Irene e il trasloco

Pioveva, quel giorno. E’ il 20 marzo, pensava Irene guardando fuori dalla

finestra, è normale. Non faceva particolarmente freddo, ma il cuore, quello sì, se

lo sentiva gelido.

Non avvertiva niente dentro, ora, dopo che tante volte si era chiesta come

sarebbe stato quel momento. E cercava di ripercorrere dentro di sé le

innumerevoli sensazioni che aveva costruito per riempire il suo stato d’animo di

quel giorno a lungo atteso e temuto. Ma i ricordi le affollavano la mente e non si

fermavano. Nessuno di loro era come si sentiva invece lei in quel momento:

semplicemente vuota.

Cercava affannosamente nella sua esperienza, nei suoi sentiti dire

un’espressione adatta per la situazione, per poter rivestirsi di un sentimento, di

un modo di essere calzante, ma non estraeva nulla dal cilindro. E rimaneva lì a

guardare fuori dai vetri le gocce che, leggere, picchiettavano sulla liscia superficie

trasparente.

E’ ancora presto, pensò ad una tratto, potrei farmi un caffé, mentre aspetto.

L’appuntamento è per le 8 e quindi ho ancora più di mezz’ora. Ma rimase ferma

ancora alcuni minuti nel tentativo di riepilogare tutto quanto rimaneva ancora

da fare, prima dell’arrivo della ditta di traslochi: gli scatoloni sono tutti quanti

preparati e le valigie anche. I mobili, beh, i mobili li porteranno via loro e se

qualcuno va smontato lo faranno gli operai della ditta; io non saprei da che parte

iniziare. Quelli che ho potuto spostare da sola li ho già messi tutti da una parte

e gli altri, beh, erano troppo pesanti. E poi che li pago a fare se faccio tutto io?

Così, mollemente, passò in cucina e ritirò fuori la caffettiera da 4 tazze ed il

caffé che aveva già riposto accuratamente in una scatola, con le altre cose da

colazione: zucchero, tè, biscotti, cornetti confezionati, marmellata e così via.

Accese il gas (non aveva ancora chiuso il rubinetto centrale, perché poi? si

chiese), mise la caffettiera sul fuoco e si preparò, sedendosi, ad ascoltare il

rumore familiare dell’acqua in ebollizione.

Aveva passato la notte praticamente in bianco, ma non si sentiva stanca,

piuttosto vuota e non sapeva perché. Ancora una volta ripassò i suoi stati

d’animo delle ultime settimane: la sorpresa, la rabbia, l’amarezza, la delusione,

all’atto della scoperta della novità che le aveva sconvolto la vita e poi il sollievo,

quando ricominciò a rialzare il capo dopo la mazzata improvvisa ed imprevista

che suo marito le aveva inflitto. Tutto questo era lì, ancora vivo dietro l’angolo,

assieme alla condanna velata da parte dei suoi genitori (avresti potuto

perdonarlo, si è trattato di una scappatella!), tramutatasi presto in una

condizione generale, forte al punto da finire per immedesimarcisi e crederci. E poi

l’orgoglio, l’unico sentimento che le aveva impedito di tornare indietro ed

effettivamente di perdonare il tradimento di suo marito, di rimuoverlo,

comprenderlo, nasconderlo, magari semplicemente ignorarlo, e comunque

ricominciare con l’uomo che, lo sapeva, amava e che, sapeva anche questo, la

amava.

Ma non lo aveva fatto e non ne era pentita, o per lo meno non era quello

comunque quello che si sentiva dentro in quella mattina di fine inverno, umida,

triste, come tutte la mattine di marzo quando piove.

Il caffé stava iniziando la sua ascesa nel piccolo comignolo e prorompeva a

sbuffi inondando il vano grande ed accogliente (era lei che lo aveva voluto così:

amava stare in cucina e si riteneva una buona cuoca) di un aroma piacevole ed

inebriante.

Con il caffé saliva però anche il suo senso di vuoto, e si chiese a che cosa

fosse dovuto. In fondo, pensava, con il marito si era chiarita; avevano stabilito

nettamente i termini dell’accordo e non c’erano state, dopo i primi tentativi,

abortiti immediatamente, da parte di lui di rimettere in piedi la situazione,

indecisioni. La cosa aveva preso il piede veloce fin da subito; l’avvocato si era

mosso bene ed in fretta e lui si era allontanato dalla sua vita fin da subito; aveva

trovato una collocazione nuova; se ne era andato, in una parola, dalla sua vita. E

Irene, per sei mesi, era rimasta padrona unica della loro casa in affitto. Quindi

cosa c’era ancora?

