Chiamami Zecca

 

 

Quando avevo 23 anni, per la prima volta assaporai coscientemente il brivido della morte.

Era come un messaggio in bottiglia.

Letteralmente.

Ero a Siam Reep, in Cambogia.

Scalzo, a torso nudo e ubriaco marcio.

Alle 4 del mattino.

Con un branco di farang nelle medesime condizioni, avevamo improvvisato un match di pallastrada in un vicolo diroccato con pozzanghere da terzo mondo, vetri disseminati un po’ ovunque e scheletrici cani randagi che ci ronzavano attorno leccandosi le fauci mefitiche.

Cambogia contro resto del mondo.

Per un’ora abbondante, corremmo come forsennati tra bidoni della spazzatura e cocci di bottiglia, incuranti dei nostri piedi flagellati che ad ogni passo, sprofondavano in pozzanghere melmose e si sbucciavano a contatto del cuoio bagnato.

Dopo un’ora e mezza eravamo sfiniti, ma non riuscivamo a smettere.

Forse era il destino.

Forse solo la sbornia.

Chissà.

Sta di fatto che mancava qualcosa.

Il fischio finale dell’arbitro del fato.

E alla fine, arrivò.

Peter, il filiforme austriaco biondo con il quale dividevo la stanza, guardò alle mie spalle e iniziò a sbracciare, urlando qualcosa.

Non riuscivo a sentirlo.

Tutti mi guardarono terrorizzati.

Sentii un tonfo secco, seguito da uno scroscio di vetri.

In realtà l’attenzione di tutti era focalizzata alle mie spalle.

Ma io continuavo a non capire.

Allora mi voltai, e fu la mia salvezza.

Appena ruotai la testa di 90 gradi, un enorme oggetto volante non identificato mi passò a pochi millimetri, sfiorandomi la fronte ed esplodendo al suolo.

In un istante rinsavii.

“Run!!” urlai raccogliendo le ciabatte e la maglia e saltando nel chiosco più vicino, mentre decine di bottiglie vuote venivano sparate dal cielo da invisibili cecchini insonni.

In trenta secondi eravamo una decina di coglioni compressi dietro la carcassa di tuc-tuc, ridendo preoccupati.

Gli stessi 10 idioti che per due ore avevano fatto un casino spropositato nel cuore della notte di un paesino del terzo mondo nel quale fino a 10 anni prima vigeva il tremendo e sanguinario regime di Polpot.

Alla fine, gli inquilini dei piani alti di quei palazzi si erano rotti i coglioni del solito branco di bianchi ubriachi che gli ululavano sotto casa.

E siccome quando un asiatico perde la testa non conosce mezze misure, avevano iniziato a tirarci decine e decine di bottiglie di vetro, mirando particolarmente al più scalmanato e grosso idiota che urlava e incitava l’allegra brigata.

Io.

Ma ero troppo ubriaco per leggere il messaggio in bottiglia tra le righe.

Così mi limitai a continuare a urlare e vagabondare nella notte.

Dopo un po’, io, Peter, due israeliani obbrobriosi e un ungherese piovuto nel sud-est Asia con l’unico obiettivo di scoparsi valanghe di lady-boys (… …) approdammo  in una bettola sparuta che serviva ancora da bere.

Bene.

Dopo un altro full (tris di birre e coppia di Jack Daniel), ebbro e sanguinante da capo a piedi come un vichingo prossimo al Walhalla, tra la microscopica bolgia, la vidi.

Una tipa calda come l’inferno e ubriaca il doppio, che beveva un litro di cocktail da un secchiello di plastica.

Con due cannucce.

Una fucsia e una verde.

Ottimo.

Con la scusa che le cannucce erano due e lei era sola attaccai bottone, e iniziammo a parlare di cose senza senso, tipo il calendario Maya o il perimetro della mascella di Ridge.

Dopo una decina di minuti eravamo fuori, seduti sotto un portico a picco.

Il secchiello era vuoto.

Bisognava inventarsi qualcosa.

Le infilai la lingua in bocca.

Lei la prese male.

Molto male.

Tuffo la mano sotto le mie mutande, mi estrasse il cazzo ed iniziò forsennatamente a farmi una sega.

Praticamente in mezzo alla strada.

A 10 metri dall’insegna di un 7/11, dove quattro o cinque cambogiani ridevano come scimmie e ci facevano foto col cellulare.

C’est la vie.

Senza che io tuttavia abbia una minima idea del tragitto che percorremmo, in un lampo ci ritrovammo a casa sua.

Aveva una tripla, ma i suoi amici, una coppia di irlandesi sciroccati, non c’erano.

Stavo per scatenare la furia dei quattro elementi, quando lei, già disciolta come lava tra le coperte, completamente nuda, mi disse che senza condom non si poteva fare niente.

Merda.

Ma aveva ragione.

Io però oramai avevo voglia, e ragioni non ne volevo sentire.

Azzardai qualche manovra prossima allo stupro, finché mi decisi malvolentieri a trovare un cazzo di goldone.

Iniziai a vagare completamente nudo per il corridoio di quella guest house sconosciuta, bussando porta a porta (era quasi l’alba) con la disperata richiesta di un profilattico.

Alla fine, dopo mezzora di delirio, qualcuno si decise ad aprire.

Un vecchio.

Più morto che vivo.

Mi consegnò una scatola mezza piena e, sorridendo, disse “Good luck bro … and fuck safe!!”

Era rachitico e rugoso.

Aveva gli occhi grigi, i denti marci e l’alopecia.

Era in canottiera e cazzo al vento.

Ma sembrava un angelo.

Più felice di Parsifal quella volta che ricostruì Excalibur dopo il pellegrinaggio dalla dama del lago, corsi come un forsennato dalla mia donzella e, dopo aver sbagliato stanza quattro volte, beccai la porta giusta e la trovai lì.

Sul letto.

Che dormiva …

No way.

Adesso si tromba o si muore, pensai.

Con la grazie di un branco di Visigoti, iniziai a scuoterla come un prosciutto.

Si svegliò di colpo, più ubriaca di prima e, dopo avermi fissato per una ventina di secondi abbondanti, socchiudendo le labbra mi sussurrò dolcemente “E tu chi cazzo sei??”

Io però non avevo tempo per i dettagli.

Qui si fa l’Italia, o si muore.

Senza nemmeno rispondere, passai subito ai preliminari, e le tappai la bocca.

Letteralmente.

A quel punto partì la Cavalcata delle valchirie all’unisono con la Primavera di Vivaldi, mentre Jimi Hendrix in bagno suonava la chitarra coi denti e Jim Morrison piagnucolava “People are strange” da sotto il letto cigolante, in un’agonia di molle arrugginite.

Dopo un paio d’ore, mentre lei dormiva di nuovo, sfinita e soddisfatta, io mi alzai in sordina e cominciai a vestirmi.

Mentre mi infilavo le vecchie Nike sfondate, un occhio mi scivolò sul pavimento e vidi uno dei profilattici che avevo usato.

Era rotto.

Un brivido mi percorse la schiena.

E non era il freddo.

In Cambogia, quei giorni facevano dai 35 ai 40 gradi.

Poi sospirai.

Magari era solo una smagliatura.

Il giorno dopo ne avremmo riparlato.

E così raccolsi il mio marsupio, aprii la porta, la guardai un attimo mentre vibrava sognando tra le ruvide coperte di quel motel di infima categoria, poi la socchiusi delicatamente alle mie spalle e sparii tra le radiazioni corpuscolari e variopinte dell’alba …

Due anni dopo, una notte, a Melbourne, mentre rincasavo alle 4 del mattino stordito come un licaone glabro, mi fermai in uno dei soliti 24 ore sparsi per il continente.

Ero con l’iraniana.

Barcollai fino al bancone, gracchiai qualcosa al commesso indiano, comprai sigarette e cioccolata, quando mi ricordai che quel posto era anche un internet cafè.

Che cazzo, pensai, andiamo su facebook.

Mentre l’iraniana continuava a toccarmi il torace sussurrandomi porcate nelle orecchie e a dirmi che se fossimo andati a casa subito avremmo trovato cose più interessanti da fare, inserii la password ed aprii la mia pagina.

Tra le varie notifiche, c’era una richiesta d’amicizia.

Una certa Dorothy Milton.

Mai sentita prima.

Stavo per ignorarla, quando in un barlume di lucidità mi andò l’occhio sulla foto.

Si vedevano solo due mani che reggevano una bambina.

Era bellissima.

Aveva i capelli rossi e gli occhi verdi come muschio.

C’era un messaggio privato, allegato alla richiesta d’amicizia.

Diceva così:

“Dorothy, saluta il tuo papà”

 

Quella storia assunse poi le rocambolesche fattezze di una leggenda.

La ragazza, dopo che io accettai la sua amicizia non rispose alle mie e-mail per mesi.

Poi un giorno mi scrisse solo questo:

“Tranquillo, sto per sposarmi con un bravo ragazzo che la tratterà come se fosse sua. Shannon”

E da quel momento non ebbi più notizie di lei.

Chiuse il contatto e sparì.

Aveva voluto solo rinfacciarmelo.

Farmi sapere che l’avevo messa incinta, incurante del fatto che le avessi anche detto che ero pronto a riconoscerne la paternità in caso, e che sarei partito per Belfast la notte stessa.

Dopo il suo infinito silenzio, passai diverse nottate nel buio del mio appartamento, a Saint Kilda, ripensando a quella notte assurda, in Cambogia.

Qualcuno aveva provato ad uccidermi ed io, sfiorato dalla morte, avevo invece risposto ridacchiando e generando una vita.

Che cazzo cercava di dirmi il karma stavolta?

Che per quanto fossi animato da buoni propositi, ero così dannatamente randagio da essere destinato a seminare un esercito di bastardi in giro per il mondo?

Volente o nolente, la famiglia per me era un’utopia.

Una chimera.

Un randagio purosangue è come un baobab.

Piantato al contrario rispetto a tutti gli altri.

Con i rami nel suolo e le radici protese verso l’infinito.

Non è che gli mancano.

Semplicemente, non sono fisse in un punto del globo.

Cercano la luce, giocherellando con le stelle in un incomprensibile intreccio di dita e sterpi.

Ed io, tra virgolette purtroppo, ero più che un purosangue.

Ero un fuoriclasse.

Un randagio DOCG.

Puro e maledettamente limpido e oscuro come l’etere.

Come i ghiacci della Siberia.

E torbido come una damigiana di uranio impoverito ossidata per millenni nelle viscere della terra.

Per quanto fossi sempre stato convinto che con la forza di volontà si potesse piegare lo spazio-tempo e raggiungere qualunque risultato, dopo che 5 anni fa divenni buddista, continuai a credere sempre di più nelle mie capacità, sapendo però che in linea di massima, molte cose sono scritte.

Ma che comunque la voglia di fare, mettersi in gioco e raggiungere obiettivi pressoché inverosimili, anche se è stato scritto che non ce la farai, servirà per lo meno a renderti qualcosa di diverso.

