se mi penserai …

… non ricordarmi per le mie poche luci
o le brevi vittorie che m’ha concesso la vita.
Non rivedermi complice d’una scia di neve
o alla ricerca d’una traiettoria di velocità,
ma pensami nelle mie tante cadute,
per questo esser stato piccolo e insicuro,
così facile nell’inciampare su me stesso
per rotolare poi in nessun posto.
Ricordami per la mia fragilità,
quel ritrovarmi sempre incantato
dai fuggevoli occhi del mistero,
quell’essere capitano solo della mia vita
che certo affonderà senza rumore.
Non ho verità o certezze da lasciare
perché non le ho sapute incontrare;
ho solo questa curiosità di sapere
che mai m’ha abbandonato
e questo non volermi arrendere
anche se ho perso tutte le scommesse.
Non ricordarmi per le mie inutili parole,
questi beffardi giullari della verità,
ma solo per quel mio sguardo smarrito
o per l’andare buffo e ciondolante.
Non chiederò sterili abbuoni
all’annoiato angelo del congedo;
canterò la mia voce nell’ultimo silenzio
girando piano la pagina, per non far rumore.


Per mio figlio

I larici e le betulle,
dipinti dalle brezze del Nord,
hanno movenze di nostalgie d’estate
mentre mi stai insegnando,
una volta ancora,
che la notte è solo una bugia.

Agitando petali di ricordi,
mi circondo di silenzio
e, mentre accendo per te
una candela nel mio cuore,
baratto un sogno con altri sogni
in un pianeta dove qualcuno, per noi,
possa bruciare il vascello delle lacrime.

Poi, mi ritrovo a viaggiare
alla ricerca del mio quando e dove,
consultando, solo per abitudine,
la sballata bussola dei perchè;
m’accompagna il tam-tam dei pensieri,
di questi così poco affidabili ospiti
confusi ora non nel presente,
ma sul treno del continuo divenire.

Alzo lo sguardo,
sopra me, un’incerta fiaccola di stelle
si arrischia in fondo al cielo.


Tusen takk

Forse c’è più Dio a Nord.
Nei fiordi, di notte,
il mare smette la sua superbia
per tirar su le reti delle memorie
e il sole di mezzanotte, radente come un volo,
sveste il tempo e lo mette ad asciugare
sulle corde del silenzio.
Casette sparse,
come note solitarie d’uno spartito vuoto,
inseguono cascate simili a lacrime di gioia,
attente nel protestare la vita
sulle severe gote dei monti.
I villaggi hanno colori che parlano,
strade infinite aperte verso il cielo
e confini di pietre dure
come un mare d’inverno.
Qui, ogni cosa possiede il bianco;
l’aria che respiri, il riflesso specchiato dei laghi,
lo sguardo schivo degli uomini.
E risuonano leggende di gnomi e reami,
per spazi aperti e altre rotte
alla ricerca di nuove terre
o di un Eden perduto.
Tu sei un granello d’acqua,
una goccia di neve sulla banchisa
che disegna l’infinito;
il viaggiatore d’ un paese
in cui i desideri sono incostanti ricordi
incisi nel vento di Capo Nord.


autostrada d’America

Un cap sbiadito e i Ray-ban colorati.
Una strada, una macchina e attorno
la meraviglia della paziente natura;
una distesa di pietrisco e cespugli,
a comporre la sinfonia del nulla.
Tengo il finestrino aperto;
intorno l’unica cosa viva è l’aria.
Non so dove sto andando,
ma conosco il significato
di questo muovermi,
di questo volermi lasciare alle spalle
un mondo che non m’appartiene.
Ho scaricato tutti i ricordi
per risparmiare merci molto deperibili,
benzina e tempo;
questa lunga strada diritta
mangia se stessa solo per noia.
Andare per andare
è sempre stata cosa mia,
forse il modo di travestire una fuga.
Ho pronunciato tanti nomi di donna
per poter dire amore,
ho venduto la mia vita per giocattoli inutili,
ho fatto le cazzate che in fondo fan tutti.
Ma qualcosa è successo,
qualcosa che non riesco a ricordare
e che invece ripropone ogni cosa
in una luce diversa e definitiva.
Rivedo vagamente un bagliore,
uno schianto, ed ora è solo andare
andare verso quelle montagne lontane
dove forse, alla fine, saprò chi sono.


mammamia

Le porte girevoli della notte
spalancano l’ingresso all’ospedale.
Mamma piange.
Mamma perduta nel deserto
di un anonimo letto grigio.
Le ore rincorrono
un’oscurità senza fine.
L’aria di palude dell’ospedale
invade l’intero universo.
Il dolore distribuisce
biglietti gratis
a un tavolino d’angolo.
Passa un camice bianco.
Passa silenziosa l’aiutante di morfina.
Ho un bicchiere di lacrime
che verso di nascosto nel lavandino.
Guardo fuori dalla finestra;
c’è solo un cielo che non serve a niente.
Le scale sono ogni giorno più in salita.
Ti guardo e non trovo corridoi
per tentare una possibile fuga.
Litigo con un medico stanco.
Arriva mezzogiorno.
Mio padre a casa
suona il Chiaro di Luna.
Mezzogiorno e quaranta
e … la tua morte, piena di silenzi.


ERA ESTATE

C’era profumo di terra smossa nell’aria.
I trattori nella campagna additavano la notte con le luci bianche ed il brontolìo delle loro pance di metallo.
Salivo lungo la strada che al paese chiamavano “nuova”, quando, da lontano, vidi cadere un uomo; mi ritrovai a correre e improvvisamente tutto sembrò uguale a un sempre già accaduto. Pesava e faticai molto a tirarlo su.
Era ubriaco, al solito.
Mentre tentavo di caricarmelo sulle spalle, venne fuori dal buio Gianni, quel ragazzo più grande di me, dalla voce strana.
“Ti aiuto”.
Lo portammo poco distante in una casa dove una donna dagli occhi grandi e tristi lo mise a letto senza parlare.
Poi si volse e ci fissò a lungo. Mi mise una mano sul capo.
Uscimmo.
Gianni mi strinse il braccio con forza e andò via, senza guardarmi.
Alzai gli occhi: le stelle erano là, fredde e distanti, come sempre.
Mi misi a fischiare con rabbia.
Quando giunsi dov’era caduto mio padre, non piangevo più.