Naturale che dopo un po’ lei si fosse accorta che non ce la faceva a

mantenere economicamente un appartamento così grande ed altrettanto naturale

che ne avesse cercato un altro. E lo aveva trovato senza difficoltà: in una città è

tanta la gente che viene e che va e prima o poi qualcosa si trova.

L’appartamento nuovo non era lontano ed era persino carino, i suoi padroni

di casa sembravano essere due persone gentili, già anziani ma ancora energici e

avevano immediatamente simpatizzato al punto che lei aveva addirittura

ottenuto una diminuzione del canone di affitto; lei ci piace, signorina (posso

chiamarla signorina, vero? certamente, aveva risposto), e preferiamo fare uno

sconto a lei che ci dà delle garanzie piuttosto che chiedere una cifra più alta a

qualcun altro ma che poi potrebbe rivelarsi molto più problematico; sa, siamo già

vecchi!

Insomma, tutto sembrava ottimale.

E quindi?

Arrivò la ditta e i suoi pensieri finirono accodati alle cose pratiche e per

l’intera mattinata gli operai lentamente ma progressivamente e con estrema

perizia smontarono, trasportarono, stiparono, mobili e masserizie varie a bordo

dell’autocarro.

Verso le 13 Irene andò al bar dell’angolo a mangiare un boccone veloce,

mentre anche i trasportatori facevano la loro pausa per il pranzo.

Poi, nuovamente, l’operazione inversa nel nuovo appartamento, più piccolo

(ma ci starà tutto?). Erano le 18 quando Irene congedava gli operai e suo padre,

che le aveva dato una mano, ripromettendogli che sarebbe stato da lui e dalla

mamma per cena, visto che non si era ancora potuta organizzare bene nella

nuova casa.

Si guardò attorno. Un raggio di sole penetrava attraverso la finestra del

piccolo balcone: la pioggia era cessata da una mezz’ora. Finite le fatiche del

trasloco aveva immaginato di sentirsi sfinita. Eppure ancora una volta non era

questo il suo stato d’animo, ma di nuovo emergeva quel senso di vuoto che non

sapeva spiegarsi.

Fece una doccia. Poi, prima di uscire per andare dai suoi per la cena, visto

che era ancora presto, decise di passare dai proprietari del suo vecchio

appartamento per lasciare le chiavi, che ancora aveva con sé.

Abitavano nell’alloggio dirimpetto al suo e fu quasi naturale che la coppia

chiedesse di entrare nell’appartamento con lei: si tratta del passaggio di

consegne, le dissero, senza alcuna ombra di diffidenza, ma solamente per una

naturale esigenza di chiarezza.

Entrarono insieme e di colpo Irene sentì violentemente rimbalzare dentro di

sé il senso di vuoto che provava dalla mattina. Forte come non mai.

La signora se ne accorse e le chiese: si sente male? Irene, colta alla

sprovvista, rispose di no: mi gira solo un po’ la testa. La capisco, disse la signora:

anche a me fece così la prima volta che vidi la mia casa vuota.

Irene la guardò come l’avesse vista per la prima volta in vita sua. Non era

certa di avere capito. Ma non volle approfondire: cosa c’era da aggiungere?

Velocemente finirono il giro della casa, si salutarono, consegnò le chiavi e se ne

andò.

Mentre andava a piedi dai suoi (casa loro, come il nuovo appartamento, si

trovava a poche centinaia di metri da dove aveva abitato fino alla mattina),

ripensava alle parole della signora. Cosa aveva voluto dire? Non capiva. Poi si

fermò, quasi casualmente, di fronte alla vetrina di un’agenzia di viaggi che a

grandi lettere sinuose e colorate esortava a lasciarsi alle spalle il passato

casalingo per lanciarsi in una splendida crociera di due settimana (dimenticate la

vostra casa per 13 giorni! Scegliete Vacantour!) e d’improvviso capì.

Fu un’epifania improvvisa, una rivelazione. Aveva in sei mesi provato,

analizzato, elaborato e metabolizzato l’intero campionario di sentimenti verso suo

marito e la loro vita coniugale, ma la casa, i muri, gli spazi, le porte e le finestre,

quelle no, erano cose inanimate e come tali non ne aveva affrontato la

separazione. Aveva odiato e poi amato, e poi ancora odiato il suo uomo; lo aveva

atteso, sperato, distrutto e ricostruito mille volte, lui, la loro vita coniugale, i loro

8 anni insieme, 4 di fidanzamento e 4 di matrimonio, il loro desiderio di avere dei

figli non andato a buon fine, le loro passioni reciproche, i loro desideri e le loro

aspirazioni. Aveva smembrato il carattere di lui per poterlo dimenticare senza

rimorsi né rimpianti e lo stesso aveva fatto con se stessa, per le stesse ragioni.

