RICORDI DI PIOMBO
A quell’ora il traffico cittadino era in fase di lievitazione, come la luce del giorno.
Sul viale Garibaldi gli autobus e le macchine andavano senza troppa frenesia: c’era ancora tempo per arrivare a scuola o in ufficio; di lì passava parecchia gente che per raggiungere il posto di lavoro, o l’istituto scolastico, andava a piedi, privilegio di chi abita in centro.
Puntuale come sempre, alle 7 e 30 Sergio Gori era sceso dall’appartamento in affitto situato al quarto piano e mezzo del condominio Cavour, in viale Garibaldi 94.
Era un piccolo attico con una grande terrazza, cruccio di mia mamma che, al piano di sotto, era perennemente in lotta con le infiltrazioni d’acqua.
Se ne curava poco Lui delle cose di casa: consegnava le chiavi quando dovevano arrivare gli operai per qualche manutenzione e niente poteva distrarlo o sconvolgere i suoi impegni lavorativi, il suo tennis, gli affetti, l’amore, sì, quello per Mariella, la donna che gli aveva dato finalmente una patria, un luogo dove sentirsi a casa.
Sergio Gori era nato a Bengasi in Libia; era rimasto orfano della madre prestissimo ed era stato allevato dalla sorella maggiore. Per gli studi di chimica aveva scelto Bologna e lì si era laureato appena ventiquattrenne. Nel 1956, e per molti anni ancora, il titolo di dottore era una rarità, un valore oltre che un vanto, così il lavoro era arrivato subito, un buon impiego presso l’ACNA di Cesano Maderno, cittadina della Valle del Severo. Nella provincia milanese Sergio Gori getta solide basi d’esperienza per conquistare importanti risultati professionali. Nel 1962 è per qualche tempo a Novara, poi nello stesso anno al Petrolchimico di Brindisi; inizia una carriera brillante, prima vice, poi capo reparto all’acetilene. Dopo un quinquennio Gori si trasferisce a Ferrara, sede di un grosso impianto Montedison. Nel 1974 gli viene affidata la nascita del nuovo polo chimico della Sardegna, ad Ottana. E’ un parto veloce e poi, alla fine dello stesso anno, inizia il suo percorso al Petrolchimico di Porto Marghera, ciminiere e raffinerie con lo sfondo di Venezia.
Barbara, la figlia. ha 12 anni quando il suo papà si trasferisce a Mestre; era nata a Brindisi durante uno dei passaggi lavorativi del padre. Padre e figlia sono molto legati e Barbara trascorre molto tempo con lui a Mestre, tutte le vacanze estive, le feste, Pasqua e Natale. E poi c’è il loro gioco: il tennis. Con il trasferimento del papà a Mestre, per Barbara incominciano gli anni più belli con le passeggiate in viale Garibaldi, i tornei al tennis club, le vasche in Piazza Ferretto, i pomeriggi da Coin a provare i vestiti di moda con Mariella. Per lei, come per ogni ragazzina, sono gli anni più importanti, quelli dell’adolescenza, della voglia di libertà, dello scoprire la vita, del diventare grande. E finalmente sembra che sia felice, che stia bene in questa città un po’ caotica, cresciuta troppo in fretta e male. Ecco che dopo tanto girare Mestre è diventata per Sergio Gori il luogo dove mettere radici, dove aspettare il futuro.
La Montedison di Marghera era allora una delle fabbriche più importanti d’Italia e d’Europa con settemila dipendenti su cinquecento ettari di terreno poggiato sulla laguna; 100 miliardi di investimenti, 930 miliardi di fatturato annuo, in Lire naturalmente.
All’inizio Gori lavorava come dirigente del reparto clorurati, poi, dall’ottobre del 1975, come vice direttore di produzione. Le vicende del colosso di Porto Marghera non erano certo tutte nella direzione del fatturato. Come in molte altre fabbriche in quegli anni anche al Petrolchimico fervevano le agitazioni, gli scioperi erano routine.
Il 20 gennaio 1979 a Porto Marghera, si intensificano le contestazioni operaie contro la decisione della Montedison di rinviare il pagamento degli scatti di anzianità, che prevedevano l’aumento del ‘minimo tecnico’ per chi era addetto al funzionamento degli impianti a ciclo continuo.