Di migliore.

O forse peggiore.

Ma sicuramente, vivo.

Perché se si parte dal pessimismo cosmico che siamo tutti predestinati a morire o trionfare, tutto quello che ci circonda perde tristemente significato.

Questa diatriba tra me e l’illuminato provocò una piccola spaccatura nella mia ascesi.

E lì nacque quello che, altri vagabondi incontrati per le strade del mondo, ammaliati dal suono arrugginito delle mie parole, ribattezzarono “Buddismo Randagio”.

Era una filosofia così pecoreccia e naturale, che iniziò a spargersi un po’ dappertutto tramite amici e conoscenti.

Un fenomeno silenzioso che si mosse nell’ombra dei vicoli e sotto i ponti, tra i cassonetti e le soffitte sovraffollate di emigrati.

Dalla savana a Beverly Hills.

Ma io non ne sapevo niente.

Intorno alla mia figura nacquero storie a dir poco tragicomiche.

Ma quella è un’altra storia.

Mentre iniziava a prendere forma questa assurda teoria sotto banco io pascolavo, randagio e felice, per il deserto australiano.

Una notte, mentre attraversavo il Nullaharbour con una macchina rubata senza assicurazione, bollo, revisione e patente, come tutte le sere mi fermai a dormire in mezzo al deserto.

Guidai la macchina tra i sassi e le dune per qualche centinaio di metri, e poi spensi il motore.

Silenzio.

Quiete.

La notte dei tempi.

L’alba dell’uomo.

I casuari e gli emù gracchiavano qualcosa, in lontananza.

Strane cose affusolate strisciavano tra le rocce, sollevando nugoli di polvere.

Da qualche parte, lontano, gli aborigeni cantavano una nenia misteriosa che riecheggiava nella notte.

Fantastico.

Non c’era una luce artificiale accesa nell’arco di un anno luce, eppure sembrava quasi giorno.

C’erano così tante stelle visibili a occhio nudo da rendere l’universo quasi verde.

Un verde scuro.

Muschio.

Brivido.

Quel colore mi fece pensare a Dorothy.

Mia “figlia”.

Ipotetica o effettiva che fosse.

Aveva gli occhi dello stesso colore del cielo del Mc Donald desert.

Che storia.

Aprii lo sportello e scesi dal mio carroattrezzi transoceanico.

Dello stesso identico colore, tra l’altro.

Feci due passi nel buio più assoluto.

Che pace.

Non c’era un grillo a rompere le palle.

Quello per me, era il senso della vita, che viaggio dopo viaggio mi si ripresentava con spoglie diverse in posti agli antipodi l’uno dell’altro.

Ma risvegliando sempre la stessa sensazione sulla mia pelle.

E colorandomi l’animo con sfumature indicibili, come una secchiata fresca dell’arcobaleno che ti inonda lo spirito e pervade di luce ogni tachione del tuo essere.

Questo è quello che cerca un randagio.

L’unica vera cosa che precede la sete di libertà.

Lo spettacolo della vita.

Esistono emozioni più forti di qualunque tragedia.

Non importa chi o cosa abbia creato tutto ciò.

Tuttavia, complimenti.

Bel lavoro.

Questo era quello che si diceva fosse il perno di quella che si divulgò come la mia filosofia di vita.

Tutto ti appartiene, perché siamo pezzi di universo anche noi.

Siamo ammassi di protoni e azoto.

Siamo comete di carne e carbonio.

Siamo montagne di sangue e ossa.

Minuscole costellazioni.

Pianeti bipedi.

Dinosauri squamati.

Siamo un unico grande organismo che respira, piange ed eiacula all’unisono delle nostre evaporazioni.

Siamo le pulci sul pelo ruvido di quell’enorme Siberian Husky noto con lo pseudonimo di Pianeta Terra.

E le zecche dello stegosauro chiamato Vita.

E cos’è una zecca, se non un passeggero che non si ferma mai, il randagio per eccellenza?

Già …

Chiamatemi Zecca.

Sospirai.

Davanti a spettacoli come quello, piangere, ridere o sognare, non era ancora abbastanza.

Ma rinchiuso in quelle fottute spoglie mortali, il Troll del mio animo non poteva ancora fare di più.

Per lo meno non ancora.

Pisciai, accesi una sigaretta e poi mi arrampicai sul tettino della macchina e, come tutte le notti, mi sdraiai.

Per contemplare la nitidezza fantastica di quella galassia per un paio d’ore, prima di addormentarmi spettinato dal vento.

Allora, rilassato come un putto dormiente, sognai e sognai, ma in realtà non erano sogni quelli che mi passavano davanti agli occhi come istantanee sfuocate in bianco e nero, bensì pile e album di ricordi forti ed indelebili.

L’ultima pillola di veleno e saggezza che mi aveva somministrato il karma tanto tempo prima, giù in Cambogia, a 5 chilometri dalle rovine dell’Angkor Vat.

 

Il pomeriggio dopo mi svegliai con la sindrome del naufrago.

Non sapevo chi o cosa ero.

Tanto meno in che angolo del mondo mi trovassi.

Ero vivo, o almeno credevo, ma non sapevo perché.

Iniziai a guardarmi intorno, e tutti cominciò ad assumere le sembianze di qualcosa di familiare.

Un enorme appartamento pieno di mutande e calzini sparsi ovunque.

Un bagno diroccato con due asciugamani appesi alla porta.

C’era anche una terrazza.

Dalle finestre faceva capolino un raggio di luce rossastra, che mi solleticava il volto.

E le tende ballavano voluttuose.

Niente male come incipit.

Notai anche due zaini rovesciati sul pavimento.

Uno era il mio.

Logo e grigio come l’asfalto.

L’altro era di Peter.

Ero a casa mia, a Siam Reep.

Ora ricordavo tutto.

Provai ad alzarmi dal letto.

Ero un bagno di sudore, seminudo, con addosso solo un paio di Sundek strappati e bisunti rubati qualche mese prima in Malaysia.

Non capivo un cazzo.

Mi sentivo la testa pesante come se fosse circondata da un’aureola di ghisa.

Ero prossimo alla beatificazione, pensai accendendomi una LM rossa e accartocciando il pacchetto.

Il primo santo balordo.

Mi alzai di colpo dalla branda e poggiai i piedi al suolo.

Fu allora che avvertii un dolore mostruoso che mi pervadeva la totalità delle gambe, dai piedi alle ginocchia.

Iniziai a studiare la situazione.

Ero un disastro.

Avevo i piedi distrutti.

Due vesciche spaventose, larghe 5-6 centimetri l’una e spesse almeno un centimetro si stavano riempiendo di liquido, e mi facevano quasi piangere.

Le mie ginocchia erano completamente sbucciate e ricoperte da croste sporche di sangue rappreso.

Caviglie e quadricipiti pieni di abrasioni.

E va be’.

Ma non era finita qui.

Il particolare più inquietante ce l’avevo sul tallone destro.

Mi prudeva e bruciava tantissimo.

Quello che inizialmente mi sembrava solo un’irritazione cutanea, risultò essere molto di più.

C’era una grossa chiazza rossa, al centro della quale troneggiavano quattro piccoli puntini viola.

Sembravano brufoli.

Ma purtroppo non lo erano.

Per un paio di giorni si gonfiarono e sulla sommità si formarono quattro grossi bubboni bianchi, pieni di pus.

E intanto la chiazza si allargava.

L’infezione si stava rapidamente diffondendo in tutto il piede.

E allora sentii ironica, in lontananza, l’eco della risata del karma.

Ricordati, ragazzo mio, che anche se sei il figlio illegittimo della strada, sei fatto di carne e sangue, e quindi le leggi della chimica valgono anche per te!!

Questo era il messaggio.

La notte prima tutto mi era andato troppo bene, e quindi, anche se probabilmente quell’ennesimo imprevisto si sarebbe risolto a tarallucci e vino, il karma voleva farmi bestemmiare ancora un po’ prima di sentirmi cantar vittoria.

Questa è la vita.

E spesso non è facile.

E tu lo sai.

Già, lo sapevo.

Anche perché amo gli imprevisti in ogni loro forma.

E quindi, quando uno di loro mi complicava le cose più del previsto, non potevo incazzarmi.

Non sarei stato coerente con me stesso.

E soprattutto con la mia nascente filosofia di vita.

Sorridere, sorridere e ancora sorridere.

Perché la vita è gioia.

Oltre i pianti e le paranoie.

Zoppicai per il centro del villaggio fino a una casa diroccata con l’insegna “ospedale”.

Ottimo.

Appena entrato, oltre ai 40 martiri sdraiati al suolo in attesa di essere salvati, incontrai anche una capra e due galline.

Perfetto.

Appena la pseudo infermiera mi notò, esprimendosi a gesti mi fece sdraiare e togliere le scarpe.

Ma quando vide la spaventosa deformità che mi troneggiava sul piede, lei e tutto il corpo ospedaliero esplosero in un grido di terrore.

Non avevano mai visto niente del genere.

E di conseguenza, dubitai anche che avessero la benché minima idea di come procedere.

Si consultarono un po’, dopodiché afferrarono quella putrefatta mortadella viola (il mio piede), la innaffiarono di mercurio cromo e asportarono i quattro bubboni bianchi a mani nude, con una lametta da barba.

Grandioso.

Dopodiché tamponarono in malo modo la ferita con un po’ di carta igienica e mi dissero che potevo rimettermi quei calzini putridi e andarmene.

Ero guarito.

Sospirai, poi ringraziai.

Non mi avevano nemmeno pulito la ferita.

Presto, con tutta quella polvere e quel sudore, un’infezione senza precedenti avrebbe pervaso tutto il mio corpo, prima di tramutarsi in cancrena.

Tornai a casa, sciacquai la ferita ed aspettai i sintomi.

Nel frattempo un ATM mi aveva fagocitato una carta di credito, e non mi accettavano l’altra.

Tutto quello che avevo nel portafogli erano un dollaro americano e 34 cents, oltre alla figurina di Roberto Baggio con la maglia della Juve.

Il giorno dopo mi sarebbe scaduto l’affitto.

E Peter era partito per Pnom-Pen.

La sera stessa, mi salì la febbre a 39 e mezzo.

Caldo insostenibile, brividi e sudore freddo.

Battevo i denti.

Il dolore era insopportabile.

Ma stavo lentamente imparando la lezione.

Era solo il karma che continuava a punzecchiarmi, per poi sorridermi di nuovo.

A nostro modo, eravamo amici.

Così, tra uno spasimo e l’altro riuscii ad addormentarmi, e il mattino dopo saltellai fino ad una clinica privata.

Il dottore sembrava Charles Bronson.

Ma era in gamba.

Davanti al calvario del mio piede non si scompose.

Semplicemente, impugnò un enorme lente di ingrandimento ed osservò meglio.

Mi prescrisse due compresse di non so cosa (forse napalm e cherosene, chissà) e una pomata, dopodiché sparì trotterellando tra le corsie e mi lasciò alle amorevoli cure di un’infermierina cambogiana con gli occhi limpidi come la jungla.

