FAVOLA STORPIA

Sono la voce fuori campo in uno spettacolo teatrale: racconto la vita degli altri poiché la mia è soltanto una favola storpia.
Sono la Cenerentola che non arriva al ballo. Sono la bella addormentata che nessuno sveglia. Sono la Biancaneve che non sopravvive al morso letale dato alla mela. Sono il Pinocchio col naso lungo, nonostante abbia smesso di dire bugie. Sono la Sirenetta che si strappa le squame, ad una ad una, perché non sopporta più la sua coda. Sono il brutto anatroccolo che non si tramuta in cigno. Sono la storia in cui non esiste il lieto fine. Sono la storia in cui vissero tutti felici e contenti, meno che me. Sono il frutto della fantasia di uno scrittore frustrato e pigro. Sono il frutto della fantasia di uno scrittore che lascerà per sempre la mia storia troppi capitoli indietro, rispetto a quella degli altri. Sono il parto di una penna senza inchiostro. Non sono altro che una trama spezzata. Sono proprio come un oceano senz’ acqua: il niente. Un niente come la mia stessa storia: uno specchio in cui non riuscirò a vedere nulla, a parte il mio riflesso. Anche se provassi a distruggerlo, non ne otterrei vantaggio: moltiplicherei, soltanto, la mia immagine in piccolissimi frammenti di me. Forse, dovrei cavarmi gli occhi. In questo modo, mi priverei del vuoto di vedermi, perennemente, lì, riflessa e sola. Da cieca, riuscirei a costruirmi un vuoto che, però, potrei considerare non reale. Da cieca, potrei illudermi che qualcuno si sia seduto al mio fianco, senza che io me ne accorgessi. Da cieca, potrei immaginare come voglio quel qualcuno: una bellissima ragazza muta o, semplicemente, stanca di parlare. Una bellissima ragazza muta che trae la sua forza nel guardarmi. Una bellissima ragazza muta che, non potendo avvisarmi della sua presenza, non mi sfiorerà, pur di non spaventarmi. Una bellissima ragazza muta che, di conseguenza, non percepirò, ma che sentirò vicina. Una bellissima ragazza muta e inesistente, in cui crederò, ciecamente. Una bellissima ragazza muta, dolcissima, ma spietata. Una bellissima ragazza muta che morirà per ultima, che morirà soltanto dopo che l’ avrò fatto io da disperata, da disperata per aver vissuto di lei. Lei. La speranza.


UNA CINICA RESA DEI CONTI

La luce è fioca. Un alone bianco, alle mie spalle, si protrae verso avanti, offrendomi uno stralcio luminoso, in grado di dar visibilità a coloro che mi stanno innanzi. Io, al contrario, resto nel buio, condannata ad osservare senza nessuno che mi osservi, nello smanioso tentativo di evadere, una volta per tutte, da questa svilente condizione.
Non basta indossare capi molto colorati. Il buio intorno è più forte della mia stravaganza cromatica.
Non basta che io pronunci delle frasi. Difficilmente si crede ad un qualcosa che non si vede; e, di fronte a me, non vi è, certo, un pubblico facile, in tal senso.
Non basta ergermi sui coturni per elevare la mia immagine e la mia visibilità; e non basta, dunque, tale trabocchetto che ovviare ai miei limiti.
Più voglio migliorare la mia esteriorità e più il mio volto si deturpa in un profondo scavo di bruttezza.
Più tento di far crescere la mia figura e più essa degrada, perdendo di vigore, sostanza e dimensione.
Più voglio circondarmi di un’ aurea lucente e più il buio continua ad attanagliarmi, inesorabilmente.
Tutto ciò mi indispettisce, destandomi un pensiero: – Non potrò essere uguale a loro, ma loro potranno, magari, assorbire la mia essenza!

La luce è, ancora, fioca, ma lucente quanto basta per illuminare i privilegiati e inabissare me, crudelmente. L’ alone bianco è, ancora, alle mie spalle, con la sua meschinità, celata, quanto evidente. Io, allora, decisa, gli corro incontro e ne ricerco la fonte, in modo tale da riempirla ed annullarla, in modo tale da generare un’ oscurità che non è più individuale, come è stato fino ad oggi, ma universale.
Non basta dire e fare ciò per estinguere il fuoco della mia rabbia. Essa persiste, desiderosa d’ essere profanata.
Non basta dire e fare ciò per accendere la miccia del mio riscatto. La mina finirebbe per irrompere, col suo scoppio, in un contesto che è implosione.
Non basta dire e fare ciò, se non si tassa il contrappasso che ne deriva; e non basta, quindi, campionare l’ oscurità come mia dimora, se non la si presenta, inoltre, come luogo totalmente e paurosamente sconosciuto agli ex privilegiati.
Più vorranno scappare e più sbatteranno di continuo, compromettendo, irrimediabilmente, la loro bellezza.
Più persevereranno in tale impresa e più inciamperanno, perdendo, persino, l’ imponenza della loro altezza.
Più urleranno il mio nome e più l’ eco della loro voce gli ritornerà indietro, dieci volte tanto, con aggiunta la consapevolezza di avermi ritenuta utile, troppo tardi nel tempo.
Tutto ciò mi compiace, destandomi un ghigno: – Non ho mai potuto emettere il mio primo respiro vitale, ma so che loro, ormai, hanno emesso l’ ultimo!

(…Ergo, fa lo stesso!)


DANZA LA PENNA

Danza la penna, nel teatro degli “Errori”.
Danza la penna, in sul calar del sipario.
Danza la penna, impregnata di puro sangue ed inchiostro.
Danza la penna: brava ed obbediente marionetta.
Danza la penna, sorretta dai fili del suo burattinaio.
Danza la penna, tra onde di vertiginose elucubrazioni.
Danza la penna, con un tocco e poi un sussulto.
Danza la penna, regalando una traccia di sé alle assi di legno.
Danza la penna, tediando il soffitto.
Danza la penna, in uno spreco di parole migliori.
Danza la penna, in un mesto tripudio di inutili campane.
Danza la penna, nell’ ovazione incessantemente di una platea vuota.