Non era sola

Ramona faceva la spogliarellista a Las Vegas, perciò non aveva proprio nessun imbarazzo a togliersi i vestiti davanti alla gente. Quella notte, però sola e nuda alla luce della luna piena, il cielo pieno di stelle nel deserto più deserto che c’era, si sentì un po’ imbarazzata dalla sua stessa  presenza, unica testimone della sua nudità viscerale, totale, quasi come se si fosse tolta perfino la pelle, tanto era nuda. Si sentiva strana, strana ma felice. E soprattutto libera, per la prima volta nella sua vita.

Una voce l’aveva chiamata nel cuore della notte. Era uno strano sussurro portato dal vento, che si strascinava inquieto su note musicali quasi dolorosamente percepite dall’orecchio angosciato della mente, dai sensi intorpiditi, risvegliati lentamente ad una variazione di frequenza sullo schermo del malato di apatia.

Dapprima aveva fatto finta di niente, anche perché si era messa comoda a guardare la TV (era la sua serata libera). Però quella voce era insistente come un rubinetto del gas lasciato aperto, come lo stillicidio del lavandino che poi ti inonda l’appartamento. E toccava le note più discordanti della sua esistenza: il divorzio dei genitori quando era ancora piccola, la difficile convivenza con una madre alcolizzata, lo stupro subito a quattordici anni, tutti i suoi maledetti errori, le sue storie d’amore finite male, l’alcool, la droga, le crisi depressive…

Ed ancora, ancora, come una mesta cantilena, la voce le penetrava dentro, e andava a smuovere le parti più dolci, più vere di lei…la sua prima cavalcata, il primo vestito, il primo appuntamento. I sogni, le illusioni, le speranze, le poche amicizie vere. Che cos’era mai quella scia di note musicali, che man mano che i minuti passavano, addolcivano il loro ondeggiare nell’anima e le portavano visioni di un sé sconosciuto, mai vissuto, ancora di là da venire? E la proiettavano verso verdi primavere vestite di campi infiniti, di cieli rosseggianti su lunghe spiagge deserte, di volti sorridenti e braccia accoglienti. Tangibili vibrazioni che risuonavano in lei come il cantico di amore dei secoli, come lo spumeggiare silenzioso delle onde del tempo, che tutto lavavano, tutto lenivano, tutto rinnovavano…

La voce la chiamava ad andare, a presenziare a un rito di cui lei era l’unica officiante e l’unico spettatore, ad un ultimo sacrificio da offrire ai numi sconosciuti della dimensione  parallela della sua esistenza; ad un’altra lei, a una figlia finalmente dell’Universo, all’accoglienza benevola di se stessa, a un’inondazione di pianto, a un’esplosione di gioia.

Andò, Ramona, con animo dolce e quieto: andò con la piena misura della sacerdotessa in lei, con la serena consacrazione ad un’eterna pienezza.

Non tornò più Ramona, perché il suo spirito si era sperso nella notte stellata di un deserto.


Il Mago

Il mago Oronzo stasera gongolava: un sacco di gente era presente in sala per assistere al suo spettacolo, in cui egli si riprometteva di far faville, di meravigliare a non finire, di surclassarsi, di apporre il suggello definitivo al termine “magia”. Dopo quella sera, lui non sarebbe più stato semplicemente “un” mago, ma “IL” Mago.

Ed ora, luccicante nella sua tenuta, tutto avvolto nel mantello nero di seta che gli dava un’aria di impenetrabilità e di signorile mistero, si chiuse alle spalle la porta del camerino con sussiego, e scese circospetto l’angusta scala che portava al palcoscenico.

A volte si sta troppo attenti, si usa troppa cautela, ed è quando si teme l’incidente che questo prende forma: mise un piede in fallo, e ruzzolò giù da quelle scale come un barilotto pieno di aringhe affumicate.

Il buio gli avvolse la mente.

Ma fu un attimo. Aiutato dagli inservienti del teatro, si rimise in piedi lesto, si calcò di nuovo in testa il cilindro che era schizzato via  e recuperò il bastone con il manico di avorio cesellato.

