METAMORFOSI

Tu, lei.
Lo stesso sguardo, sorriso, carattere.
Se n’è andata,
ha lasciato te,
la parte buona di sé,
i ricordi del suo passato,
le cene davanti al fuoco,
i sogni per il futuro,
un tono di voce che tutto fa apparire sostenibile,
normale, consueto.
Increduli ed inermi,
ci ha lasciati soli,
privi della sua presenza.
E’ cambiata,
mutando in ciò in cui non credeva.
Non guarda, vede,
non ascolta, sente,
non agisce, non desidera, non spera,
percorre una strada senza meta
come un grigio automa
cercando una pace
che non esiste
che non può nascere dalla rinuncia ai sogni,
essenza delle nostre mete.


IVAN

Dipingi,
sulla tela bianca priva di senso,
crei nuove verità,
costruisci mondi inesistenti,
realtà invisibili all’occhio,
immagini di sogni.
Racconti speranze,
percorsi mai pensati,
mete mai raggiunte,
brezza marina mentre il caldo toglie il fiato,
raggi di sole quando il freddo gela le giornate,
cuore se la vita appare insipida,
caldi abbracci in un mondo che sembra deserto.
Semplici macchie di colore
raccontano avventure mai vissute,
interpretazioni di storie nascoste
che non vediamo per timore,
per paura di scegliere strade diverse dalla consuetudine.