Mentre mi sciacquava la ferita, fui colto da un’erezione selvaggia.

Karma, ti prego, basta, pensai sollevando gli occhi al cielo.

Dopo tre giorni ero perfettamente guarito.

Mentre ripenso a quell’odissea tragicomica in Cambogia, istintivamente mi viene voglia di guardarmi il tallone e grattarmi un po’ l’invisibile cicatrice di pelle bruciata che si cela sotto il mio calzino.

Il ricordo assurdo della notte che, forse, misi al mondo una figlia.

L’anno scorso, in verità, mi decisi e di punto in bianco salii su un aereo e mi ritrovai a Belfast.

Per scoprire la verità.

Ma questa è un’altra storia.

L’importante, è continuare a sorridere.

Sempre.


Il blues del lucertolone

Immaginate una mela.

Marcia e gigantesca, come tutte le galassie.

Un pomeriggio, dalla buccia giallastra, fece capolino un prepuzio marroncino, viscido e rugoso.

Era la testa di un minuscolo verme.

Che come tutti i vermi, si guardò intorno e cercò di capire l’oscuro senso di quella strana zaffata di smog che gli arrivava in faccia con lo pseudonimo di vita.

Ma come tutti gli anellidi neonati, era cieco.

E non poteva apprezzare a fondo il beffardo senso della solfatara che lo circondava.

Così fece l’unica cosa che poteva fare.

E che sapeva fare.

Perché l’aveva sempre fatto.

Mangiare.

Solo con uno stile diverso.

Prima dall’interno, ora in superficie.

Conficcò la testa nella buccia e strappò un boccone di epidermide verdognola.

Non male.

Strisciò per un paio di millimetri e si ritrovò sopra un crostone biancastro ammuffito.

Si guardò intorno.

Non c’era niente da fare.

D’altronde era cieco.

Se avesse avuto le spalle le avrebbe scrollate.

Pazienza.

Rituffò la testa nella buccia e ricominciò a mangiare.

Dopo un po’ strisciò un altro paio di millimetri e si ritrovò sopra un’estremità del torsolo.

Da lì si che la vita avrebbe avuto tutta un’altra visuale, cazzo!

Ma purtroppo era cieco…

Che sfiga…

Pazienza…

E addentò una bella scaglia legnosa dal gambo….

E così via, mano a mano che si spostava, mangiava.

E mano a mano che mangiava cresceva.

E mentre cresceva, strisciava intorno a quel globo ammuffito che gli aveva dato la vita.

Intorno alla mela.

E, millimetro dopo millimetro, con cieca umiltà e spropositata ingordigia, l’aveva girato tutto.

Anzi, per la precisione l’aveva completamente avvolto.

Perché, sin dal primo giorno, non si era mai accorto di avere ancora la coda conficcata all’interno, nel cuore del pianeta.

Pazienza.

E continuò a mangiare.

Finché arrivò il giorno che quel piccolo insignificante verme era diventato un basilisco lungo 34 metri, con le spaventose fattezze di un drago tossico e famelico e gli occhi bianchi, incapaci di vedere.

E quando le sue infinite spire, scaglia dopo scaglia, avevano raggirato e stritolato tutta la mela, dopo aver avidamente ingoiato grammo dopo grammo ogni oncia di quel frutto bacato, puntò il torsolo, fissò la sua infantile codina negli occhi, e in un colpo solo la ingoiò.

Sapete cosa accadde?

Io no.

Nessuno lo sa.

….

Anche lui se l’è dimenticato.

È passato troppo tempo.

Troppe vite che si accavallano.

Troppe scrofette squamate hanno strisciato tra le sue spire.

Troppi paradossi lo hanno attraversato come scosse elettriche, quel giorno lontano, quando affondò le zanne scarlatte nell’avorio del torsolo.

Ma non importa.

Non più, oramai…

È notte, giù in città.

La vita lo ha costretto a vivere.

La mela lo ha stregato.

Lo ha talmente narcotizzato da averlo convinto di non essere cieco.

Mentre vaga per i ghetti di New Orleans, crede davvero che sia reale.

Tutto ciò.

I 2 negri con voci straziate da raccoglitori di cotone, che violentano il violoncello e parlano di puttane e terre promesse, sotto l’occhio di bue di un lampione di ruggine, per mezzo dollaro accartocciato…

Il cagnaccio rognoso semi immerso nella pattumiera del ristorante cinese…

Il vento sulle squame.

Persino la luna.

Tutto ciò.

Una volta si sarebbe reso conto che quella è solo la buccia.

Si fermò un attimo a pensare…

Naa…

Cattivi pensieri..

Solo cattivi pensieri…

Si accese una Lucky Strike, abbassò la bombetta sugli enormi occhi gialli e riprese a vagare per le strade desolate del pianeta….

Strisciando febbrile e oscuro come la vita stessa, senza quell’innocenza e quella cecità che avrebbero cullato un verme in un abbraccio materno, senza coprirlo d’oro e trasformarlo in un leviatano…

E vaga, solo, di notte, per il costato polveroso del mondo…

E vaga, e vaga e vaga…


Proiettili e alligatori

Io non esisto.

Immaginate una persona qualunque.

Uno che abbia una vita insipida e una visione del mondo piatta e completamente stereotipata.

Io non ero così.

Di certo ero un tipo che con questo millennio non c’entrava niente.

Ma è più comodo immaginarmi con una faccia normale e un conto corrente robusto, per evitare che cadiate nel delirium tremens del desiderio di conoscere qualcuno che non incontrerete mai.

Pensate alla faccia del vostro vicino di casa.

Del postino.

Del ragazzo di vostra sorella.

Del poliziotto di merda che vi ha ritirato la patente la sera di capodanno, mentre una minorenne con l’apparecchio ve lo succhiava copiosamente.

Uno così.

Uno che quella sera era talmente confuso da aver preso una decisione.

C’era davvero tanta nebbia sul pontile.

Guardai le facce delle 2 stronze e di J,il mio migliore amico.

Sorrisi.

Poi in un attimo di agghiacciante silenzio e buio assordante, mentre alle mie spalle New York si ergeva possente, orgiastica e luminosa come sempre, mi infilai la pistola in bocca e premetti il grilletto.

Buio.

Solo un tonfo secco.

E le allegre mandibole di Jersy e Sandro, i 2 alligatori giganti.

Saltarono fuori dall’acqua agili come colibrì trascinando la mia carcassa putrefatta in fondo al fiume.

PER SEMPRE.

Ripensandoci ora mi commuovo.

Volevo bene a quelle 2 care bestiole.

Le avevo viste crescere.

Tutte le mattine all’alba erano sgattaiolati fuori per 12 lunghi anni dai canali di sbocco delle fogne, che sfociavano sotto Central Park.

Le leggende dicevano che qualcuno li aveva gettati nel water di qualche borioso grattacielo, e da lì, zigzagando per i cunicoli, erano piovuti nelle fondamenta della città.

E li erano cresciuti, strisciando avidamente sotto il ventre della metropoli per anni, concedendosi qualche scappatella lungo la baia di quando in quando…

Eh già…

Brandelli della mia giacca di pelle galleggiavano sul pelo dell’acqua rossa, e mentre J,traumatizzato, a bocca aperta non faceva altro che balbettare ”Zeta..Zeta.Zeta”, perso in un incubo a occhi aperti, una delle 2 troie vomitava gin e noodles appoggiata alla banchina, con le ginocchia nude che si scorticavano sulle assi di legno, e l’altra correva il più lontano possibile dall’acqua, strappandosi i capelli…

Fino a quel punto la serata era stata a dir poco mondiale.

Quello che non avrebbero mai capito era che, mentre per loro adesso tutto si tramutava in tragedia, per me raggiungeva l’apice di un orgasmo.

Mi dispiaceva per J, ma d’altro canto ci godevo come un cane nel vedere le 2 troie in preda ai conati di vomito.

Per me era sempre stato quello il massimo e unico senso della vita: generare il panico negli altri per vedere quante sfumature potevano assumere i loro occhi contemporaneamente..

Tutto era iniziato qualche ora prima.

Era un sabato sera e, come al solito, eravamo io e J.

Come al solito.

Seduti anzi, stravaccati su un paio di poltronacce da 4 soldi in una bettola merdosa giù nel Queens.

Doveva essere più o meno l’ora di cena, ma questo potevo solo dedurlo dalle centinaia di barboni e uomini d’affari che ci rotolavano intorno con sacchetti di McDonald’s sotto braccio e tranci di pane ammuffito in bocca.

Noi a mangiare nemmeno ci pensavamo.

Noi si beveva.

J di solito aveva gli occhi azzurri come un lago di montagna ghiacciato, e stretti, a fessura, come la punta di un cacciavite.

Dopo una certa però, come sapevo bene, acquisivano una tonalità fucsia tendente all’indaco, e più la sbornia avanzava, più assumeva le rocambolesche sembianze di un James Dean più balordo che mai.

Era secco e spigoloso.

Come James Dean.

Era biondo e crespo.

Come James Dean.

Aveva la faccia da ragazzino, ma velata da una marcata impronta di decadenza, di chi ha già esagerato nonostante l’età.

Come James Dean.

E di sicuro sarebbe morto giovane.

Proprio come James Dean.

Eravamo sulla Ash Ave, a 5 minuti dalla Flushing Station.

Io ero sdraiato come un capo indiano sopra un divanetto di vimini sfilacciato.

Due ore prima,a Soho, un travestito portoricano mi aveva regalato un copricapo da pellerossa fatto di penne d’aquila.

Così me ne stavo lì, mezzo sbronzo, con una cooper rossa in mano e una camel incastrata tra gli incisivi, come uno stregone apache.

Con gli occhi che iniziavano ad arrossarsi e una cascata di piume bianche e nere che mi ricopriva le spalle.

Ero gonfio nello stomaco, leggiadro nell’animo, allucinato tra le sinapsi.

Con i jeans scoloriti, consumati sulle ginocchia, le onizuka gialle sfondate, una maglietta bianca sudicia e la mia inseparabile bombetta nera.

La notte precedente l’avevo passata vagabondando da solo, nella Down Town, tra mandrie di fighetti newyorkesi della upper class e mocciosi imberbi piovuti da qualche arido ettaro di terra del Texas nella grande mela, che pizzicavano delle vecchie chitarre scordate con le unghie mangiucchiate ancora sporche di terra, in cerca di fortuna.

In una giungla di puttane carnivore, grattacieli di mangrovie e un miliardo di taxi gialli, sempre pronti a travolgerti.

All’epoca dormivo gratis in una stanza di merda grande come una stecca di sigarette sulla Whitehall street, a un tiro di schioppo da Battery Park.

E dal World Trade Center.

Nonostante in quel buco di cartongesso ci fosse solo un materasso sporco di sangue poggiato sul pavimento di piastrelle rosse, una sedia, una finestra dai vetri luridi e marroni, e un chiodo infilato nella porta che fungeva da attaccapanni…beh, mi sentivo a casa.

