Un uomo dal passato

Quartuccio era nato in un piccolo paese dell’entroterra, negli anni in cui ogni italiano prima di tutto era un patriota. Suo padre era un povero calzolaio, che non era sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale. Con il suo sacrificio, però, aveva ottenuto l’immortalità, poiché il suo nome e quello di altri due commilitoni, qualche anno dopo, era stato scolpito su una nuova lapide deposta ai piedi del monumento dei caduti in Piazza Belvedere, al centro del paese. La madre era lavandaia. Il piccolo orfano, la nonna e le numerose sorelle, arrangiandosi con ogni espediente, contribuivano al fabbisogno giornaliero della famiglia ed all’assistenza di una vicina affetta da demenza senile.
Ogni mattina, per molti anni, Quartuccio risaliva con un vecchio ronzino per circa tre chilometri sul crinale della collina, dove incontrava Abelardo lo storpio, che grazie alla sua menomazione aveva scampato la chiamata alle armi per entrambe le guerre. Quell’uomo, incaricato di distribuire la posta e i pacchi indirizzati ai compaesani del ragazzo, preferiva risparmiare alle sue malandate ginocchia l’ultimo tratto di strada e così – in cambio di un pezzo di formaggio e una gallina ogni quindici giorni – consegnava in mani sicure il suo carico e tornava indietro con mezza giornata d’anticipo. Il giovane non rientrava mai in tempo per il pranzo, poiché lungo il tragitto si fermava a raccogliere lumache, verdure selvatiche o bacche commestibili utili per la cena, tuttavia trovava sempre qualcosa in tavola e, tutto sommato, in paese la fame non l’aveva mai patita nessuno.
Nel periodo in cui aveva militato nell’ambito della Gioventù Italiana del Littorio, aveva ricevuto l’istruzione di base e la formazione dogmatica del regime, poi la guerra, il caos, la resistenza dei partigiani e, infine, l’euforia della nuova era, sbarcata insieme agli Americani. L’unica cosa che non era mai cambiata erano gli scarponi di cuoio pesante ai suoi piedi, quelli da adulto che suo padre aveva confezionato per lui prima di partire per il fronte e che gli aveva regalato pieno di orgoglio, quand’era ancora un ragazzino. I primi anni gli calzavano enormi, ma li aveva riempiti per benino con un po’ d’imbottitura e via via ogni compleanno, mentre il ricordo di suo padre sbiadiva inesorabilmente, ne eliminava un po’.
Un giorno, come al solito, dopo aver caricato la soma del suo compagno di lavoro con le masserizie da consegnare, canticchiava allegramente “Faccetta nera”. Mentre percorreva il sentiero verso valle, ad un tratto, l’animale, esausto e malandato, perse il controllo delle zampe posteriori e scartò lateralmente. Quartuccio gli camminava al fianco e fu colpito violentemente dal peso della bestia, che gli rovinò addosso. Fu un attimo, ma istintivamente, per evitare di rimanere schiacciato, balzò verso il bordo del sentiero dove insisteva il dirupo. Perse l’equilibrio e precipitò verso il basso per una decina di metri, finché il suo corpo incontrò una sorta di piattaforma rocciosa dove terminò la discesa, privo di sensi.
I soccorsi sopraggiunsero solo verso sera, dopo molte ore dall’incidente. Il carabiniere che lo avvistò per primo credette di averne ritrovato il cadavere ma, dopo il recupero, la sorpresa: era ancora vivo! Con una vecchia ambulanza militare, che il Sindaco orgogliosamente si vantava di aver ottenuto grazie alla sua personale amicizia con un ex-generale dell’esercito, fu trasferito in ospedale, nonostante un paio di forature delle gomme e una falla al carburatore. La madre e le sorelle lo raggiunsero a piedi il giorno dopo.
Dopo un cauto ottimismo iniziale, dovuto al fatto che aveva superato le prime ventiquattro ore, i medici compresero che lo stato di salute di Quartuccio era tutt’altro che rassicurante. Le ossa rotte sarebbero guarite, ma il ragazzo era in coma e quando, dopo qualche settimana, non si registrava alcun miglioramento fu chiaro che la situazione era pressoché irreversibile.
