, un organo costituente di fatto, la colonna portante della nazione o del paese qual si voglia; Tale organizzazione si identifica nelle milizie armate che costituiscono la difesa di uno stato: armamenti, eserciti, ranghi alcune delle parole chiave per la sopravvivenza oggettiva di una nazione e se oggi il livello sfiorato in questo settore ha realizzato un avanzamento poderoso, al tempo degli antichi greci, il loro grado organizzativo non lasciava certo a desiderare…………………..

Un chiaro esempio ci verrá proposto dalla storia che segue, ossia la mastodontica spedizione contro Ilio
Dal lato logistico gli Achei si avvalevano di numerosi capi, uno per ogni microspedizione, sui quali primeggiava un solo uomo il capo supremo della spedizione: AGAMENNONE, inoltre fattore non meno importante, il tutto era basato su un’immensa ragnatela di alleanze, volontarie, dovute o imposte.
L’insieme in pratica specchiava, neanche a dirlo, la struttura dell’Olimpo, ove ogni Dio e ogni Dea primeggiava su un qualcosa in particolare, ma su tutti predominava un solo Dio, GIOVE, il padre degli Dei nonché l’Agamennone dell’Olimpo, il quale possedeva un  potere illimitato su ogni altra divinitá tranne che su una, il FATO.
Tale identitá dalla figura  fragile ed innocua, impostagli dalla viecchiezza che la contraddistingueva, era in realtá la divinitá più potente dell’Olimpo, essa era rappresentata con le fattezze di un vecchio cieco coronato di stelle con i piedi pogiati sul globo terrestre, nelle mani reggeva la sua terribile urna, contenente la sorte dei mortali, il simbolo che lo caratterizzava era costituito da una ruota bloccata dal giogo di una grossa catena.
Identificato come figlio di CAOS e di GEA, il Fato predominava sugli Dei, sul mare, sul cielo e persino sugli inferi ,le sue decisioni erano implacabili, immutabili, misteriose ,tuttavia per prendersi gioco dei mortali o addirittura degli Dei, il Fato concedeva che attraverso delle premonizioni o responsi, queste sue decisioni, venissero anzitempo alla luce, ma ciò servirá solo a conoscere in anticipo quello che era stato fissato, solo in rare circostanze, il Fato, concedeva di scegliere, scelta che non concesse a Troia, la quale attraverso uno dei suoi figli più infecondi  “PARIDE” verrá trainata verso il suo triste destino e forse per rendere tutto più amaro ogni cosa verrá preceduta da un sogno premonitore……………….

A questo punto, dunque il popolo d’Ilio per il principio espresso sopra, doveva solo attendere il proseguo degli eventi rassegnato al proprio destino, abbandonandosi ai desideri del potente innominato dell’Olimpo, il Fato  ricordava molto da vicino la figura dell’innominato manzoniano, questi difatti al pari del personaggio tratteggiato molti secoli avanti dal Manzoni, annullava il proprio potere illimitato, nella più assoluta discrezione di se estremizzato al tal punto da renderlo una divinitá quasi del tutto ignorata, trasparente un ectoplasma del panorama mitologico e del credo acheo il quale declinava sulla figura del padre degli Dei, ZEUS, un potere che in realtá non possedeva, ci si ricordava del fato solo quando con esso ci si scontrava direttamente…………….

L’AMORE
L’amore è quel fondamento, che non oppone alcuna riserva.
L’amore è quel nettare che gratifica e che sazia
L’amore è vigore, potenza, forza pura
L’amore è un concetto, autentico ed incontaminato come una goccia di rugiada in aperta campagna
L’amore è veleno, l’amore è danno, un pericolo è un vizio per  chi se ne inebria, nulla  ha valore, non ha peso nessuno
L’amore vive senza movente, non vi è una vera giustificazione, non vi è una logica, che spieghi perché l’altro venga amato, a nulla vale qualunque raziocinio, non vi è un fodamento ne un pretesto in amore, e per questo, esso è un sentimento che disgiunge il cuore e alienamento dal dolore, occupa l’anima e la disloca ubicandola in un mondo sensibile che la estranea da se stessa e dagli altri;
L’amore è una medicina molto amara che tuttavia, fa un pò bene

Paride, si ritroverá a corte di re Menelao e al cospetto di ELENA, la regina…………………..