PACO

Non ho un nome. Sono nessuno. Sto viaggiando verso non so dove nel retro di un camion con altri cinquantotto esseri anonimi come me. Ho sete ed ho la sensazione di non riuscire a respirare. Quando sono stato caricato mi hanno diviso con forza da mia madre che stava dandomi da mangiare, lei ha cercato di ribellarsi ma è stata stordita con una bastonata e così non ho avuto scampo. Chissà come starà ora, se si sarà ripresa o se piano piano starà camminando verso la morte. Questo pensiero mi accompagna di continuo e mi fa venir voglia di piangere. Dev’essere notte. Fino a qualche ora fa da alcune fessure entrava qualche spiraglio di luce, ora invece è tutto buio ed io ho paura. Anche i miei compagni di viaggio sono spaventati, alcuni si lamentano, altri cercano di dormire per trovare un po’ di pace. Probabilmente ci siamo fermati, non percepisco più la vibrazione che si avverte quando siamo in viaggio ed ho sentito sbattere qualcosa, forse le portiere e voci parlare in modo diverso dal solito. Che succede? Un rumore mai sentito e molto vicino mi spaventa. Improvvisamente un’ondata d’aria entra e ci stordisce. Hanno aperto le porte dietro del camion, ora possiamo respirare. Mi accorgo che al termine c’è una griglia che non ci permette di scendere. Lì ci posizionano delle ciotole d’acqua e di mangime. Tutti desideriamo bere ma non riusciamo a mangiare quella roba, ha un gusto strano, l’odore sembra buono ma io vorrei il latte della mia mamma, quello era davvero buono o forse era così piacevole sentire il suo calore che mi rendeva sicuro e tutto sembrava bello. La pausa dura poco, ci tolgono le ciotole, chiudono le porte e dopo un attimo una vibrazione forte ci sorprende. L’ho già sentito quel rumore: siamo ripartiti. Accanto a me un piccoletto marrone si sente male. E’ sdraiato su un fianco e fatica a respirare. Gli abbiamo lasciato un po’ più di spazio ed un paio di noi lo stanno leccando per dargli un po’ di refrigerio. Non ha neanche la forza a di piangere, sta lì, immobile, guaisce di tanto in tanto con un filo di voce.
Sono passate alcune ore, ci hanno divisi in gruppi e caricati su furgoncini stretti e bui. Siamo giunti in un posto che non saprei definire, assomiglia ad un rifugio per oche o galline. Per terra c’è sporco, si scivola e c’è una gran puzza. Provo a dormire ma il pavimento viscido mi dà fastidio ed avverto una sensazione di prurito su tutto il corpo, le orecchie e gli occhi mi bruciano, continuo a rigirarmi, poi finalmente prendo sonno e l’immagine della mia mamma mi raggiunge in sogno.
Il tempo in questo posto scorre lento, nessuno di noi ha voglia di giocare, siamo stanchi, affamati ed assetati. Ci hanno lasciato soltanto dell’acqua torbida intorno alla quale danzano centinaia di insetti e del mangime simile a quello che ci avevano dato la notte sul camion. Decidiamo assieme di provare ad assaggiarlo ma è duro ed ha un sapore intenso, troppo intenso. Ne mangiamo un po’, giusto per attutire il buco che avvertiamo nello stomaco, poi ci sdraiamo sul pavimento viscido e cerchiamo di dormire.
E’ passato qualche giorno. Una donna assieme ai nostri carcerieri è arrivata al nostro rifugio, indica tre di noi, tra i quali ci sono anch’io, discute in modo acceso, poi dà qualcosa agli uomini che in malo modo ci caricano in una gabbia nel retro della sua auto.
La donna sale, mette in moto ma ha una guida nervosa che ci fa venire la nausea.
Non abbiamo potuto nemmeno salutare i nostri compagni di cella. Ci guardiamo senza dire nulla perché non c’è nulla da dire, ogni attimo tentiamo di capire dove ci porterà il nostro destino ed ogni attimo è una nuova sorpresa che non riusciamo a decifrare.
La macchina si è fermata, veniamo scaricati, portati in una stanza e rinchiusi in gabbia poi la luce si spegne, non si sente alcun rumore, siamo soli. Per tre giorni la vita scorre tranquilla, siamo insieme, ci danno da bere e da mangiare del cibo più morbido di quello sul camion, non è buonissimo ma è commestibile. Il problema più grande è che fatichiamo a muoverci, la gabbia è stretta e siamo in tre.
Il quarto giorno c’è una novità. Ci preparano, nel cortile davanti alla porta, un recinto molto più grande della gabbia e ci mettono là dentro dopo averci lavati. Il bagno non è stato piacevole, ci hanno scossi e bagnati con l’acqua gelida, poi asciugati di fretta e messi nel nostro nuovo posto. E’ strano: ci mettono acqua fresca e pulita, mangime e dei giochi. Forse qualcosa sta cambiando, forse la nostra vita migliorerà ma siamo comunque sospettosi perché il modo di trattarci è tutt’altro che affettuoso.
A metà mattina, assieme alla signora che ci ha selezionati, si avvicinano al recinto una donna molto dolce con due bambini: un maschio e una femmina più piccina.
La signora sorride, accarezza me e i miei compagni , poi incoraggia i ragazzi a prendermi in braccio.