Trascorsero così molti mesi e molti anni. Nel frattempo era stato trasferito in una specie di struttura – a dire dei medici – “specializzata”, ma che in effetti sembrava una sorta di obitorio per morti viventi. Quartuccio non reagiva ed era sempre immobile. La madre andava a trovarlo regolarmente ogni giovedì e affrontava due giorni di cammino a piedi, uno per andare e l’altro per tornare, all’inizio in compagnia di qualche sorella, ma poi quelle ad una ad una si maritarono tutte e avevano le loro famiglie a cui pensare. Solo lei non mancò mai, nemmeno un giovedì, finché visse. Lo lavava, gli cambiava le lenzuola, gli parlava della famiglia e gli teneva la mano. Non lo baciava quasi mai, però, forse perché non lo riteneva necessario, neanche quand’era piccolo. Una volta gli raccontò di averlo sognato la notte prima: lui era ancora un bambino e le chiedeva perché gli avessero dato questo nome ‘Quartuccio’. La risposta avrebbe dovuto essere ovvia: “Era il nome di tuo nonno”, ma nel sogno non fu quella. Gli rispondeva, invece, che il suo nome era questo perché il destino voleva da lui un quarto di secolo della sua vita, solo un ‘quartuccio’ e poi basta.
Quella fu anche l’ultima visita di sua madre, il giovedì successivo lei non c’era più e l’uomo che si era addormentato ragazzo, proprio quel giorno – venticinque anni dopo – si risvegliava miracolosamente dal coma.
All’inizio non fu facile, i medici pensavano che avesse riportato danni cerebrali tali da impedire un completo recupero, ma Quartuccio – seppure molto confuso – dimostrò loro il contrario. Era pazzesco: come se quell’uomo avesse voluto prendersi una pausa dalla vita ed ora si presentava ristorato e pronto a ricominciare. La sorella maggiore fu la prima ad essere avvertita, ma era impegnata per la sepoltura della madre e giunse da lui solo due giorni dopo. Il fratello fece una strana smorfia quando la vide entrare nella stanza, stentava a riconoscerla con tutte quelle rughe e i capelli color argento. Sorrise quando seppe che lei aveva sposato il carabiniere che lo aveva tratto in salvo ed ora era recentemente divenuta nonna. Qualche settimana ancora di degenza e poi le condizioni psico-fisiche di Quartuccio consentirono ai sanitari di procedere alle dimissioni. C’era solo un problema: cercava invano disperatamente gli scarponi di cuoio di suo padre e questo fu parecchio destabilizzante. Accusò di furto ogni medico ed infermiere che incontrava, inveendo contro di loro e gridando che suo padre glielo aveva detto di far attenzione ai “crucchi”. Fu l’unica occasione in cui si rese necessario somministrargli dei sedativi.
Quando fu fuori, però, capì subito che il mondo non era più lo stesso.
Era come se tutti fossero diventati ricchi: c’erano tante automobili, tanto rumore, palazzoni alti e moderni, negozi con grandi insegne luminose accese anche di giorno e senza alcun motivo. Notò che le persone si abbigliavano molto elegantemente, anche quando non era domenica o giorno di festa e che le donne indossavano gonne troppo corte e calze di nylon, quelle del tipo che appena si fa un buco si buttano via e non si portano dalla magliaia per il rammendo. A casa di sua sorella rimase incantato da una radio nella quale si vedevano pure le immagini, da una macchina che, pigiando un bottone, faceva il lavoro che sua madre aveva fatto per tutta la vita e da un armadio traboccante di cibo che resta sempre fresco. E mentre osservava tutte queste meraviglie uno squillo improvviso lo fece trasalire: era il telefono e gli dissero di rispondere. Sollevò il ricevitore e udì la voce di Germana, la sorella che gli era più cara e che viveva a 600 chilometri di distanza. Si commosse. Infine, udì la voce stridula di una bimbetta che si chiamava come sua madre e non riuscì a proseguire.
Nei giorni seguenti, il nipote Ernesto, che aveva appena conseguito il diploma di ragioneria, prese a cuore la missione di aggiornare lo zio sui progressi dell’ultimo quarto di secolo: lo sbarco sulla luna, l’emancipazione femminile, il fenomeno dei Beatles, la guerra fredda USA-URSS, etc. Ma più cresceva la sua informazione più l’uomo s’incupiva e il giovane, per quanti sforzi facesse, si sentiva inadeguato e credeva di aver fallito l’obiettivo.
Poi arrivò un’altra telefonata. Era un giornalista molto determinato ad intervistare ad ogni costo “l’uomo che veniva dal passato”, come se volesse scongelare e riportare in vita il mammut ritrovato fra i ghiacci della Siberia per farsi raccontare in presa diretta “com’eravamo”.
Quartuccio non volle incontrarlo, ma quello non mollava e quando se lo ritrovò davanti sotto casa, gli disse: “Risponderò alla sue domande, solo se lei mi saprà spiegare perché gli uomini di questo tempo non sorridono più”.