Era bello il mattino svegliarmi tra cartacce, mucchi d’immondizia da bidonville indiana , pacchetti di sigarette vuoti accartocciati sul pavimento e bottiglie umide che mi guardavano di sbieco, col loro unico occhio etilico vuoto, sdraiate in quel deserto desolato.

Alzarmi ancora intorpidito, coi piedi immersi nel pattume, in mutande e infilarmi una camel spezzata in bocca.

Poi mi alzavo, aprivo la finestra arrugginita con uno scricchiolio sinistro, e finalmente la vedevo.

La statua della Libertà.

Ellis Island era proprio lì, davanti ai miei occhi, che si stagliava davanti alla baia di Verazzano.

Anche se era solo uno stupido regalo dei cugini francesi, beh, era bello sapere che c’era.

Si ergeva possente e tronfia contro quel cielo americano, enorme, e sembrava non avesse paura di nulla, neanche di fallire.

Non sentiva gravare sulla sua testa il peso delle responsabilità, come tutti i dannati yankee.

D’altronde, lei non era americana.

Non doveva pensare né ad entrare a Yale o alla Columbia, o tanto meno a qualche fottuto dottorato in economia per approdare alla Casa Bianca.

Non era ossessionata.

Trasmetteva forza e tranquillità al tempo stesso.

Si limitava a tenere la fiaccola alta sopra la sua testa coronata, mentre ai suoi piedi, ogni singolo istante, un secondo dopo l’altro, mezzo miglio marino più in là, prendeva atto la più grande commedia umana del mondo.

New York, la città che non dorme mai.

Ma io dormivo meno di lei.

Infatti avevo passato la notte precedente, come tutte le notti d’altronde, vagando per la grande mela,  in cerca d’avventura.

Ero a NYC da più di dodici anni, e mi ci ero fermato più del previsto proprio per quel motivo.

Amavo quella città.

Da quando ci vivevo, me ne ero andato centinaia di volte per rinnovare il permesso di residenza temporanea, passando per il Messico e Panama, ovviamente zigzagando giù per la California per salutare un paio di amichette…

Tre o quattro volte al mese andavo ad aiutare degli amici Greci in una segheria fuori Albany, e quello che mi davano per il disturbo era più che sufficiente a mantenermi.

Avevo la possibilità di girarmi e vivermi tutta la Grande Meretrice Jazz per pochi centesimi al giorno, grazie alla metro.

Non pagavo l’affitto, visto che il buco in cui dormivo me l’aveva lasciato sulla parola una cicciona Messicana che avevo aiutato una sera, mentre due tossici cercavano di rubarle la borsa della spesa.

Ci stava suo figlio prima, ma adesso era in galera e gli avevano dato 3 anni, quindi, a meno che non lo avessero rilasciato all’improvviso per buona condotta, quel posto per un po’ era mio.

Così passavo le giornate camminando, scrivendo e bevendo coi 4 barboni cenciosi delle etnie più svariate che incontravo per strada, quartiere dopo quartiere, da Coney Island al Bronx, dal Queens all’Upper West.

Mi ero letteralmente innamorato di quel gigantesco e variopinto cumulo di cemento e rock che straripava di vizi, puttane, barboni e yellow cabs.

Bastava fare due passi a Central Park, e ci si scordava subito di essere in città, improvvisamente catapultati in una sconfinata prateria di verde, con tanto di laghetti,anatroccoli e cigni.

Se non fosse stato per le decine di americani paranoici che correvano a torso nudo con l’elettro stimolatore attaccato ai capezzoli, o per le stressatissime donne in carriera che agitavano i glutei a tempo di marcia tenendo in mano manubri da due chili, col meglio di Bon Jovi sparato al massimo nelle orecchie dalle immancabili cuffie dell’i-pod.

La sera prima mi ero incamminato su per la West, poco prima del tramonto.

A volte mi piaceva disperdermi tra il torrente di colli incravattati all’ora di punta, tra le sagome snelle e prepotenti dei grattacieli, per poi voltare al primo vicolo sconosciuto e sparire nei ghetti, senza sapere dove sarei finito.

O in cosa cazzo mi sarei imbattuto.

Quella sera invece avevo voglia di accarezzare New York, quella bellissima puttana con gli occhi intrisi di mille etnie indoeuropee, gongolato dalla brezza marina.

Così avevo fumato una sigaretta dopo l’altra, lanciando i mozziconi ai gabbiani, e mentre il sole si abbassava rosso e gonfio, dolorante, come una vecchia grassona con la sciatica, senza accorgermene avevo tagliato per la Laight, e dopo una mezz’ora ero involontariamente finito a Little Italy.

Di punto in bianco, mentre scivolavo nei miei pensieri erotici più sconci e indegni con la proprietaria del tailler verde che mi era appena passata di fianco, sentii una decina di versi gemebondi in abruzzese stretto.

Mi voltai di scatto, sollevando la bombetta sugli occhi.

Non era possibile.

La vetrina scheggiata del Sergio’s Pizza mi ruggiva davanti come una tigre dai denti a sciabola, con le sue 20 pizze dai gusti più tradizionali a quelli più riprovevoli, col loro diametro record di 40 cm e una decina di negretti scalzi coperti di stracci che tenevano il muso sporco poggiato al vetro, mentre pianificavano un furto con scasso in un slang incomprensibile, lasciando ditate e aloni sulla vetrata bardata a festa.

In un attimo ero tornato in Italia.

O meglio, nella sua peggiore parodia.

Idranti tricolore che sbucavano da dietro qualunque auto parcheggiata.

Statue della Madonna di Loreto e di Primo Carnera che facevano capolino all’ingresso dei ristoranti, o addirittura al semaforo lampeggiante.

Milioni di trattorie e ristoranti dove era possibile assaporare la vera cucina italiana, non quelle porcate italo americane, per carità, non quei posti dove per 30 dollari ti servivano un piatto di fettuccine col ketchup.

Mentre un ristoratore mezzo calabrese, coi baffi unti e una pancia enorme racchiusa malamente da un grembiule costellato di macchie mi faceva l’occhiolino, con uno stuzzicadenti stretto tra le labbra, diedi un’occhiata a una bancarella piena di gadget.

Avevano una maglietta nera che ero sul punto di comprare.

Al centro in rosso spiccava una scritta che diceva “I dieci motivi per i quali gli italiani sono i migliori al Mondo”.

Lessi i primi due (che rispettivamente erano 1)Nessuno ama la propria mamma come gli italiani, e 2)Gli italiani hanno il Papa ) dopodiché salutai la signora del negozio, travolsi un vecchio col violino che cantava a squarciagola O Surdato ‘Nnammurato e sparii tra il fiume di giapponesi che scattavano foto a destra e sinistra, mentre i doorman stagliati davanti ai ristoranti , tra un “buongiorno Signora” e un “Benvenuti” in italiano stretto trascinavano dentro gli ignari avventori che avevano commesso l’errore di fermarsi a guardare le lavagne col menù, esposte a decine lungo la strada….

Da lì ero finito a Chinatown, avevo comprato una busta di arance a Catherine St. da due vecchie sdentate di Dalì e poi avevo continuato a camminare e camminare, sommerso dalle puzza delle bucce di banana e del vapore che usciva dai tombini dei vicoli, mentre le ultime dita arancioni del sole si riflettevano sulle vetrate lontane dell’Empire State building e il crepuscolo scendeva su New York, accendendo le sue migliaia di demoni nascosti nell’ombra, assopiti, che attendevano impazienti che calasse la notte….

A un certo punto ero finito sulla Park Ave South, non so come, e mi ero ritrovato davanti al chiosco di un moccioso coreano che vendeva birre d’importazione sconosciute a un dollaro la bottiglia.

Ne comprai sette, mentre lui mi consegnava la ricevuta scritta a mano, tenendo la testa bassa per la vergogna di avere il volto semi coperto dall’acne.

Mi sedetti su uno sgabello di plastica, sotto un’ombrellone della Good Humour giallo e rosso, scolorito, e tra una sigaretta e l’altra le feci fuori tutte, ruttando e gettando i tappi seghettati sulla strada, dove centinaia di segretarie e avvocati rincasavano, guardandomi e storcendo il naso, disgustati.

Poi c’erano intere comitive di figli di papà e strafighe del jet set che si godevano la libera uscita.

Era venerdì, e stavano per gettarsi in una nottata da panico.

Ecco, anche loro mi guardavano, ma con un’espressione di tutt’altro tipo.

Quando iniziai a sentirmi piuttosto ubriaco, tirai fuori la tessera giallo blu della metro, mi infilai nella prima subway e arrivai alla Grand Central Terminal.

Fu lì, mentre decine di voci meccaniche annunciavano i treni per la East Coast, e centinaia di corpi mi urtavano, roteando le teste sfocate per aria alla ricerca del tabellone con gli orari fluorescenti, mentre io mi limitavo a sorridere al cielo stellato stracolmo di divinità greche affrescato sul soffitto, che la vidi.

O meglio, fu lei che vide me.

C’era una rossa tutta riccia seduta su una panca, di fianco al busto in marmo di Washington.

Ero talmente ubriaco che per metterla a fuoco iniziai a stringere i miei occhi fucsia e ad avvicinarmi sempre di più, sempre di più, finché non le fui praticamente in braccio.

A quel punto saltammo i convenevoli.

Neanche mi passò per la mente del perché tra tutte le migliaia di persone presenti in quel gigantesco museo ferroviario che è la Grand Central quella ragazza meravigliosa aveva notato me.

Indubbiamente il più ubriaco e peggio conciato di tutta la baracca.

Attaccai bottone e le proposi di fare un giro in metro.

Non avevo niente di meglio da offrirle.

Lei era appena arrivata dal Minnesota, e si chiamava Lidia.

Si fermava a New York un paio di settimane, appoggiandosi a una sua amica che viveva a Dumbo, nella zona di Brooklyn.

Quella sera però era in giro da sola, perché Brooke era andata a teatro, da qualche parte a Nolita.

Così le proposi di farci un giro nel Bronx, per mangiarci un paio di porcherie piccanti e scolarci una cassa di birra insieme a buon prezzo.

Nonostante sembrasse una tipa piuttosto delicata e fine, aveva due occhi viola da lince che mi facevano alzare di un palmo i peli delle braccia, e due chiappe marmoree, perfette, confezionate nei pantaloni di pelle nera come un lindor nella carta argentata.

Così prendemmo la linea 4 fino a Fordham road, un paio di fermate dopo lo stadio degli Yankee, e prima ancora che avesse appoggiato quel culo divino sui sedili gelidi della metro, le avevo già infilato un miglio terrestre di lingua in bocca.

Lei aveva opposto una resistenza da partigiano.

Infatti mi si era seduta sopra, arrampicandosi su di me e cingendomi con quelle zampe sinuose di pelle nera, tra le risate di due rastoni che giravano vagone per vagone con lo stereo sulla spalla.

