Le altre passeggiate

E’ mattino presto.
Berlino si è svegliata ricoperta da un silenzioso e soffice velo bianco, è difficile riconoscere strade da marciapiedi, alberi e piante appesantiti dalla leggerezza della neve sui loro rami e sulle loro foglie.
Silenzio.
Il silenzio è la presenza con la maggior emanazione di decibel.
E’ accomodante, è rilassante.
Le macchine sembrano aver spento i motori ma camminano lo stesso, scivolano con eleganza e leggerezza sul morbido tappeto bianco che vive e brilla di una luce propria.
Poi il suono dei passi che affonda nella neve rompe il silenzio ma è un rumore piacevolissimo da ascoltare, rimanda il pensiero a cammini, storie e vite in evoluzione, è il suono del movimento della vita.
Senti il suono allontanarsi e puoi solo immaginare dove andrà a finire.
La giornata scivola via dolcemente, l’aria pura e la meravigliosa luce della neve rende tutto piacevole, come una giornata passata in una culla a dondolare, avvolti da una coperta bianca e soffice.
Ormai è notte.
Continua a nevicare.
Il tappeto splende ancora di bianco, verrebbe quasi voglia di restare a casa e non calpestare quel soffice e debole manto di morbidezza e serenità ma le orme nere dei passi sull’immensa distesa bianca hanno un fascino irresistibile.
Lui ha voglia di seguirle e vedere dove portano.
Poi un’altra scia, altre orme e un altro cammino, viene voglia di vivere passeggiate altrui.
E’notte.
Continua a nevicare.
Questa notte senza luna è meravigliosamente illuminata, il boschetto vicino casa dove in genere di notte non si riesce vedere a distanza di 100 metri oggi è illuminato come fosse giorno, la neve gli regala una luce incredibile ed è possibile vedere da un ingresso all’altro del parco.
Si distinguono bene tante passeggiate che si incontrano, si dividono e poi si incontrano con altre passeggiate.
Si siede sulla panchina e aspetta, forse qualcuno vedrà le sue orme e avrà voglia di vivere la sua passeggiata.
Oggi, in una notte al buio, senza luna, ci pensa la neve ad illuminare, ad illuminare e a far incontrare.


La Luna nuova

Questa è la storia di un giovane uomo, della sua paura e della sua redenzione e della sua palla a forma di castello d’aria.
Ma incominciamo dall’inizio, o forse no.
È inverno pieno, il mare è una forma di dimensione infinita, il giorno interseca lo spazio.
La bisettrice è il cielo, rosso.
Forse oggi nevica, acqua morbida nell’acqua scura e rossa.
Forse oggi la luna cambia e diventa il tempo per seminare.
I bambini del paese hanno inventato giochi nuovi perché l’inverno è lungo e l’elettricità non c’è, non c’è luce di notte, le radio non suonano musica, le radio non ci sono.
I bambini cantano, suonano e ballano e con la legna che non serve per accendere il fuoco fanno lunghi treni e giocano a inventare di salire e scendere in posti lontani.
C’è il canto dell’emigrante, c’è il canto del ritorno, c’è la ballata della ballerina cieca che si mette in mare in cerca di un palco con i fari blu.
C’è il respiro dell’illusione e la campana del sogno.
I camini fumano e nel tendone rosso e blu Abramo piange.
La candela illumina i costumi di piuma e pezzi di vetro.
Lo spettacolo è finito da un’ora o poco più, vecchi e bambini lo hanno applaudito, lui ha ringraziato col rossetto rosso e le labbra zingare grosse e lucenti.
I vecchi e i bambini sono tornati a casa alla zuppa di cardo calda.
Abramo, invece, ha mangiato applausi.
Sul comodino ha un libro di poesie. La mamma gliene leggeva una a settimana, per non esagerare, per non abituarlo alla bellezza.
Vorrebbe leggerne una adesso, vorrebbe saper leggere, vorrebbe che le mani della madre potessero ancora, ruvide di terra e corda, sfiorargli la fronte.
Vorrebbe che la corda non si fosse spezzata.
Poi però arriva il sonno e salva gli angeli e la mattina la neve ha coperto ogni cosa.

È mattina e Abramo indossa il suo costume di piume, sono piume pesanti che non gli hanno mai permesso di volare.
Sul mare, coperto di neve, un vagone di legno va verso un posto lontano, una voce dolce viene dall’acqua, Abramo la sente e la vorrebbe seguire.
Ha paura e cammina lento e c’è il mare sotto la neve, cammina e cadono le piume e il pezzo di legno è più vicino.
Cammina e si sente più leggero, va veloce adesso e le piume cadendo più spesso si posano sulla neve più vicine.
La voce si muove sul vagone nel mare, si gira e danza sulla coperta di neve.
Sul treno di legno c’è una ballerina cieca, ha riconosciuto Abramo dal suono della sua paura.
Lo chiama da lontano e gli dice di raggiungerla e sorride nel sentire le piume posarsi morbide sulla neve.