In luglio si giunge all’accordo nazionale per i chimici che ottengono un aumento di 30.000 lire mensili e l’inquadramento su 8 livelli. La sinistra sindacale non è soddisfatta, e mentre l’accordo passa a maggioranza nelle assemblee dei lavoratori di quasi tutta Italia, viene respinto in alcune situazioni, fra le quali la Montedison di Porto Marghera. Ma si trattava di qualcosa di più di una trattativa economica: il 22 marzo del 1979 era stato tristemente segnato da una grave tragedia, una fuga di acido aveva ucciso tre operai, Bruno Bigo, Giorgio Rasia, Lucio Oreda, e ustionato altri nove. Era stato un errore umano, uno di quelli di cui non si vorrebbe mai dover parlare.
Il sindacato aveva denunciato ben altri 2000 incidenti nei sette anni precedenti e che, poco prima della esplosione, la Montedison era stata autorizzata ad aumentare lo stoccaggio di fosgene. Questo aveva portato la tensione alle stelle e spesso i vertici sindacali picchettavano l’accesso alla fabbrica per impedire l’ingresso agli operai e l’uscita dei dirigenti. Il nome della Montedison si era trasformato in “Mortedison” sulla bocca della gente. Succedeva che qualche notte anche Sergio Gori dovesse fermarsi dentro la fabbrica per evitare contrasti e magari anche spintoni.
Il suo era un ruolo tecnico e certo non dipendevano da lui le decisioni che gli operai contestavano né tanto meno la causa dell’incidente.
Era un uomo mite, sportivo, riservato ma socievole, benvoluto da tutti; un bell’uomo, alto e slanciato. Lo stress per quei mesi di lotte, di minacce, di picchettaggi avevano logorato la sua salute e la predisposizione all’ipertensione aveva fatto il resto. A settembre, in una calda giornata di fine estate, mentre partecipava ad un torneo di tennis, durante una partita Sergio Gori viene colpito da infarto.
Bondeno 28/9/79
Carissima Bambi,
ti mando subito un espresso per tranquillizzarti sulle mie condizioni di salute; non vorrei che le telefonate di Mariella e di Franco ti avessero preoccupata.
La settimana scorsa, sempre a causa della pressione alta, non mi sentivo troppo bene e quindi d’accordo con il medico di Mestre, mi son fatto ricoverare qui a Bondeno per tutta una serie di analisi che, speriamo, possano chiarire una volta per tutte la causa della mia ipertensione.
Per motivi di praticità e di regolamento interno mi hanno messo a letto dove dovrò rimanere ancora per qualche giorno e quindi nell’impossibilità di telefonarti.
Tutto qui. Mi raccomando quindi di non stare in pensiero; studia e sii serena e tranquilla. Ti voglio tanto bene e mi manchi.
Ci sentiamo presto.
Mariella ti telefonerà nel frattempo e se voi altre notizie telefona tu agli zii.
Un miliardo di bacioni dal tuo papi.
L’infarto fu confermato come pure la sua causa: tensione ed affaticamento psicofisico.
Dopo un breve periodo di degenza e di vacanza con Mariella in Liguria, Sergio Gori aveva voluto riprendere il suo posto di vice direttore tecnico del Petrolchimico.
Eppure tra i fogli di quella diagnosi c’era anche il suggerimento per la sua salute futura: mollare!
E poi erano arrivate minacce di morte anche a lui che non si era mai occupato di politica né aveva responsabilità di rilievo. Dopo l’infarto l’azienda, forse nel tentativo di sottrarlo al rischio e alla tensione, gli aveva ventilato la proposta di un trasferimento a Milano.
Ma le sue donne? No, non sarebbero state contente, anche perché non avevano la conoscenza esatta del pericolo. Certamente Barbara era preoccupata per papà e anche Mariella lo era, ma forse solo per quel brutto infarto di settembre, non pensavano che qualcuno potesse arrivare a tanto!
I vertici della Montedison lo avevano esortato a non seguire itinerari abituali per recarsi al lavoro, a dormire in luoghi diversi quasi ogni sera, a cambiare auto o farsi venire a prendere dall’autista ogni volta in posti e ad orari diversi.
Quel martedì mattina, poco prima di scendere per recarsi al lavoro, aveva telefonato a Barbara, ormai diciassettenne, che viveva con la madre a Brindisi. Non era stata lei a rispondere al telefono: era a letto leggermente influenzata e lui aveva lasciato perdere, non aveva voluto svegliarla.