La portai a mangiare i migliori spaghetti con polpette del Bronx, alla Maddalena’s, una tavola calda ispanica gestita da una fantastica coppia di ragazzi colombiani, dove la tequila costava mezzo dollaro a shot e la birra era ottima.

Sembravamo lilli e il vagabondo, mentre succhiavamo gli spaghetti dallo stesso piatto, e lei di tanto in tanto mi tirava le polpette in bocca, e io le ingoiavo al volo, tra le bestemmie in spagnolo di un paio di gitani tatuati due metri più in là.

A cena finita, lei era più ubriaca di me.

Facemmo non so quanti giri di rum, e poi  uscimmo barcollando per la strada.

Era caldo, ma il venticello soffiava pungente nella sera inoltrata , e i coni di luce bianca rendevano quei vecchi stradoni crepati più amichevoli.

Saltellammo mano nella mano sul marciapiedi ridendo come due coglioni, mentre un ragazzino scuro, a torso nudo, se ne stava davanti al getto furioso di un idrante aperto, in mezzo alla strada , lavando la sua bicicletta e gridando “Madre de Dios!!”

Passammo un paio d’ore nel Bronx, vagando per le strade buie e piene di cagnacci affamati, e a tutti quelli che ci fischiavano dietro perché stavamo dando spettacolo, rispondevamo sempre la stessa identica cosa.

“Ci siamo appena sposati, imbecille!! Siamo in luna di miele!!”

E mostravamo il dito medio.

A un certo punto, non so che ora fosse, pensai che era il momento di essere romantico.

Così, mentre la mia donzella si sciacquava le mani a una fontanella, piegata, e toglieva il respiro a quindici isolati, io rubai due fiori giganteschi che spuntavano dalla ringhiera arancione di un giardino ridotto in macerie, probabilmente abbandonato, e glieli portai, inginocchiandomi e togliendomi il cappello.

Appena si voltò, le puntai quegli orribili fiori viola, enormi e puzzolenti, praticamente fra le tette.

Lei scoppiò a ridere.

“Che cazzo fai, Zed?”, mi chiese illuminandosi tutta.

Cristo, com’era bella.

Eravamo in un giardino pubblico tetro e degradatissimo, ma in quel punto i rami degli alberi non si toccavano, e nel cielo scuro tra le chiome faceva capolino una luna bianca, rotondissima, perfetta.

Che le illuminò metà del volto, fino all’angolo carnoso e purpureo della bocca.

“Buon anniversario, amore mio”, le disse stringendole la mano.

“Anniversario?”, s’incupì lei barcollando, “quale anniversario? Sei matto?”

“Macché”, borbottai alzandomi in piedi e mettendole la mia bombetta sopra quella chioma rossastra, “ Sono 3 ore che ci conosciamo. L’ho capito dal moto lunare”

Lei mi lanciò un sorriso infuocato, e felice.

Poi mi baciò a lungo, con quella lingua ruvida ed elastica come la guarnizione di una moca, mi crivellò il petto di pugni facendomi tossire e, alla fine, mentre una mandria di ragazzini in skate ci volteggiavano intorno nell’ombra puntandoci i portafogli, mi prese per mano e sparimmo insieme tra i cespugli in fondo al parco, dietro le altalene cigolanti….

Fin qui i ricordi sono nitidi.

Poi, dopo esserci avvinghiati, mordicchiati, graffiati e aver shakerato le anime e i sessi, mentre mi riabbottonavo i jeans sentì la sbornia salire improvvisamente, e tutto divenne un vortice grigio, opaco, intervallato da delle sparute chiazze luminose.

Il led azzurro del suo telefono.

Un taxi giallo che sbuca dal nulla e ci carica, diretto non so dove.

File di grattacieli, semafori e parchi che si susseguono.

Poi sonno, e ancora sonno.

E alla fine, l’alba.

Quando riaprii gli occhi, ero sdraiato su una panchina di fianco al Rockfeller Center, con la giacca di pelle poggiata sopra e la bombetta riversata malamente sugli occhi, intorpidito dal freddo.

Di lei nessuna traccia.

Sparita.

Le prime luci del giorno schiarivano il silenzio dei semafori lampeggianti e dei barboni arrotolati nei cartoni.

Per fortuna era primavera inoltrata, altrimenti sarei morto assiderato.

“Brutta troia”, bofonchiai tra me e me tirando fuori il pacchetto di camel blue che avevo comprato da una vecchia portoghese a un crocevia del Bronx.

Quando lo aprii, vidi che tra le sigarette c’era un foglietto di carta ripiegato.

Lo spiegai e bestemmiai, sorridendo.

Diceva così:

“È stata una notte fantastica. Voglio rivederti. In fondo siamo sposati, no?! Trovami. Con amore, Lidia”

Fanculo, pensai accartocciandolo e scagliandolo via, non c’è neanche il numero.

Come cazzo la ritrovo?

E soprattutto, perché te ne sei andata, allora?

“Donne”, conclusi scuotendo la testa e accendendomi la beneamata camel, “Sono come il ghiaccio in un Long Island Ice Tea…Alla fine lo lasci nel bicchiere ma..non puoi comunque farne a meno..”

Ma mi resi conto da subito che quello non era il momento per risentimenti romantici.

Avevo la schiena a pezzi, e le natiche intorpidite.

Così raccattai la mia roba, infilai la giacca sulle spalle gelide e mossi i primi passi incerti verso la metro, diretto alla mia stamberga e..al mio materasso insanguinato….

 

 

J abitava a Coney.

I suoi genitori erano danesi, e si erano trasferiti lì quando aveva 8 anni.

Faceva l’operaio in un cantiere navale a Brooklyn, e aveva la faccia da crucco perennemente seria e scavata, con quegli occhi azzurri che si disfacevano ogni giorno sempre di più, sempre di più.

Mi chiamò che era quasi mezzogiorno, mentre soffocavo nella bava verdognola, con la bocca premuta contro la lana farinosa del cuscino.

“Zed, è sabato. Facciamo schifo stasera, che dici?”  mi aveva urlato tra il baccano assordante dei martelli pneumatici lungo la strada.

“Schifo. Assoluto” avevo biascicato cercando di aprire del tutto gli occhi, e anche di capire in che cazzo di pianeta mi trovassi.

Plutone?

Ganimede?

Alfa Centauri?

“Ma non stasera. Adesso!! Tra mezz’ora al Corona Park. Got it?”

“Yes”, sillabò lui teutonico come sempre, e attaccò.

Sorrisi, fiero della mia vita, mentre dilatavo le dita nude dei piedi tra 4 quintali d’immondizia, e una blatta grande come un wurstel mi sfiorò l’alluce.

Lanciai un’occhiata divertita al copricapo di penne d’aquila da Grande Capotribù Indiano che mi aveva regalato quel travestito truccatissimo con le giarrettiere, mentre tornavo a casa.

E ripensai alla voce angelica e perduta di J.

Eravamo due anime dannate cucite insieme.

Dio era un sarto..ma anche un pazzo.

Ed io ancora di più.

…..

Ci incontrammo quaranta minuti dopo sotto la vecchia quercia.

Ovviamente per colpa mia.

Ero in ritardo, come sempre, mentre J era già li.

Come sempre.

Appena mi vide arrivare ciondolante, con gli occhi appannati, la barbaccia ispida e il copricapo indiano, si fece una grassa risata , mi diede una pacca sulla spalla e gracchiò, accendendosi una pall mall rossa “Mi sa che tu una bella seratina l’hai fatta anche ieri, eh Zed boy?!”

“Lascia perdere, man” mugugnai stiracchiandomi come un gibbone, “andiamo a mangiare qualcosa che ti racconto…”

Così attraversammo tutto il parco e sbranammo un paio si hot dog sdraiati sull’erba umida, imbrattandoci di senape e succhiando patatine fritte, frittissime, quasi anfibie.

Gli raccontai tutto mentre sorseggiavamo due heineken in lattina, calde, e una mandria di buffoni pompati come paguri rincorreva un frisbee giallo bestemmiando in slang, a torso nudo, applauditi da decine di bambolone bionde in bikini.

Studenti di Harvard figli di papà, dicevano gli occhi di J, mentre ingoiava la birra bollente serrando le labbra, annuendo alle mie parole….

Alla fine, appena smisi di parlare, mi fulminò con l’esplosione delle sue iridi fatiscenti come un colpo di carabina.

Diretto, semplice e letale, come sempre.

“Allora so io cosa ti serve oggi, buddy” sghignazzò alzandosi in piedi e tendendomi la mano, “Una serata distruttiva in cui sei talmente allucinato da non ricordarti neanche di avercelo, l’uccello…nemmeno mentre lo strofini a una di quelle belle culone afroamericane  su nell’East Sides…Come la vedi fratello?!”

“Che cazzo stiamo aspettando?!” gracchiai meccanicamente saltando in piedi e prendendolo in braccio mentre ci rovesciavamo la birra addosso ridendo come due coglioni, “Vamos!!”

E iniziai a correre verso il ruscello Flushing, spaventando i germani reali che saltellavano via, col mio migliore amico derelitto in braccio,  intraprendendo una serata oscura, e costruendo, mattone per mattone, un epilogo ad absurdum…

Tre ore dopo eravamo li, sdraiati sui divanetti del Douggy’s , un locale ibrido tra una tavola calda e uno strip club, dove potevi ordinare un J&B anche alle 9 del mattino, nel cuore decadente e pulsante della Ash Ave.

Anche se io abitavo in fondo all’intestino crasso della Lower Manhattan e lui a Coney, ogni volta ci incontravamo su nel Queens.

Non so perché, ma ci piaceva da matti quel grande zoo di fenomeni da baraccone ed ergastolani piovuti da ogni parte del mondo.

Lì nessuno era americano, ispanico o greco.

Non eri ebreo, italiano o coreano.

Eri uno del Queens, e basta.

Passavamo spesso interi pomeriggi seduti sui marciapiedi, con una birra in mano, mentre puttane, spacciatori e artisti di strada vagavano per i vicoli fluttuando tra le note barocche di qualche orchestrina improvvisata in un angolo.

Tutti avevano sempre qualcosa da fare, su nel variopinto Queens.

Ma non era nulla di frenetico.

Si percepiva nell’aria la vibrazione lenta e nostalgica dell’America Latina che tutti gli esuli ispanici si portavano dietro come una maledizione.

Mentre tiravo una manciata di noccioline a un mimo impiastricciato di bianco che non ne voleva sapere di andarsene, vidi J che ispezionava un cubetto di ghiaccio contro luce.

C’era una desolazione senza tempo né limiti, nell’aria.

“Che ne dici man”, ringhiai facendo tintinnare e oscillare il mojito, mentre masticavo una foglia di menta, “vuotiamo questi e poi andiamo sulla Queens boulevard e ci ficchiamo in qualche bar dove magari non siamo gli unici sotto i 60 anni, e si rimedia un po’ di figa? Eh, che ne dici?”

Lui annuì, seguendo il culo a mandolino di una brasiliana da panico recintato dalle calze a rete, praticamente in perizoma e gambaletto.