Fanno dunque il loro accesso due fra i più importanti personaggi del poema omerico; ELENA della corte di TINDAREO e MENELAO della scellerata famiglia dei pelopidi.
Elena, era quindi la figlia putativa di Tindareo e sorella di CLITEMNESTRA e dei dioscuri CASTORE e PELOPE, Menelao era figlio d’ATREO e il nipote di PELOPE, nonché fratello di AGAMENNONE (capo supremo della spedizione achea contro Ilio).
L’unione tra Menelao avvenne come consenguenza di una delle tante ed innumerevoli scelleratezze operate dalla famiglia dei Pelopidi…………………

Elena sin dalla più giovane etá fu per il povero Tindareo cagione di non poche preoccupazioni, intanto all’etá di dieci anni ella verrá rapita da Teseo per poi essere liberata dai suoi due fratelli Castore e Polluce, a distanza di poco tempo Tindareo si troverá di fronte un orda di pretendenti alla mano della bellissima Elena, risulterebbe superfluo sottolineare la delicata posizione in cui venne posto il re di Sparta………………………….

Tindareo rimetterà la scelta alla figlia e poi proporrá un giuramento, “Il giuramento di Tindareo” ove ogni pretendente giurava di accettare la scelta della bella Elena e di offrire la propria alleanza nonché  protezione e sostegno al prescelto………………………………..

Il presunto rapimento di Elena da parte del principe frigiano Paride, porrá Menelao nella posizione di chiamare in suo aiuto tutti gli ex pretendenti di Elena, in tal modo  verrá organizzata la più spettacolare  ed imponente spedizione che gli achei avessero mai compiuto…………………………..