Quando fece il suo ingresso sul palco sbigottì: nessun applauso, nessun incoraggiamento, nessuna euforica claque. Il silenzio era glaciale. Cercò di scrutare il pubblico nella semioscurità, e si accorse, con un terrore indicibile, che tutti gli spettatori avevano la stessa faccia: quella di uno stesso uomo impassibile, privo di espressione, grigio, catalettico, cadaverico.

Ma, di nuovo, fu un attimo, poichè il rombo dell’ovazione proveniente dalla platea lo scosse da cima a fondo, restituendolo alla sicurezza di se stesso, al suo compiacersi e trovarsi tanto bravo, tanto bello. Ora sì che si ragionava: e il pubblico era di nuovo eterogeneo, come doveva essere: uomini, donne, bambini, e tutti con una faccia diversa, com’era giusto e naturale che fosse, e l’espressione entusiasta e piena di aspettativa.

Ma al mettere mano al primo trucco non si riconobbe più: si era dimenticato tutto. Un brusìo generalizzato dalla platea manifestò il disagio del pubblico  alla sua vistosa incertezza.

Ma, ancora una volta, fu un attimo, e lui si riprese dicendo:

“Come vedono lorsignori, ho esitato di proposito: non è perchè io non sappia più far di magia, ma semplicemente perchè voi siete più maghi di me. Sì: voi che ogni giorno vi alzate alle sette per andare al lavoro, e siete capaci di star seduti anche otto ore alla vostra scrivania, che fuori piova, tiri vento o faccia sole; e poi, tornando a casa, consumate la vostra cena in silenzio, davanti a una scatola colorata che vi dice di comprare questo e quello. Signori, io vi domando: chi più mago di voi, che riuscite a sopravvivere in queste penose condizioni? Perciò, gentili amici, questo non è un spettacolo del grande Mago Oronzo per il suo pubblico; chiamiamolo invece uno scambio di informazioni tra maghi e maghetti”.

E così dicendo tracciò grandi segni nell’aria: apparvero, al suo ordine, esseri di una luminosità accecante, che parevano uomini e donne; e tutti fra il pubblico si meravigliarono, poichè ciascuno si riconobbe in una delle figure apparse sul palco: solo la quantità di luce incorporata dai presenti era differente.

A un altro cenno dell’insuperabile Oronzo, apparvero, come in un filmato proiettato nell’aria, tante immagini di vita: belle e brutte, comuni e insolite, e anche a queste gli “Ahhh” e “Ohhh” del pubblico si fecero più intense: essi si riconoscevano in quelle azioni e in quelle scene, che avevano punteggiato la loro esistenza nel bene e nel male.

Esausto, il mago Oronzo si terse il sudore dalla fronte; sentiva che le forze lo lasciavano, ma voleva terminare in bellezza, come lui solo sapeva fare. Si concentrò, chiamò a raccolta tutte le sue energie, le sue vastissime capacità. Fu allora che vide: vide davanti a sè una scala intessuta di luce, che sembrava chiamarlo. Mosso da un’irresistibile forza, si avviò, prese i primi scalini, e scomparve in alto mentre al pubblico sembrava che camminasse sul nulla.

Applauso più fragoroso non fu mai sentito in uno spettacolo pubblico, da far venire giù il teatro.

E tutti, uomini, donne, bambini, avevano uno sguardo diverso sul volto mentre, in silenzio, sfilavano fuori dal teatro per ritornare alle proprie case, sapendo in cuor loro che da domani  iniziava una nuova vita: come, non sapevano, ma erano fiduciosi.

Nel frattempo, dietro le quinte del teatro, gli inservienti invano tentavano di rianimare il mago Oronzo dopo la sua caduta dalle scale appena uscito dal camerino: aveva battuto la testa, e non dava segni di vita. Un medico chiamato d’urgenza non poté che constatarne il decesso per la frattura dell’osso cervicale.