Una telefonata alle sette di mattina come un ultimo saluto, un presagio di morte?
No! Telefonava spesso alla figlia per sapere come andava la scuola forse un po’ preoccupato che la sua bella ragazza trascurasse lo studio per quella grande passione che lui le aveva trasmesso: il tennis. Era troppo presa Barbara dai tornei di tennis, dalle coppe da vincere, dalla voglia di vivere, e lui amava viziarla un po’, farla sentire una principessa. Sin da piccola aveva avuto con il suo papà un rapporto speciale.
Pur essendo un uomo molto sportivo e dinamico Gori usava l’ascensore piuttosto che le scale; il suo riserbo, misto a un po’ di timidezza, non gli aveva fatto, in cinque anni, scambiare più che un buongiorno e buonasera con altri inquilini del palazzo. L’ascensore era il mezzo giusto per ridurre al minimo la possibilità di dover fare quattro chiacchiere con qualcuno.
Dopo aver chiuso la porta di casa e sceso la scala che lo divideva dal pianerottolo del quarto piano della palazzina dove sostava l’ascensore, aveva premuto il bottone di richiesta.
In quel momento mia mamma aveva aperto la porta d’ingresso per poggiare in bella vista, ovvero in mezzo al passaggio, il sacchetto con le immondizie in modo che il primo che fosse uscito di casa se lo sarebbe ritrovato tra i piedi e costretto a prenderlo per poi portarlo a destinazione, nel cassonetto.
Il nostro appartamento, esattamente sotto a quello dell’ingegner Gori, aveva il pianerottolo a vista tra il quarto e il terzo piano.
Sergio Gori, vedendo mia madre in vestaglia, l’aveva salutata di sfuggita entrando in fretta nell’ascensore e lei aveva ricambiato il saluto senza nemmeno sollevare lo sguardo.
Quella mattina del 29 gennaio 1980 era uscito, come probabilmente faceva sempre, dal portone d’ingresso principale che dà sul viale Garibaldi.
Come sempre aveva disatteso le raccomandazioni dell’azienda per quanto riguardava l’abitudinarietà, la ripetitività degli itinerari.
Sarebbe potuto uscire dalla porticina del sottoscala, quella che porta direttamente ai garage, come del resto facevano in molti per comodità.
In ogni caso avrebbe dovuto aprire il lucchetto della catenella che impediva agli estranei di parcheggiare nello spazio retrostante dove si trovavano garage e posti macchina ma avrebbe potuto vedere eventuali persone appostate sul retro.
La catenella tesa tra due pali era posta esattamente a metà strada sia che uno provenisse dal portone principale che dalla porta di dietro; non si trattava dunque di risparmiare tempo ma per Sergio Gori poteva fare la differenza.
Era stato troppo facile annotare i passaggi di una persona che tutti i giorni, alla stessa ora, esce dalla stessa porta, svolta a sinistra fino alla fine del palazzo e poi ancora a sinistra e che dopo pochi passi si china ad aprire un lucchetto per mollare una catena e passar fuori con la propria auto, una Fiat cinquecento bianca, non certo un’auto blindata.
Troppo facile appostarsi su una strada di forte passaggio, tra un’edicola di giornali e macchine in sosta sui marciapiedi.
Troppo facile colpire un uomo che non crede alla possibilità di essere ucciso, proprio lui, perché?
Troppo facile colpire un uomo che non fa niente per rendere il compito solo un po’ più difficile, che vuole vedere se veramente qualcuno possa arrivare a tanto.
Troppo facile colpire un uomo che magari ha in testa il pensiero del suo infarto, la figlia lontana, il problema del fosgene e che certo non si cura di loro, sarà quello che sarà, non ci saranno precauzioni in grado di fermare un destino scritto.
Per incredulità, sfida, rassegnazione o estrema voglia di libertà, una libertà che non si piega alla paura, Sergio Gori era divenuto il bersaglio ideale.
Dunque, chiuso dietro di sé il portone e direttosi verso il retro per aprire il lucchetto, Sergio Gori aveva sentito dietro di lui i passi di un uomo, elegantissimo in cappotto cammello con sciarpa e cappello. Si era girato.
Loro erano soliti chiedere, prima di sparare.
‘Il signor Gori?’
‘Ss..ii?’
Quattro scudisciate avevano frustato l’aria e poi, tra i rantoli di un uomo morente e le grida di una donna alla finestra, l’ultima, la quinta.