Tutto era dunque compiuto così come era stato architettato dai greci e soprattutto dal Fato, malgrado che a fianco di Laocoonte, un’altra voce si era innalzata urlante ed al contempo tacita, difatti , il richiamo dell’inquietante profetessa CASSANDRA,  era echeggiato in unione a quello di Laocoonte; Ella, dall’alto della sua torre aveva urlato un latrato di dolore mai udito prima d’allora, il levarsi di quella voce, aveva inutilmente echeggiato le immagini terribili che avrebbero consunto Troia, se quel malefico destriero di legno fosse stato accolto entro le mura della cittá.
CASSANDRA, gemella di ELENO era una delle figlie di Priamo e di Ecuba, il suo bellissimo aspetto aveva fatto innamorare il divino Apollo, il quale aveva concesso alla principessa il dono della virtù profetica, ma ella, respingerá l’amore del divino figlio di Giove, per cui verrá condannata da questi a predire sempre il vero ma, a non essere mai creduta, questa maledizione che non veniva colta dai troiani, attirò su Cassandra il loro odio, venendo additata come una profetessa di sventure, apportatrice di malugurio, per tale ragione verrá imprigionata in solitudine nell’alto di una torre, ove solo quelle mura potevano tendere l’orecchio ai cattivi presagi malauguranti della sventurata principessa . In tal modo, la bellissima  Cassandra, indovina di sciagure, vittima sacrificale del vero, pedina della menzogna, trascorreva da tempo la sua esiatenza in totale solitudine, in congregazione solo con le rappresentazioni, che scorrevano spietate di fronte ai suoi occhi, le quali carpivano tutto ciò che sarebbe avvenuto di li a poco, ma, senza poter far nulla affinchè queste cose non avessero ad avvenire, in totale assenza della ben minima risorsa, nell’ isolamento dei suoi pensieri, ella era abbandonata in un deserto di affetti, ove il romitaggio delle sue predizioni vagava costretto in quell’angusto spazio come una presenza senza volto e senza nome.  A volte ella tentava una ribellione, insorgendo con l’ unico strumento a sua disposizione, la sua voce, ma nessuno voleva udire quanto aveva da dire,  tuttavia, ella, tenace come non mai anche questa volta, quest’ ultima volta, con le proprie residue forze emotive , facendo scempio delle sue corde vocali, in un ulteriore ed irriducibile richiamo alla sua gente al suo re a suo padre, ella aveva ammonito i troiani e Troia; Cassandra aveva messo in giardia ciascuno di essi, ma ella giá sapeva che nessuno di loro, l’avrebbe ascoltata,  n’e padre, n’e madre n’e fratelli, e  neppure la cittá di Troia la quale in unione a tutti gli altri si predisponeva  a cadere sotto il ferro greco.
Una parte della mura verrá dunque abbattuta, al fine di favorire l’accesso nella cittá, del mastodontico cavallo di legno, al sopraggiungere della notte, questi sostava con i suoi grossi zoccolo sul suolo di Troia; In tal modo dove fino ad allora non erano riuscite cruenti battaglie, la forza e l’ingegno dei greci, il fiume di sangue sparso da un numero indefinito di uomini, un lungo assedio decennale, adesso, era riuscito ad un ammasso di tronchi d’abete, e mentre la figlia del Caos e della Terra, la NOTTE, percorreva sul suo carro d’ebano, i meandri di Troia, impugnando con la destra il proprio scettro di piombo, impadronendosi incontrastata di quell’ angolo di mondo, ella, nel fare ciò, al contempo conduceva con se nei territori d’Ilio, suo figlio, ossia il benevolo SONNO, identificato con l’aspetto di un  giovane uomo, coronato da una ghirlanda di papaveri ed alato come una farfalla, questi reggeva una fiaccola spenta, rovesciata in una mano, e nell’altra, da un corno spargeva in ogni dove il sonnifero ristoratore per ogni uomo, ma un altra presenza, più inquietante, seguiva entrambi; Un uomo, con una folta barba, con due nere e grandi ali di pipistrello, le viscere di piombo e il cuore di ferro, egli era fratello del Sonno e il figlio della Notte, questi era la Morte.
Sovente capitava che codesta presenza seguisse entrambi, scortando ed accompagnando il loro incedere lento, nella perpetua peregrinazione del globo, ma questa, in un luogo grande quanto Ilio, indugiava con loro solo qualche momento, il tempo di portar via con sr un bimbo malato, un vecchio stanco, una madre in travaglio, un padre logorato dagli stenti e dall’infermitá, o un neonato che aveva indugiato troppo nel venire al mondo, a volte il  tempo di un battito do ciglio; Ma  non quella notte, quella notte egli sarebbe rimasto  a lungo in quel perimetro tracciato da quelle mura tranciate dall’inetteza umana.
Peesino Ade il Dio degli inferi si era preparato, perché quelle ore notturne sarebbero state diverse dal solito, quella notte sarebbe stata feconda per l’oltretomba e Caronte avrebbe dovuto traghettare molte anime se solo qualcheduno si sarebbe preso la briga di seppillire ciascuno di loro. Così, quando le lingue tacquero, quando i pensieri si furono trasformati in sogni, i movimenti in ozio, e soprattutto le paure in pace, nel momento in cui l’allerta era divenuta tregua, l’odio riconciliazione, l’inganno veritá, il compimento, estremo epilogo,il punto terminale, speranza, in quel lasso di tempo, quando tutto ciò era stato tradito dal mutismo, dalla calma, dalla totale assenza di rumori, che regnava ad Ilio in una notte come non ce n’erano state a Troia oramai, da lungi tempo; Quando ciò avvenne; la pancia del cavallo, contro ogni umana previsione, iniziò a figliare, facendo uscire fuori da se in un cesareo il quale aveva squartato in due il suo ventre, tutti quelli esseri appiattiti al suo interno, ma quel parto innaturale poteva solo parzialmente, ricordare il parto di una donna o di una cavalla, difatti da quel corpo non erano fuoriusciti fluidi corporei, dunque niente sangue, niente liquido amniotico, e quant’altro, nessun cordone ombelicale, univa le creature che esso partoriva, nessun puledrino fuoriusciva da quel cavallo, come neanche nessun neonato, bensì uomini, forti, senza innocenza, non nudi, ma ricoperti di armature, non indifesi,  ma armati di ferro e di odio, non fragili, ma forti non affamati di latte materno ma bramosi del sangue di altri figli.
Di figli, nati dal ventre delle loro madri, che in quella notte avrebbero preferito  che non fossero mai nati.
E mentre ciò avveniva, i troiani, tutti, erano preda del sonno che mai come in quella notte era riusciuto a fare incetta delle loro menti delle loro coscienze, sazi e stanchi com’erano di tanto lottare e di tanto dolore…………………………

CADE LA BRINA
Cade la brina sopra le fiamme di mille respiri
Si abbandona leggera come una parola sussurata nel silenzio
Si acquatta come un pozzo profondo  angusto, in angolo di    terra
Invade al pari di un cespuglio di rovi
Come un soffio di vento che fugge via, si annulla
Ribbelle  si muove tacito come uno strumento della notte
Al pari di  una melodia ammacata da uno spiraglio di solitudine, si abbatte sulle case
Come una passione cara all’infelicitá  elomosina  un abbraccio
Cade la brina sul dolore sul terrore di una notte.