Natura a colori: tra passato e presente

Nel profumo muschiato delle alte margherite, verdi, gialle e bianche, si nasconde a tratti un vivace bambino di nove anni, che grida di gioia e corre beato in mezzo agli steli.
Un’altra bambina, trent’anni prima, provava le medesime sensazioni e si chiedeva, se nel verde dell’assolata campagna, fosse possibile cacciare l’urlo più forte che fosse mai uscito dal suo petto, con tutto il fiato che aveva in gola. In città, infatti, non l’avrebbe mai fatto. Lo domandò al padre, ma quello non sapeva cosa rispondere.
Un’antica torre saracena, coi merli sul tetto, veglia ancora sulle verdi distese di grano, che presto cominceranno a imbiondirsi e poi sarà il tempo del raccolto. Ma la mietitura non è più quella descritta nei libri di scuola, con la falce e i covoni, oggi è il rumore assordante di un enorme macchinario con un solo piccolo uomo, seduto in cima, al comando di tante piccole leve.
Quella bambina, una volta, nella calura pomeridiana di fine giugno, aveva scorto l’uscio socchiuso di un vecchio granaio e – nonostante gli avvertimenti degli adulti – la sua curiosità aveva preso il sopravvento. Era entrata e, davanti a sé, s’era trovata una montagna di piccoli chicchi di frumento dorato. Estasiata, vi si era tuffata e aveva cominciato a roteare braccia e gambe, come se nuotasse. Aveva granelli fra i capelli, biondi anche quelli, fra le mani e perfino nella biancheria, ma era felice.
Il monello in bicicletta corre verso la linea dell’orizzonte, laddove l’azzurro del mare si tinge del rosa di un tramonto, primizia d’estate. Lo guarda, dall’alto della terrazza, una donna col cuore da bambina, che rivive con dolce apprensione le rovinose cadute di un tempo, allorquando, distratta da una farfalla che si posa su un fiore, perse il controllo del manubrio e ruzzolò dal pendio. Ritornò a casa con le ginocchia sbucciate e sanguinanti e trovò le cure e il conforto materno. Sorride ripensando a quei giorni e sfiora con le dita le cicatrici.
All’ombra di una quercia secolare, siedono la madre e il figlio. Consumano una semplice merenda dal sapore antico: il gusto dell’appetito che cresce all’aria aperta. Poi riprendono il cammino, mano nella mano. Lei riconosce ciascun albero e lo chiama per nome, con quel nome antico del tempo dei giochi. Nell’intreccio dei tronchi e dei rami, ancora uguali ma così diversi, saltava e si arrampicava e vi restava talvolta per ore a spiare nel silenzio il frinire delle cicale. Per trent’anni aveva atteso chi fosse degno di custodire quei segreti d’infanzia, ora il bambino, muto e solenne, ascolta i suoi racconti e in tal modo comprende il senso della vita, della natura e del colore.
Ad un tratto, il boato di un fulmine in lontananza interrompe i loro pensieri. I cani cominciano ad abbaiare e un cavallo nitrisce, i due smettono di avere la stessa età: il bambino ha paura e torna ad essere figlio.
La madre adora i temporali estivi perché, ora come allora, rendono il verde ancora più verde e profumano l’aria di terra bagnata. Il sibilo del vento fa paura, scompiglia e spazza via ciò che è secco. Al riparo, lei stringe a sé il suo piccolo e gli dice: “Passata la burrasca, ci metteremo gli stivali e faremo come le lumache. Vedrai com’è diventata bella la campagna!”.


AI MIEI FIGLI

Intreccio fili d’oro sul tuo capo, e tu
languidamente stesa sul mio grembo
simile a me, come nube a nembo,
mordi i verdi anni e burli la virtù.
Cavalcando l’onda di sogni ribelli,
sei imbrigliata dalle redini della pietà,
ed io trattengo la tua fame di libertà
con salde dita fra i nodi dei capelli.
Dal basso sento una palla che rimbalza,
lo strepito sovrasta l’antico pianto,
so che lo sport è il tuo esperanto,
ma ad ogni male il cuor sobbalza.
Nella trepida attesa di un abbraccio
ti accarezzo una mano nel sonno,
poi la stringo e penso a tuo nonno,
vorrei fermare il tempo col legaccio!
E tu, dolcissima e inattesa, figlia mia
la tua bellezza è sempre una sorpresa.
Nelle battaglie non ti sei mai arresa,
travolgi il nemico con la tua allegria!
Imprevedibile è l’ombra del tuo “no”,
che presto poi diventa un “sì” e cattura,
come un artista, la vita nella pittura.

E per sempre stupefatta vi amerò.