Questo era stato il suo intenso lavoro di quei sei mesi.

Ma non aveva mai pensato all’alloggio. E non tanto a quello che aveva

rappresentato e rappresentava per loro due insieme (lì abbiamo fatto l’amore la

prima volta, là abbiamo preparato l’albero di Natale, e ti ricordi quando abbiamo

invitato tutti gli amici ed abbiamo dovuto montare plance e panche per farli

sedere tutti?), quanto per ciò che era per lei. Il nido. Il rifugio. Lo spazio suo

proprio, dove per 4 anni aveva vissuto con suo marito e sei mesi da sola.

Ma paradossalmente erano proprio quei sei mesi a lasciarle quel vuoto. Quei

180 giorni non elaborati; i ricordi della sua vita coniugale, e il suo tentativo,

riuscito peraltro, di accettarli per quello che erano stati e superarli, avevano

soppiantato completamente quelli solo suoi. Privati, personali. Aveva chiuso la

questione con una considerazione di tipo economico: costa troppo, non me la posso

permettere, la lascio. Aveva considerato casa sua come una componente estranea

di se stessa e, come tale, l’aveva eclissata dal suo cuore.

Ma aveva calcolato male le sue reazioni; non era stata in grado di capire che

quella casa per lei aveva rappresentato per sei mesi i muri ed i confini del proprio

io, il proprio rifugio segreto, l’asilo in cui nascondersi al sicuro al di fuori dei

pericoli esterni e al silenzio dal frastuono della vita altrui.

Non aveva pensato mai a questo e il lutto verso la casa, mai preso in

considerazione, era salito piano, come il caffé nel comignolo della caffettiera ed

era scoppiato, di fronte alle pareti bianche, spoglie, nude di quell’appartamento,

davanti agli aloni lasciati dai quadri e dai mobili, alle tracce di polvere rimasti

negli angoli sotto gli armadi, dove nessuna scopa né aspirapolvere passerà mai.

E pianse, Irene. Pianse in quel momento non più per il tradimento del

marito, né per l’inutilità dei loro progetti e delle loro speranze; non per la

delusione dei suoi genitori o per le conseguenze sociali ed economiche della sua

scelta di separazione; non per se stessa, per la sua solitudine o per la necessità di

ricominciare da capo dopo anni di vita impostata in un certo modo.

Ma pianse per gli infissi, per gli interruttori, per i tubi dell’impianto

idraulico; per la caldaia e per il bidet; pianse per la porta blindata di ingresso, per

il vetro-camera delle finestre esterne, per quell’arco che mette in comunicazione

la cucina con il salotto.

Pianse per i muri imbiancati, per i soffitti e per i pavimenti in legno ed in

piastrelle in cotto.

Pianse perché non si era congedata da quella casa come avrebbe dovuto;

come si fa con un parente vicino che si da per scontato e che muore

improvvisamente di infarto e a cui non si è saputo dire ciò che si sarebbe voluto o

dovuto.

Semplicemente perché non aveva pensato di dirle: ciao e grazie.


Via Marcantonio Colonna

La ragazza aspetta l’autobus.

Anche l’uomo con i baffi aspetta l’autobus.

Molte altre persone aspettano l’autobus.

Alla fermata sostano molti mezzi: il 70, il 913, il 280, il 30 express. La gente

arriva, sale, scende; è un continuo via vai, un porto di strada.

Ma c’è sempre un bus che non arriva mai. La ragazza lo pensa, lo sa. Ed è il suo.

La gente sale, scende. Ma lei no. Il suo 913 non arriva. E lei rimane lì.

Anche l’uomo con i baffi rimane lì. I suoi occhi si muovono da sinistra a destra,

osservano i bus che arrivano e che ripartono. E quando ripartono i suoi occhi

indugiano sulla ragazza alla sua destra.

Lei lo sa, lo vede, lo sente. Anche i suoi occhi vanno da sinistra a destra, ma non

si fermano, sono nervosi. A volte incontrano quelli di lui. E subito si scostano. Alla

ragazza non piace l’ uomo. Non le piace il suo sguardo, insistente, ricorrente.

Un maniaco, pensa. Forse dovrei andarmene. Va bene che è giorno pieno e c’è un

sacco di gente. Di sera avrei paura.

E comunque è a disagio. Di tanto in tanto, con la coda dell’occhio lo guarda.