Omero che nella sua Iliade aveva lasciato i troiani di fronte sl banchetto funebre in onore di Ettore, nell’Odissea, sviscerata, invece, le mille peripezie di uno dei maggiori antagonisti dei troiani, Ulisse o Odisseo.
Ulisse farà del suo ritorno, il più singolare di tutti i ritorni e sicuramente il più duraturo  fra essi, catalogandolo a ragione come l’archetipo del viaggio nonostante, mitologicamente questi, si discosti poco da altri viaggi o imprese mitologiche, una per tutte, la precedente spedizione argonauta, in quanto alla durata piuttosto singolare essa in realtà verrà aggravata da due lunghe soste, Circe, Calipso, ma sicuramente maggiormente singolare rimarra il costo di vite umane di tale imprese, che se pur assoggettato all’arroganza del loro capo e del suo stesso seguito, resterà comunque troppo alto e del tutto discordante con altre spedizioni, con tali ingredienti l’Odissea, costituirà l’opera per eccellenza sul tema del viaggio, visto come cammino interiore in direzione di una meta, che oltrepassa quella geografica e sconfina in quella in quella morale dei personaggi presi in questione, senza indugio una sfida al divino, il viaggio come superamento degli intralci esistenziali, a cui più che le imbarcazioni e i muscoli dei marinai viaggiatori,verrà posto a mo di corazza, l’intelletto e la tenacia umana, unico vero scudo versi forze così potenti e distanti dal nostro essere, in una sorte di tiro alla fune tra itinerario ed impedimenti, ingerenze, tra luce ed oscuritá, ma soprattutto tra uomo  e mare, perchè in fondo l’Odissea non sarà altro che un grande libro del mare, una sorta di diario di bordo che filmirá minuziosanente un viaggio maledetto di una ciurma di uomini alla ricerca della loro Moby Dik, una ricerca che purtroppo, andrà a buon fine, e come in Moby Dik, una ricerca che purtroppo, andrà a buon fine e come in Moby Dik, questo viaggio porterà a casa uno solo di loro; Uno per tutti: Ulisse……..

VIAGGIO
E viaggio, viaggio contanto le goccie d’aria che imbrattano le mie lacrime
Viaggio con la faccia rivolta al sole cercando la forza di aprire i miei occhi, mentre stringo i miei pugni
E viaggio mentre mi fermo per non tornare
Ma non è fermo quel maledetto cuore che ti cerca , che di te brama
Viaggio e son fermo da anni
Viaggio ed incedo come una foglia secca sbattuta di qua e di la dal vento
Ma in me scorre sangue vivo il vento non puo spezzare le mie menbra
La stanchezza mi avvolge
Il ricordo dei tuoi occhi mi liberano dal suo giogo