La bimba sembra avere paura mentre il ragazzino mi coccola e mi fa giocare, ora sono tutti concentrati su di me, non osservano più i miei compagni. Poco dopo li raggiunge un uomo. Solitamente cerco di intuire l’animo delle persone dallo sguardo ma lui ha gli occhiali scuri quindi rimango inerme ed attendo di vedere cosa succede. Il bimbo mi mostra all’uomo con sguardo supplichevole, l’uomo mi solleva e mi scruta con attenzione. Capisco che le decisioni dipendono da lui, che c’è in ballo qualcosa anche se non comprendo bene di cosa si tratti. A quel punto interviene la donna che ci aveva condotti in questo posto ed asserisce che ho delle caratteristiche “pure”. Che significa? Gli fa notare i miei occhi a mandorla obliqui, la coda folta e gli riferisce qualcosa sulla forma delle mie orecchie e sul colore del mio palato, ma non riesco a capire bene. I quattro nuovi personaggi si guardano e sorridono, parlano un po’ a bassa voce, entrano nella stanza adiacente al cortile, si confrontano con la signora, si fanno consegnare delle cose e le porgono qualcos’altro ma non riesco a vedere né a capire cosa sta accadendo. Il ragazzino mi si avvicina, mi prende in braccio e mi porta via con lui. I miei compagni guaiscono ed io abbaio per salutarli perché, in questo istante preciso, comprendo che non li rivedrò mai più, proprio come è accaduto con gli altri amici che avevo con cui sono stato trasportato sul camion. Sono su un’auto. Per la prima volta il viaggio non è in gabbia ma accoccolato a qualcuno: sono sulle ginocchia del ragazzino che tutti chiamano Luca. Accanto a lui la bimba, Sara, timidamente prova ad accarezzarmi. Le lecco la manina per farle capire che non ha nulla da temere e finalmente la vedo ridere divertita. Queste persone sono diverse dalle altre che ho incontrato fino ad ora, parlano in modo dolce tra loro e nell’ambiente c’è un senso di tranquillità. Penso che forse davvero qualcosa sta cambiando ma da un lato sono triste per i miei compagni, per la mia mamma ed ho la sensazione che ogni volta che mi affezionerò a qualcuno verrò a breve ferito col distacco. Guaisco. Subito mi coccolano e si preoccupano per me, cosa strana ed insolita. Arriviamo ad una casa gialla con davanti un bel giardino, l’auto si ferma, scendiamo ed entriamo. Tutti sono presi dalla mia presenza: mi preparano una cuccia, dell’acqua ed una ciotola con del cibo, mi mostrano dei giochi e nel frattempo tra di loro discutono garbatamente ma non capisco l’argomento poi Luca mi si avvicina, sorride ed esclama a tutta voce “Paco”. Subito non capisco ma da quel momento tutti si rivolgeranno a me così … dev’essere il mio nome… Paco… ora sono qualcuno. Mi sorprende il loro modo di considerarmi parte del loro branco. Sono il loro cucciolo, mi aiutano in ogni cosa, mi fanno compagnia, si preoccupano se non mangio o se dormo più del solito e se escono tutti mi portano con loro, non mi lasciano solo. La signora è particolarmente gentile e, quando si trova con le amiche, mi mostra loro quasi fossi un trofeo cercando la mia approvazione e facendo delle vocine ridicole.
Sono passati due anni. Due anni di giochi, di serenità, di compagnia, “di bella vita” direbbe qualcuno. La sera mi accomodo sul tappeto mentre tutti guardano la tv e ricevo tante coccole, a volte mi prendono in giro ed esclamano “vita da cani”, non so bene cosa significhi ma dev’essere qualcosa di divertente perché tutti ridono e mi fanno il solletico. Non mi prendono più in braccio, mi coccolano lasciandomi a terra . Posso dire di essere felice. Il camion, le gabbie, la sete, le orecchie e gli occhi che bruciano sono solo lontani e brutti ricordi. Mi capita ancora la notte, quando non riesco a dormire, o al mattino quando mi sveglio prima di tutti, di pensare alla mia mamma ed agli altri con cui ho fatto quell’orribile viaggio, chissà come vivono, chissà se sono stati fortunati come me.
Ora sono in un’altra casa, è successo anche l’anno scorso, ci siamo spostati in un posto diverso. Durante il giorno stiamo tutti assieme davanti ad un’enorme massa d’acqua che chiamano mare. Il mattino e il pomeriggio facciamo il bagno tutti assieme e ci divertiamo moltissimo. Già l’anno scorso ho imparato a nuotare e Sara si diverte a tirarmi i giochi in acqua ed attende che io glieli riporti. E’ martedì mattina. Siamo qui da due giorni. Anche qui c’è il giardino ed il mattino mi lasciano uscire mentre loro rimangono ancora un po’ a riposare. Il cancelletto è aperto. Davanti passa una bellissima cagnolona bianca con il pelo lungo, mi guarda, scodinzola e guaisce. Si nasconde dietro un albero, non riesco più a vederla, esco per sorprenderla e lei improvvisamente si mette a correre. La inseguo mentre lei gioca a farsi rincorrere, fermandosi di tanto in tanto quasi per farsi raggiungere. Ho sete. Sono ore ormai che corro facendomi trascinare in questo gioco. Mi guardo attorno e mi rendo conto che non so dove sono. Nello stesso momento, nel giardino dal quale sono partito il mio nome riecheggia in continuazione, tutti mi chiamano. Sara piange e Luca guarda suo padre con lo sguardo triste alla ricerca di un po’ di rassicurazione. Mi sento perso, non so cosa fare, provo una strana sensazione, mi sento stupido ed ingrato nei confronti di chi mi ha accolto ed amato.
Sono stato nessuno, poi, d’un tratto ero qualcuno con un nome, una famiglia, una casa, una storia.
Ora sono di nuovo nessuno, sono solo, senza più una storia, senza una strada avanti a me da percorrere o un sentiero per tornare e ritrovare ciò che avevo conquistato.