“Direi di si”, disse lanciando un’occhiata dentro, dove a parte il vecchio spelacchiato messicano che serviva cicchetti a prezzi stracciati e vendeva sigarette peruviane di contrabbando sotto banco, c’erano in tutto una decina di vecchi latini che giocavano a briscola, e una baby gang di hawaiani prossimi all’obesità che grufolavano intorno al biliardo con voci da baritono, roteando vorticosamente le stecche…

“Dì un po”, aggiunsi girando i cubetti nel mio bicchiere col mignolo sudicio, “Hai mai pensato di essere un eroe?”

J mi guardò storto.

Iniziava ad essere piuttosto brillo.

Avevamo fatto fuori almeno una decina tra cocktail e whisky, per non parlare delle birre, e i suoi occhi iniziavano ad assumere la proverbiale sfumatura rossastra.

“Eroi?” sogghignò alla fine sbeffeggiandomi e accendendosi  l’ ennesima pall mall, “Ma chi? Noi? Stai scherzando, spero”

“Amico mio, se può farlo lui” ridacchiai indicando un negro gigantesco in mutande che correva scalzo sull’asfalto, quasi completamente nudo, con la maschera dell’uomo ragno, urlando “Jesus is comin’back!!” tra le risate e le vecchie che si prendevano un colpo brandendo lunghe baguette afflosciate.

“Potrei farlo anch’io..anche noi, voglio dire…E comunque c’è modo e modo di essere un eroe…Credo che quello che facciamo tutti i giorni, il nostro modo di vivere” aggiunsi sollevando il bicchiere in aria e massaggiandomi le penne d’aquila mentre due ragazze mi sorridevano divertite, “sia come minimo un riflesso del concetto epico di eroe…pensa ai grandi miti greci…”

Ma J non mi ascoltava più.

Le due biondine continuavano a ridacchiare e fissarci dall’altra parte della strada.

Erano appoggiate a un lampione, davanti a un caffè.

Faceva un caldo cane, e si sventolavano con una rivista.

Erano alte e muscolose.

Una delle due sfoggiava uno strano unicorno tatuato sul polpaccio.

“…e quindi io e te a nostro modo potremmo essere tranquillamente un Klark Kent o un Peter Parker, che nella luce soffusa dei lampioni, nel cuore della notte, si stracciano la camicia sul torace e in preda ai fumi alcolici più devastanti nella storia dell’umanità, devastano le città e si trombano tutto quello che gli capita a tiro..Ah Ah come la vedi man?”

“Però”, concesse lui staccando un attimo gli occhi dalle due ragazze, “Niente male quest’idea dei supereroi..ma senti un po’..” aggiunse sporgendosi dallo sgabello verso il mio divano, “Che ne dici se iniziamo a provare subito i nostri poteri?”

E indicò le ragazze, che stavano per andarsene, continuando a lanciarci occhiate languide di sbieco.

Non me lo feci ripetere.

Saltai in piedi e con quattro falcate da giaguaro le fui davanti.

Una delle due aveva due occhi enormi, verdissimi, e masticava un chewing gum rosa.

L’altra era più bassa ed esile, ma aveva dei canini da vampiro che mi accesero subito dentro il settimo canto dell’Inferno di Dante.

“Signorine”, attaccai con un sorriso che colava grasso,”Sono Mr Z, sciamano errante e purtroppo ultimo rappresentante di una stirpe quasi estinta di supereroi…Io e il mio nobile scudiero avremmo piacere di portarle in un posticino che nessun turista altrimenti vedrebbe mai…”

Loro sbottarono a ridere.

Poi la più bassa, la vampira, con un sorriso da squalo bianco mi puntò quegli occhiacci addosso, e sibilò “In effetti lei è mia cugina, e viene da San Diego ma..io sono nata e cresciuta qui..Cosa mai potrai mostrarmi che io non abbia già visto?”

Vidi J con la coda dell’occhio, che iniziava a muoversi verso di noi fischiettando,tra decine di passanti che fotografavano i barboni e i freak, mentre spiderman continuava il suo city loop, e una vecchia improvvisava un negozio di fianco a un chiosco di bibite, mettendo un cesto gigantesco di ciambelle sopra una cassetta di legno coperta di giornali, e iniziando a gridare “Doughnuts!!!”

Aspettai che J fosse del tutto vicino, e poi lo afferrai per il collo simulando una chiave articolata.

Lui divenne fucsia, ovvero a tinta unita.

“A vedere gli alligatori giganti, e dove sennò?!” sbraitai loro in faccia violentandole con la durezza dei miei occhi.

“Alligatori? Ma io non ho voglia di andare allo zoo..!” sbraitò annoiata la più alta, quella col chewing gum e i quadricipiti grandi come quelli di Kakà.

“Macchè zoo…queste sono due creature selvagge, leggendarie, mitologiche..un po’ come noi!” gongolai indicando noi due, “Se non le incontrate oggi, chissà se vi ricapiterà mai più..”

Lasciai cadere la mia proposta lì, priva di doppi sensi.

Loro si scambiarono un’occhiata divertita, ma soprattutto interessata.

Poi la bionda dai denti a sciabola tagliò ogni indugio, afferrandomi per un braccio e sussurrandomi voracemente un “andiamo a vedere i mostri…”, mentre J baciava la mano a sua cugina, della quale era alto all’incirca la metà, e sparivamo tutti insieme nella mischia afosa di quel tranquillo pomeriggio newyorkese, su nel Queens, mentre una parata per i diritti delle lesbiche in America riempiva la strada di colori fluorescenti e cornamuse e tamburi.

Ed erano solo le 4 del pomeriggio…..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mentre passeggiavamo come gabbiani increduli lungo il ponte di Brooklyn, iniziai a domandarmi che fine avessero fatto Sandro e Jersy, i due alligatori giganti.

Nel corso degli anni erano tante le leggende che avevo sentito intorno al loro conto.

Qualcuno diceva che da qualche negozio di animali esotici erano finiti nelle fogne, passando per i villoni hollywoodiani di qualche riccone di Manhattan, giù per lo scarico del bagno.

Altri, che erano semplicemente scappati da un circo, o al limite dallo zoo di Central Park, e anziché morire di fame, avevano scoperto una giungla sotterranea dove il cibo non sarebbe mai mancato.

Così , dicevano, si erano nutriti di ratti e cagnacci randagi per anni, bevendo liquami tossici e prevalendo sul proprio corredo genetico, tramutandosi in due dinosauri tossici, simbolo del malessere e della povertà generata dall’estremo lusso e viziosità di New York.

Ma io non ascoltavo le voci.

Perché li conoscevo bene.

Dodici anni prima, appena giunto nella grande mela, ero arrivato allo strenuo delle forze.

Morivo di fame.

Avevo tentato il tutto per tutto per riuscire ad arrivarci con le mie gambe prima di morire, e ce l’avevo fatta.

Attraversando tutti gli Stati Uniti senza un centesimo, sfamato da un barbone all’altro, chilometro per chilometro, da Città del Messico fino a lì, tra un trancio di tonno marcio e una coca cola putrida raccolta dal marciapiedi.

Saltando e vivendo sui treni merci per giorni lunghi come vite, spesso da solo, a volte invece con le decine di altre anime deteriorate senza più nome né storia, senza radici o identità.

Solo facce.

Facce sporche e ruvide, brutte, consumate dalla vita e dalle scelte.

Facce che puzzavano e cantavano storie senza più fascino, solo una incommensurabile tristezza che trapelava dagli aliti intrisi di vino da quattro soldi e i denti marci di tabacco da masticare.

Avevo annaspato, rubato e ringhiato come un sacco di pulci rognoso dalla California fino al Nevada, attraversando lo Utah e il Colorado, il Kansas, il Missouri, il Kentucky e l’Ohio, fino a giungere in Pennsylvania, e da lì, facendo l’autostop per giorni sulle strade imbiancate di neve, col pollice tumefatto dal freddo che sporgeva dai brandelli dei guanti di lana, ero arrivato a New York.

Mentre camminavo sul ponte e Gill, la bionda dai canini affilati, mi raccontava dei giochini erotici che lei e sua cugina facevano da bambine con un vicino di casa autistico di qualche anno più grande, sotto la scivolo in giardino, guardavo in basso, oltre i miei piedi e le sbarre di metallo.

Era proprio lì sotto che li avevo visti per la prima volta, dodici anni fa.

Perché era li che passai le prime settimane,a New York.

Vicino alle fondamenta del ponte di Brooklyn, nel pontile del molo per traghetti di Fulton.

E non ero il solo, in realtà.

Una notte, mentre me ne stavo accovacciato dentro un’enorme cassone vuoto che puzzava ancora di pesce essiccato e aveva il timbro dell’Alaska sul fianco, tra un rantolo e uno starnuto nella mia lurida coperta di lana, sentii dei grugniti strani provenire da qualche metro più in là.

Dall’acqua.

Così avevo ficcato la testa fuori, nell’oscurità ghiacciata degli ultimi giorni di Dicembre, nella notte nera macchiata dai pois bianchi dei fiocchi di neve silenziosi, moribondi, che cadevano dal cielo come forfora degli dei.

E non avevo creduto ai miei occhi.

C’era un dinosauro immerso per metà nel cassonetto dell’immondizia giallo.

Grufolava sommessamente, mentre annaspava con la testa tra i sacchi di pattume umido e gocciolante, sgusciando come un verme.

Poco dopo sentii dei versi simili provenire dal pontile, e vidi un mostro identico che usciva dall’acqua e si arrampicava pigramente su per la banchina, bofonchiando come un sassofonista ubriaco.

Si fermò per un attimo sul molo, sotto l’occhio di bue bianco di un lampione esile e gobbo, mentre la neve continuava a cadere imperterrita, accarezzandogli le squame.

Rimase così per qualche secondo, fissando i battelli ormeggiati pochi metri più in la, dopodiché iniziò a zampettare sul sottile strato di ghiaccio della banchina e si diresse verso le rimesse, affondando il muso enorme e seghettato tra i resti insanguinati di un delfino rimasto impigliato tra le reti.

Solo in quel momento mi ero reso conto, spostando gli occhi dal pontile al cassonetto, ripetutamente, che c’erano due mostri che vivevano sotto il ponte di Brooklyn.

Erano due coccodrilli.

Due alligatori giganti.

“ma mi stai ascoltando o no?” grugnì la bionda accigliata sporgendo i canini.

“Si, certo” sbuffai come niente fosse ficcandomi una sigaretta in bocca,mentre lei mi lanciava occhiate acide.

Il ponte era sommerso di teste.

Teste di ciclisti, runners e migliaia di indiani e cinesi che facevano le solite foto ricordo, e i soliti video inutili.

Intravidi J sbronzo, una decina di metri più indietro, coperto da due ciccione tedesche che ridevano e urlavano con un ventaglio in mano, mentre la biondina con l’unicorno sudava come un iceberg a Nairobi, fingendo interesse.