Mentre arriva un mezzo e l’uomo si volta a sinistra, lo guarda. Di sfuggita, per non

farsi scorgere, non vorrebbe mai lanciargli un’inconsapevole esca, invitarlo a…

Piccolo, esile, capelli ben pettinati. Giacca e cravatta, gilet, pantaloni ben stirati.

Scarpe lucide, occhialini da ragioniere. Sudato, anzi sudaticcio. Avrà sessant’anni, o

cinquantacinque, un vecchio, comunque, con un po’ di pancia. Insignificante, viscido.

Ma è lo sguardo che la spaventa. Gli occhi che si muovono subdoli. E la guardano.

Arriva il 913, sale.

Sale pure lui.

Ovviamente il bus è pieno. La ragazza, allarmata, ansimante, si intrufola tra la

gente che non sa. Anziani stanchi, studenti che ascoltano musica, casalinghe cariche di

borse della spesa, badanti extracomunitarie che parlano tra loro fittamente in lingue

sconosciute.

Lui le è dietro. Non immediatamente dietro, ma sente il suo sguardo sulla

schiena, sulle gambe, sulla nuca, sulle natiche. Si tira giù sulla schiena con fare

indifferente la maglietta scollata nel vano tentativo di coprire e nascondere la pelle

nuda sui lombi, sulla pancia non proprio piatta. Fa caldo, è estate. Che può fare?

E poi perché? Tutti i giovani, tutte le ragazze si vestono così. Che male c’è?

Lo sente dietro di sé. Lo sente anche davanti a sé, le sembra che i suoi occhi la

circondino, la avvolgano da ogni parte, la soffochino. Li sente posarsi umidi sul collo,

sul petto ed infilarsi progressivamente tra i giovani seni, correre di fianco alle gocce di

sudore da caldo e da ansia che le scendono sempre più in baso. Li sente brillare sul

piercing all’ombelico. Li percepisce fissati sull’elastico degli slip firmati, sui pantaloni

a vita bassa.

Si tira su i pantaloni, con fare nervoso.

Immagina che allunghi una mano a toccarla, le sembra di sentirla molle, fredda,

sudata, sfiorarle la pelle. Le sembra di sentirla allentare l’elastico delle mutandine.

Ripensa a Morgan, qualche sera fa, alle cose che aveva pensato che avrebbe fatto

con lui e poi non se n’è fatto niente, lui era distratto e alla fine lei se n’è andata,

incazzata. Lo avrebbe voluto. Ma ora no. Questo uomo le fa schifo.

Ha paura. Non sente più nulla. Non sente le chiacchiere degli altri intorno a sé.

Sente solo il suo cuore che le rimbomba nelle orecchie. Se lo sente in gola, che pulsa. Il

suo respiro. Il suo respiro è affannoso, e le sembra di sentire anche il respiro dell’uomo

con i baffi. Così simile al suo, ma ansimante per ben altro motivo.

Le fermate si succedono. Il 913 si ferma innumerevoli volte ai semafori, per gli

ingorghi, per un parcheggio mal fatto. La sua fermata si avvicina, crede, lenta ed

ancora lontanissima. Ed ancora una nuova paura le sale dentro. Scenderà anche lui, lo

sa. Ci sarà meno gente a proteggerla, la seguirà, la guarderà, conoscerà le sue mosse,

saprà qual è la sua destinazione.

Non potrà sfuggirgli. Saprà tutto di lei. Potrà identificarla la prossima volta,

magari di sera, magari in altra stagione, quando farà buio alle sei, quando lei dovrà

comunque prendere il 913 e lui sarà lì a guardarla, a spiarla, a posarle i suoi sudici

occhi addosso, ad attendere di poter andare oltre, ad aspettare il momento propizio, a

parlarle con quella sua voce rauca, aspirata, lo sente, lo sa, melliflua, lasciva, filata di

bava.

Il bus è fermo. A malapena riconosce il luogo. Scende precipitosamente, quasi

buttandosi giù, quasi travolgendo un anziano che le inveisce contro.

Ne è certa; lui le è dietro. Si incammina veloce per la via. Poi uno scatto

improvviso, irrazionale, attraversa la strada, come una lepre braccata che tenta una

deviazione per scampare al cacciatore, e si volta per un attimo per vederlo in faccia e…

non c’è.

Il bus riparte e lui è ancora là, tranquillo, lo vede leggere una rivista. Il 913

oltrepassa la curva e lui scompare dalla sua vista probabilmente per sempre.

Nulla rimane della sua ossessione. Vorrebbe parlare. Chiedere qualcosa. Ma

ancora i pensieri si affannano alla mente. E non sa dare nome alla sensazione che le si

agita dentro. Se sia sollievo, curiosità o delusione.