Il piano di Odisseo inizierà ad avanzare, così come avanzavano i suoi passi accompagnati da quelli di Eumeo verso il suo palazzo, è a questo punto che l’autore fa subentrare un personaggio in realtà per la sua natura  del tutto inaspettato, ma per la propria conformazione metaforica assolutamente esplicativo, in una traspisizione ideale del malgoverno sia dei suoi servitori, quanto del suo avo Laerte, nonchè del suo erede Telemaco, tutti egualmente incapaci di prendersi cura del suo regno, inetti a tal punto da non essere in grado di saper gestire con rettitudine e responsabilitá neppure il più insignificante ed al contempo più amorevole dei suoi sudditi, difatti lasciato ad Itaca cucciolo nutrito dallo stesso Ulisse ora egli lo ritroverà smagrito, morente, abbandonato, infestato da grosse zecche, vecchio e malato, disteso sopra un mucchio di letame, è in tal maniera che Omero ci consegna la figura del cane Argo, che dicevamo il più amorevole dei suoi sudditi, difatti questi quando  scorgerá il padrone rimasto così tanto tempo lontano da lui, egli non avrà problemi a riconoscerlo e con un ultimo slancio che le sue forze gli accordava, saluterá, accoglierá ed onorerà il proprio padrone, re ed amico.
Inaspettatamente il poeta attraverso tale figura dall’impatto morale devastante, anche se in modo molto sottile, esprimerà una presa di posizione e lo farà a suo modo imprimendo alle parole e alla scena elaborata, alla reazione del suo protagonista, un messaggio, un monito, adducendo ad un animale un atteggiamento  umano e  di conseguenza agli uomini che questo animale si erano presi cura un atteggiamento animalesco, pertanto il cane Argo se pur nella sua ripugnante condizione per quel gesto estremo assumerà tutti i lineamenti di una creatura pura, monda, impossibile da accostare a qualsiasi altro personaggio del’opera, una figura incapace di alcuna mistificazione sentimentale in una disarmante accusa che paia affermare che non ci siano più speranze per quell’ umanità corrotta, un’umanità nefanda e lercia ancor più del letame su cui pogiava Argo, un’umanitá chiaramente imbestialita dagli eccessi, dall’avidità, crudelizzata dai conflitti e soprattutto resa insensibile al dovere e ai sentimenti da una sorta di pigrizia morale.
Ma ciò non poteva essere. Uno dei compiti della poesia è di certo imporre la speranza, ingentilire gli animi, convertire gli asentimentali, per cui, l’autore si appellerà ad un altro interlocutore il quale avrà la funzione di mediare attraverso la  sua penna nella trama della propria opera, ed in questo caso si tratterà di un personaggio umano, una sorta di madonna al mo di Alighieri, tale figura sarà raporesentata da PENELOPE, la sposa fedele di Odisseo, in tal modo un po perchè la condizione e l’etá del povero Argo lo richiedeva e un po perché tale personaggio era divenuto troppo ingrombante, Argo concluderà subitamente la propria apparizione nell’opera e lo farà con una veloce dipartita, che avverrà di fronte gli occhi commossi del suo padrone. Nuovamente il poeta farà spiccare nel suo protagonista una sensibilità che di certo non veniva sbandierata dalle sue azione e che abbiamo già constatato in occasione del suo incontro con la madre Anticlea, difatti ancor prima che il cane Argo dopo dieci anni e dieci, come scrive il poeta, serrerà i suoi occhi nel sonno della morte.
Ulisse nel rivedere il suo cane in quelle condizioni e che lo aveva riconosciuto nonostante il tempo trascorso, si era sinceramrnte commosso ma aveva fatto di tutto per celare l’evento ad Eumeo che lo affiancava.
Così per degli occhi che loro malgrado si lasciano sfuggire delle lacrime, un altro paio di occhi stanchi della vita, trovavano finalmente ristoro e riposo nella morte.
Ma era questo, per cui Odisseo, aveva barattato l’immortalità offertagli da Circe? Era valso così poco l’immenso sforzo e il contributo di vite umane al fine di fare ritorno ad Itaca, Ulisse cominciava a pensare che era stato davvero un poco proficuo baratto.
Quando Odisseo oltrepasserá la soglia del suo palazzo,la scena che gli si presenterà ai suoi occhi,  imprimerà nel suo cuore un desiderio di rivalsa alimentato da una grande rabbia……………………..

I proci accoglieranno di buon grado la sfida proposta da Penelope, ma neppure uno di loro riuscirá a tendere l’arco di Odisseo, si farà dunque avanti il mendicante Ulisse, il quale chiederà di partecipare alla gara, Telemaco gli passerà l’arco, mentre Eumeo aiutato da un altro dei servi fedeli, a cui Odisseo si era rivelato,chiuderà le porte del palazzo. Ulisse naturalmente sarà in grado di tendere l’arco e di centrare i dodici fori delle asce. A questo punto il mendicante Odisseo si dirigerà verso la soglia del suo palazzo e gettando ai suoi piedi la faretra gravida di frecce scaglierà la prima di esse contro Antinoo, intento a bere da una coppa ricca e lavorata, che sorreggeva con entrambe le mani, Antinoo, era il più bello ed anche il più arrogante dei proci……………………

I proci vedendo cadere Antinoo, non rendendosi ancora conto di quanto in realtà stava per accadere, e credendo che quella morte era stata dovuta ad un tiro maldestro, incalzeranno il mendicante Ulisse, con una precisa minaccia, lui che aveva osato uccidere un uomo che era il migliore tra gli itacensi, ora sarebbe divenuto pasto per gli avvoltoi. Ma il medicante Ulisse, guardandoli con tutto il disprezzo che frenava nel cuore risponderà loro:
“CREDEVATE, O CANI CHE D’ILIO IO NON TORNASSI”…………………..