Solo in quel momento mi resi conto che avevo voglia di qualcosa di nuovo.

Farmela e basta, sarebbe stato troppo semplice,

Avrei voluto vedere esplodere un arcobaleno di sensazioni effimere nei suoi occhi.

Metterla di fronte allo scheletro assurdo della realtà oltre la pelle e il conformismo, e vedere come avrebbe reagito.

Dopo la notte precedente, scoparmi la prima troietta che mi fosse capitata sotto le unghie, sarebbe stato come andare in overdose di zucchero filato dopo aver vissuto 10 anni a Bogotà.

E mi ricordai di Giasone.

“Ehi J!”, sbraitai agitando le braccia tra la folla sotto il sole cocente,  andiamo a farci un 6 buche a Chamber Street da Andy?”

J fece spallucce, arrancando e sudando birra, aggrappandosi alla bionda, mentre io afferrai la tigre dai denti a sciabola e, mentre iniziava ad elencare le doglianze con voce stridula, la baciai con una presa ferrea, immobilizzandola contro la ringhiera del ponte, con tutte le piume del mio copricapo che dondolavano al passaggio di un traghetto ,la sotto….

La bionda mi strinse il collo sfiorandomi con la punta delle dita, e appena mi staccai vidi che l’arroganza era sparita dai suoi occhi.

Sorrideva, ed era felice.

Alle sue spalle Lower Manhattan si ergeva stiracchiandosi come un gigante anchilosato, di mattoni, pietra e acciaio, che si rialzava a fatica dopo una dormita di 5 secoli.

C’era un sole meraviglioso, quel pomeriggio di tanti anni fa, a New York, e il cielo qualche ora dopo si sarebbe riempito di stelle.

Una notte perfetta per morire.

Le accarezzai la guancia e, mentre J e la spilungona ci affiancavano sorridendo compiacenti, dissi loro che saremmo andati da Andy a farci un paio di pinte e un biliardo solo perché era troppo caldo, e li c’erano decine di ventilatori.

E di tavoli verdi, of course.

Poi, una volta li, saremmo già stati nel cuore pulsante di Manhattan, e di cose da fare ce ne sarebbero state tante…

“E poi, stanotte, sotto la luce della luna piena” conclusi il mio sermone mordendole il collo e lasciando che le sue grida stridule spaventassero due coreani mezzo metro più in là, “Andiamo giù al porto a vedere i mostri!!”

E, strizzando l’occhio a J, le sollevammo entrambe di peso sulle spalle, mentre le biondine ridacchiavano tenendosi i vestiti striminziti con le mani, e coppie sparute di podisti seminudi ci sorridevano alzando il pollice in segno di vittoria, mentre due ciminiere rosse e fuligginose spuntavano tra i tetti della case e ci abbracciavano col manto incorporeo della loro ombra fresca….

…..

Mentre schiaffavo la 5 in buca ad angolo con un tiro da manuale, e il fumo della mia camel appoggiata nel posacenere sullo spigolo si perdeva nello stanzone verdognolo schiaffeggiato dal ventilatore, vidi gli occhi di J che brillavano più del solito.

Era seduto su uno sgabello alto, di metallo, con Emma, la bionda dell’unicorno, che gli si era seduta sopra e gli stava sfregando il culo sulle parti ignobili.

In quattro sorsi aveva vuotato una pinta da mezzo litro, lasciando il bicchiere appannato con la schiuma che scivolava giù per il bordo, poggiato sul bancone del bar.

Il barista era un bestione pelato con una sirena tatuata sull’avambraccio, che parlava in continuazione con una voce da baritono e un forte accento texano.

Mentre J limonava con Emma, che sul più bello aveva buttato a terra la stecca e si era immersa in attività riproduttive, mi resi conto che non sarebbe stato facile per me assentarmi i 5 minuti necessari a ….quello.

C’era una mano birichina che mi stuzzicava i pantaloni, e non era di certo mia.

Mentre me ne stavo piegato sul panno verde, Gill mi tolse la corona di piume dal capo e se la indossò, accarezzandosi il volto con le penne d’aquila.

Io avevo ben altro per la testa in quel momento, ma dovevo rimanere lucido.

Così, dopo l’ennesimo pizzicotto sul culo, mandai affanculo la partita come tutti gli altri, la presi per mano e la portai nel bagno dei disabili.

Alias un antro spigoloso dalle pareti incartapecorite e coperte di scritte, con una lampadina che penzolava dal soffitto emettendo una fioca luce rossa.

E lì mi resi improvvisamente conto, come uscito di punto in bianco dal più profondo dei torpori, che non era stata per niente una brutta idea quella di portarci dietro quelle due sgallettate per animare la serata.

La vampira era uno schianto.

Ma soprattutto, un’atleta del sesso da asporto.

Non feci in tempo a chiudere a chiave la porta del cesso che si era già tolta il vestito e si stava slacciando il reggiseno.

Dio benedica l’America, e le sue innumerevoli figlie, mele cadute dall’albero puritano dei padri pellegrini.

Indossava un reggiseno e un paio di mutandine di pizzo nero.

Si tolse il pezzo superiore con la scioltezza di una ginnasta, nella penombra, mentre il Troll che indossava le mie spoglie mortali come un logoro trance di pelle scaraventò via la maschera e la agguantò per i capelli ramati sotto quella lampadina rossastra, dopodiché le incastrai la testa dentro lo sciacquone e diedi sfogo alla mia libido più perversa, mentre sentivo la forza di una locomotiva pervadermi il bacino.

Mentre spingevo con le unghie piantate nei suoi fianchi digrignando i denti, dominandola da dietro senza averle neanche sfilato del tutto le mutandine, guardavo l’orologio, e sapevo di essere in ritardo…

Ma lei era così dannatamente selvatica, cazzo!

Nella penombra, mentre emetteva un verso misto tra il gracidare di una rana e l’ululato di un coyote, intravidi che aveva un piccolo elfo blu tatuato sopra il coccige.

Dopo una sequela di spergiuri degni del peggiore film splatter, anche se avrei voluto chiederle se con quella bocca ci baciava ancora sua madre, una mezz’ora dopo uscimmo ridacchiando da quel tugurio sotterraneo semibuio, mano nella mano.

J ed Emma erano più ubriachi che mai.

Si erano fatti un altro paio di whisky, e ora si rotolavano sul tavolo da biliardo ficcandosi le mani un po’ ovunque, mentre il barista gigantesco tentava di buttarli fuori, ringhiando come un leone.

Infatti 30 secondi dopo eravamo in strada, con una sbornia colossale e un calcio nel culo di sola andata.

Dissi loro di aspettarmi 10 minuti al City Hall Park.

C’era un chiosco che vendeva birre gelate, e non si sarebbero annoiati.

Corsi via lasciando il copricapo da guerriero a Gill, che mi fulminò coi suoi occhioni da velociraptor mentre sparivo lungo la discesa alberata tra una mandria di giocatori di football in uniforme gialloverde che sbucavano dalla New York University, e

sbracciando e sorridendo gridavo “Tranquilla bella! Torno subito!”

Due minuti dopo ero sugli scalini dell’epico palazzo del municipio, scolpito tra gradinate antiche come il partenone a Wall Street e con una concentrazione tale di cops dal cipiglio severo farciti di fascismo e autoerotismo da rendere a confronto Nassiriya tranquilla come Paperopoli.

Accesi una camel col mio antico zippo di bronzo scheggiato con intarsiato il faccione nerboruto di un maori, che mi aveva regalato un vecchio barbone con l’alopecia universale tanti anni prima, a Christchurch.

Stavo per mandargli un messaggio col mio motorola maggiorenne dai malinconici cristalli rotti, quando il display si illuminò.

Era lui.

Il suo sms diceva “Fra 5 minuti ai bagni pubblici”.

Il sole ruotò di qualche grado, lasciando la scalinata bianca del municipio in una penombra gelida.

Indossai la giacca di pelle, mentre una folata di vento improvviso mi appiccicò i capelli crespi alla fronte.

Per un attimo fui spinto ad alzare il bavero.

Poi, mentre attraversavo la strada saltellando e svanivo sotto la chioma degli alberi, fui di nuovo benedetto dal sorriso del grande sole giallo americano.

In due minuti arrivai ai cessi pubblici, coi quadricipiti che mi esplodevano nei bisunti levis strauss di terza mano, pagati 2,80 $ al Salvation Army di Harlem.

Entrai, e mi ritrovai di fronte a una di quelle situazioni che possono succedere solo a New York.

C’era uno stanzone bianco, immacolato, con una dozzina di water in fila, uno di fianco all’altro.

E fin qui.

Il fatto è che tra un cesso e l’altro non c’erano separé, né pareti, o tanto meno una tendina sudicia.

Era semplicemente una camerata piena di balordi seduti fianco a fianco,che leggevano il giornale e cagavano allegramente tutti insieme.

That’s it.

Aspettai appoggiato alla parete, mentre una scarica di peti festosi allettava i miei pensieri, che scappavano spaventati come falene bluastre durante un’eclissi anulare, dopodiché, mentre ancora scuotevo la testa incredulo, lo vidi.

Nell’ultimo water in fondo, da dietro una montagna umana con gli occhialini e la chierica, vidi sbucare un tipo strano.

Era una faccia conosciuta.

Era alto, robusto, con una barbaccia rossiccia incolta, una giacca di pelle consunta, i rayban e una bombetta nera calata sugli occhi.

Cazzo, ero io!

Come avevo fatto a non pensarci prima?

Si avvicinò al grande specchio alla parete, come niente fosse.

Sciacquò le mani nel lavandino con una cascata di sapone rosa, schiumoso, che sollevò un nugolìo di bolle, dopodiché fece ruggire un po’ l’asciugatrice, tendendo le mani in aria come se invocasse lo Spirito Santo.

Quando si voltò per andarsene, fece un segno impercettibile col cappello.

Seguimi, dicevano i suoi occhi.

Io uscì dalla porta sul retro, feci il giro del casotto di cemento giallo e mi scontrai con me stesso.

Bestemmiammo all’unisono.

“Allora Giasone”, gli dissi stringendogli la mano lurida con forza, “Sei sicuro di volerlo fare?”

“Che cazzo di domanda è, brother?! Certo che lo voglio fare, per Dio! Altrimenti perché mi sarei vestito così? Eh? Pensi che mi diverta? Ho pur sempre una dignità!”

E sbottammo entrambi a ridacchiare come due goblin sotto acido, mentre una dog-sitter con una decina di Labrador e pincher al guinzaglio ci passò di fianco sgranando gli occhi, e girando ripetutamente la testa, convinta di vederci doppio…

“Vieni amico mio, che adesso io e te dobbiamo organizzare lo spettacolo…Sarai meglio di Shakespear stasera lo sai?”

“Certo..” sbuffò lui tronfio, “Ovvio..io sono un attore nato man…sono stato Amleto, Cesare, Napoleone…Ma ammetto che è essere te è..divertente..”