“Vieni con me ti insegnerò a leggere”
“ Non posso, non so nuotare” risponde Abramo
“Nemmeno io, ma so volare”

Con un soffio la ballerina fa cadere l’ultima piuma dal cuore di Abramo che sale nudo sul legno, leggero e senza paura, le labbra rosse e gli occhi guardano ancora la terra, il tendone rosso e blu e i camini che non smettono mai di fumare, e da lontano sente i bambini cantare.
Le piume rimaste sulla neve, prima distanti poi più vicine, sembrano orme di un passero che ha imparato a volare, ha imparato a spogliarsi e tenere solo le ali, finiscono le orme e poi c’è il cielo.
Le piume sembrano disegnare una musica, sono note, separate da pause lunghe, poi sono vicine e aumenta l’intensità ritmica e poi, il volo, il cielo.
C’è una panchina nel posto lontano, è vecchia e stanca e piena di terra, è al centro di un grande palco, situato nella sala più bella di un grande castello d’aria, è illuminata da un faro blu ed è legata al pezzo di legno da una corda.
Il vagone di legno non avrebbe mai potuto naufragare, era diretto lì.
Sulla panchina c’è un libro vuoto, tutte le pagine sono bianche, Abramo si siede e lo sfoglia e da dietro la ballerina recita poesie e danza.
Abramo, seduto sulla panchina, sorride e respira.
La luna in paese è cambiata e i vecchi hanno iniziato a seminare, nella neve.
Le campane sognano e suonano, la zuppa di cardo sarà pronta anche oggi, e i bambini cantano e giocano con una grande palla a forma di castello d’aria che rotolando fa danzare e recitare la ballerina e gira le pagine del quaderno di Abramo, regalandogli una nuova poesia.
Anche il bambino Abramo gioca con la palla, anche lui mangerà zuppa di cardo oggi ed è felice perchè la mamma, come ogni sera, gli leggerà una poesia.


TINA E IL CAVALLINO

Lo accarezzava come se non fosse solo un giocattolo di legno, lo guardava con gli occhi sgranati di gioia quando gli parlava o lo ascoltava, e sorrideva quando lo vedeva correre, quando volava.
Tina da piccola aveva un cavallino di legno, stava sempre con lui, se lo portava ovunque, giocava con lui e gli raccontava cosa imparava a scuola. Facevano lunghissime chiacchierate. Lo teneva tra le mani come se avesse paura che volasse via, perché quel cavallino era capace di volare, ma sapeva che non sarebbe successo altrimenti l’avrebbe già fatto, pensava.
La nonna divertita dalla passione quasi ossessiva di Tina, le ripeteva spesso:
“Tina, fai respirare il cavallino, o finirai per romperlo!” Tina era diventata grande, era diventata mamma e il cavallino era diventato amico anche di sua figlia Sara.
Tina continuava a raccontarsi al cavallino, ci giocava ancora qualche volta e lo faceva volare, ma i suoi occhi non lo sentivano più parlare e non capiva perché. Una sera Tina non si sentiva bene, era nervosa e si confidò con il suo cavallino, ma lui non rispondeva, lei lo chiamava e lui non rispondeva, lo faceva volare ma non lo vedeva sorridere, così lo strinse tra le mani, stringeva e stringeva cercando di sentire la sua voce per il dolore.
Si sentì soltanto il rumore del legno che si spezzò e la zampa del cavallino si staccò dal corpo.
Non passò più di un secondo e dal maglione di lana che indossava Tina si distese nell’aria il profumo della sua nonna, morta qualche anno prima, e gli consegnò quelle parole che aveva dimenticato.
Piangeva Tina mentre chiedeva scusa al cavallino, la cui colpa era quella di essere rimasto vicino a lei, di non essere mai cambiato. Piangeva mentre cercava di rimettergli la zampa con la colla e si rese conto che il cavallino era sempre lì, non se n’era mai andato, era lei ad essere cresciuta. Il cavallino tornò ad avere tutte le sue zampe ma il segno era evidente e Tina pensava di averlo perso, anche se era ancora lì, era diverso e non per colpa del cavallino.
Piangeva Tina quando arrivò Sara:
“Mamma, a me il cavallino l’ha detto come può tornare come prima. Devi portarlo a mare, gli fai fare una bella corsa, lo fai volare tanto, poi lo fai tuffare in acqua e tornerà come prima! L’ha detto a me, è vero mamma!!! ha detto pure che non ti devi dispiacere se non lo senti parlare, anzi dovresti saperlo perché parla con me adesso e non con te.
Boh io questo non l’ho capito… perché se parla dovresti sentirlo anche tu, vero?
Non è che sei diventata sorda mamma?” Tina portò il cavallino in spiaggia, lo fece correre fino a stancarsi e poi lo aiutò ad alleggerirsi in volo. Volava il cavallino e Tina e Sara lo vedevano sorridere, poi presero la piccola barca a remi e andarono a largo, si allontanarono dalla terra per cercare un posto fatto di sola acqua dove poter far tuffare e nuotare il cavallino.
Tina e Sara continuavano a remare quando il cavallino si tuffò in mare, da solo, e dopo qualche attimo saltò fuori dall’acqua senza più alcun segno sulla zampa e atterrò sulle mani di Tina che riprese ad accarezzarlo, come se non fosse solo un giocattolo di legno.