Quell’istante questi iniziava a reiterare ad Itaca, ripercorrendo ciò che in quella notte era accaduto nel regno di Priamo, difatti come a Troia in cui i nemici vennero massaccrati ad uno ad uno e le loro difese rese blande dall’inganno, anche nel palazzo di Odisseo ogni difesa era stata impedita ai proci, le armi appese alle pareti erano stati fatti scomparire, le porte del palazzo serrate e quelle mura che fino ad allora erano servite a riparare, ora frenavano la loro fuga e tutti i loro tentativi per schivare la morte.
Ancora come a Troia, anche qui il fuoco purificherà ogni cosa, ma in questo casa senza devastare nulla preservando il palazzo, difatti esso servirá per purificare la sala bruciando lo zolfo arso allo scopo.
Come ad Ilio, anche ad Itaca la violenza e crudeltà non ravviseranno limite alcuno,perché appena caduti i proci Ulisse intriso del loro sangue chiederà ad Euriclea il nome delle ancelle che si erano unite ad essi, egli, le farà impiccare per i piedi ad una trave posta di traverso nella grande sala “Come passeri ad una corda” e fra tutte loro spiccherà MELANTO una delle ancelli infedeli di Penelope la quale nonostante fosse stata allevata maternamente da Penelope si era unita ad Eurimaco uno dei proci, lei era sorella di Melanzio, di cui ad Itaca era il capraio questi per la sua infedeltá verrá ucciso, dopo di ché lo stesso Ulisse lo farà a pezzi e ne getterà le estreminatà ai cani, in tale frangente come non accomunare la fine di questo servo con quella di DEIFOBO, ultimo sposo di Elena, massacrato e fatto a pezzi da Menelao e da Ulisse. Nessuna pietà dunque,
come ad Ilio………………..
All’alba, dunque, Penelope che aveva continuato a dormire ignara ed inconsapevole di quanto stava accadendo, verrà svegliata da Euriclea la quale la metterà a corrente di quanto avvenuto. La sposa di Ulisse si precipiterá nella sala,ma esiterà a riconoscere il suo sposo, ella chiederà ad Euriclea di far portare nella sala il letto nuziale, Ulisse sorridendo,la incalzerà rammentandole che lui stesso aveva costruito la loro camera da letto intorno ad un albero di ulivo e che ne aveva spianato l’enorme ceppo ricavandone il loro talamo nuziale.
I dubbi abbandoneranno Penelope la quale piangendo abbraccerà il suo sposo………………….

Quel nome è il suo
Quel nome è un suono
Quel nome è un tuono
Il suo nome
Quel nome, è il suo
Ed io vivo del suo suono
Sulle mie labbra tra i miei pensieri
Quel nome è suo
Ed è tuono, che bussa al mio petto, che appaga una tempesta di parole poesie
Quel nome, il suo, è un macigno, grande come una piuma che culla nel cuore come una spilla appuntata nella mia anima

Ma per un uomo noto universalmente per aver perso in più occassioni la rotta, per un luogo che conosce così bene da poterli definire casa o patria, il sommo Virgilio a distanza di secoli,  contrappone un altro uomo, che condivide con l’eroe omeriano il medesimo smarrimento, contraddistinto anch’esso da un ritorno,  ma diversamente da come accade per Ulisse, il suo  ritorno si distingue perché deve avvenire per un luogo che non conosce, la terra dei suoi avi. Questo eroe dovrà fare ritorno in una patria che i suoi stessi avi non rammentavano più, rimossa dal loro presente ed abbandonata nell’oblio di un tempo che fu, di cui fino a quel momenti, non premeva più a nessuno, come una nozione di nessuna importanza.
Il personaggio diretto verso questa misteriosa terra non era un vincitore , ma un vinto, non era un re ma un principe no era un acheo, ma un troiano; Egli era ENEA, cognato di Paride, genero di Priamo e di Ecuba, sposo do Creusa, nonchè padre di Ascanio detto  IULIO