Gli passai una camel spiegazzata, mentre si toglieva gli occhiali, e vedevo la desolazione nelle sue pupille.

Sprazzi rossastri di sangue rattrappito gli pulsavano negli occhi, e un miliardo di piccole rughe sembravano in procinto di inghiottirgli le palpebre come un esercito di cicatrici affamate.

“Andiamo a farci un whisky”, concessi prendendolo per la spalla e iniziando a camminare per il parco”te lo devo..e poi abbiamo tante cose di cui parlare…Dai, offro io..”

“Come minimo” sghignazzò lui calzandosi di nuovo i rayban sul naso, mentre strisciavamo stancamente i piedi sull’erba, e due aquiloni azzurri ci volteggiavano sopra, inseguiti da un paio di ragazzini rossicci che gli correvano dietro attaccati al filo fragile e invisibile della speranza…

…..

Raggiunsi gli altri che erano quasi le otto.

Li trovai esattamente dove gli avevo detto, e come speravo che fossero.

Riversi sulle panchine del City Hall, talmente ubriachi da non riuscire neanche a parlare.

J era sempre il solito.

Aveva una bavetta bianca ai lati della bocca, e gli occhi avevano oramai assunto una sfumatura compresa tra l’indaco e il Terra di Siena Bruciata.

Era stravaccato su una sedia di vimini bianca e blu, e mentre con una mano teneva una bud che sembrava pesargli una tonnellata dalla fatica che faceva, con l’altra cercava il punto G della bionda con quello strano cavallo tatuato sul polpaccio, mentre gli russava a bocca aperta in faccia, riversata sulle sue ginocchia…

L’altra era uno schianto.

Ubriachissima anche lei, d’accordo, ma più che altro incazzata.

Appena mi vide si alzò dalla panca barcollando e appoggiandosi a un frassino, iniziando a volteggiare la mano per aria, gridando “Sei uno stronzo!! Sono due ore che ti aspetto! Sei un pezzo di..”

Bum.

E stramazzò al suolo.

Mentre la raccoglievo infilando le dita nel più sacro dei suoi orifizi, mi sussurrò placidamente “Sei una merda….Ma mi piacciono da morire i barboni come te.. i cani randagi senza futuro..”

“Si si, come no” tagliai corto ipnotizzato dal suo alito.

Merda, sapeva di rum, birra, vodka e un’altra decina di distillati sconosciuti.

Con una fatica indicibile li convinsi a tornare verso Brooklyn.

Avremmo mangiato qualche schifezza per strada e, se fossimo stati fortunati, lungo il porto desertico verso mezzanotte avremmo avuto anche la possibilità di vedere gli alligatori giganti.

Davanti a quella proposta, nessuno osò dire di no.

Mentre scendevamo giù per la subway, ed Emma scivolava sul primo gradino sbeccato e rotolava fino al pianerottolo slogandosi una caviglia tra le risate generali di un esercito di barboni, sussurrai a J una cosa nell’orecchio, facendo in modo che la bionda non sentisse.

Qualunque cosa succeda, devi venire al mio funerale. Ci tengo. Ci vediamo lì.

Lui ridacchiò qualcosa, ma poi, mentre Emma si rialzava tutta spettinata maledicendo il cielo, J fu rapito da un jazz sporco, bagnato, rapinatore di banche.

C’erano quattro scheletri mulatti in giacca e cravatta nera che ci davano dentro come scarne divinità della notte.

Una tromba, un sax, una batteria e un contrabbasso.

C’erano almeno una cinquantina di persone intorno, che li ascoltavano ammaliati come dal canto delle sirene.

Le loro note disilluse e sporche riecheggiavano basse e sparute tra le grate arrugginite della metro, scivolando come topi tra i piedi delle migliaia di passanti,insinuandosi tra le porte scorrevoli del treno e infiltrandosi nel subconscio dei passeggeri, con messaggi subliminali che permeavano il cerume stantio.

Il negro tisico al contrabbasso ogni tanto improvvisava delle rime blues contorte, fastidiose, che calzavano a pennello con quella confusa etilica e maledetta notte New Yorkese.

I saw a god,

‘as dribblin’ a lot,

like a cloud ‘thout a spot,

he was fucked, he was fucked….

Da tutte le parti piovevano cascate di monetine che rimbalzavano nell’enorme custodia del contrabbasso.

J gli lasciò 10 dollari per la stima, e loro, quasi commossi, gli regalarono un cd con la demo delle prime tre canzoni che avevano inciso.

Si chiamavano Rag doll trio e venivano da New Orleans.

Salutammo i ragazzi con un centinaio di strette di mano, e mentre salivamo sul treno, e loro tre svenivano di nuovo, mi chiedevo se i loro cuori avrebbero retto.

Stavo per mostrargli cosa significava per me volare oltre il filo spinato, saltare la staccionata.

Tirare delle caccole in faccia a Dio, usando una penna concava come cerbottana.

Prendemmo la linea F fino a East Broadway,dopodiché ci fermammo in una catapecchia di vietnamiti sfregiati che facevano dei noodles di riso al di sopra della media.

Avevano anche un’ottima birra fatta in casa, e mentre ce ne stavamo accovacciati sugli sgabelli di plastica, tra le lamiere, le stelle, due bionde troppo ubriache per rendersi conto di quanto fossero belle, e ratti grigi che scorrazzavano tra le crepe dell’asfalto, mezzo metro più in là, J iniziò a raccontare barzellette sconce.

In danese.

Dopo 4 secondi Gil vomitò, mentre l’altra continuava russare.

Ci voleva una svolta.

Il vecchio titolare di Ho-Chi-Min City, Mr Hyan, con gli occhiali spessi come un binocolo e un riporto terrificante, comparve da dietro le tendine arancioni con una bomba vera e propria.

Una bottiglia di whisky di Cobra fatta in casa.

Io e J iniziammo a scolarne uno dietro l’altro, ma dentro la bottiglia, immerso nel liquido trasparente e i rametti di rosmarino il cobra sotto spirito c’era davvero, e le ragazze vomitavano solo alla sua vista.

Così si fecero portare una mezza bottiglia di gin, e lo bevvero tutto finché non videro il fondo.

A quel punto pensai fosse il momento opportuno.

Lasciammo una decina di dollari accartocciati sui tavolini dozzinali e camminammo per una ventina di minuti fino al porto 18, con le ragazze che a stento si reggevano in piedi.

Appena scesi lungo la banchina, una strana nebbia densa come letame calò sull’acqua.

Era come se il cosmo volesse camuffarsi e divertirsi un po’, prima di saltare fuori da dietro l’angolo e terrorizzarci a morte, rivelando le sue mostruose sembianze.

J ed Emma si sdraiarono davanti un muletto giallo, e iniziarono a baciarsi stancamente nelle tenebre fosche, con le lingue che basculavano nell’oscurità.

Un paio di gabbiani volteggiavano nella notte, e oltre il muro di nebbia, le luci stellari di Brooklyn facevano a gara con gli astri appiccicati lassù, nell’antica volta della via lattea.

Gill si era improvvisamente svagliata.

Quella tensione la eccitava.

“Quand’è che arriva il mostro, Zed?” sibilava leccandomi un orecchio, “e perché non ti togli quei cazzo di rayban? Dai, è notte..fammi vedere quegli occhiacci blu..”

Io avrei voluto dirle tante cose, urlare, prenderla a schiaffi e darle della stupida ma..che importava, oramai?

Guardai l’orologio: mezzanotte e un quarto.

Il canale di scolo presto si sarebbe riempito.

Era questione di secondi.

Come se l’intero Universo mi stesse ascoltando, udì dei brontolii provenire dall’acqua.

“Che cos’è?” chiese candidamente Emma.

J non le rispose.

Ebbe il terrore matematico di aver capito.

Gill si sporse dal molo, sbirciando nelle acque scure, torbide.

Niente, non si vedeva un cazzo, con quella nebbia poi….

Poi davanti ai suoi occhi accadde qualcosa di strano.

Sotto il pelo della schiuma oleosa formata dai tubi di scarico dei pescherecci, accadde qualcosa.

Una strana macchia verdognola, quasi grigia, iniziò ad emergere, e quindi a crescere, sempre di più sempre di più, sempre di….

“Oddio!!!!”

Gill fece uno scatto indietro e iniziò a correre verso le scale che riportavano sulla strada, mentre J ed Emma erano rimasti immobili, completamente sbiancati.

Un alligatore gigantesco, alto un paio di metri e lungo almeno 12, stava uscendo dalle acque limacciose del porto come niente fosse, sbiascicando con le mandibole macchiate di grasso.

Mosse qualche passo incerto sul molo nel silenzio generale.

Io rimasi impassibile, a tre metri da lui, mentre tiravo fuori l’accendino e mi godevo in santa pace l’ultima camel light della mia vita.

O almeno, di quella vita.

Jersy neanche mi notò.

Trotterellò per il molo per un minuto scarso, annaspò tra i rifiuti alla ricerca di qualche avanzo di lasagna o fettuccine dei ristoranti, o al limite di un gattaccio in calore, poi saltellò sul molo facendo scricchiolare le assi di legno del pontile e, come niente fosse si tuffò di nuovo nella schiuma biancastra del porto, mentre alle sue spalle la musica di non so quale Night Club di Brooklyn  riempiva il cielo con la voce asettica di Lady Gaga.

Guardai Gill che saltava da una parte all’altra della banchina quasi senza toccare i piedi per terra, gridando “Merda!! Esiste davvero!! Esiste davvero!!”, ed Emma, che continuava a vomitare, mentre J le teneva amorevolmente la testa.

Quella botta d’adrenalina aveva fatto passare la sbornia a tutti.

Peccato.

I fumi alcolici avrebbero fatto comodo, a questo punto.

Guardai il mio migliore amico negli occhi.

Mi tolsi i rayban,e mentre mi specchiavo nella decadenza viola delle sue pupille, lui intravide il riflesso castano delle mie.

Ma non ebbe importanza.

“La vita è l’unica puttana per la quale potrei pagare!”, ululai sorridendo ai 4 angoli del mondo, alzando le mani al cielo, mentre loro mi guardavano esterrefatti.

Guardai New York e Manhattan, il suo cuore luminoso poco più in là, pulsare in preda alla consueta tachicardia del week end.

Addio grande mela, mi mancherai.

Poi tirai fuori la vecchia colt arrugginita che avevo comprato dal rigattiere, me la infilai in bocca e premetti il grilletto.

Buio.

Mentre la testa esplodeva come un gavettone di farina, e schizzi violacei della mia anima sinaptica iniziavano la loro odissea nell’etere, il mio corpo precipitò giù dal molo, e allora  J e le due puttane che vomitavano gin e noodle continuando ad urlare, videro due alligatori giganti che saltarono fuori dalle acque putride e iniziarono a mordersi e azzannarsi l’un l’altro per quel pezzo di carne tumefatta…

E nel frattempo, New York continuava a guardare, impassibile, come la più professionale delle luminose e professionali maitresse di fronte allo stupro dell’ultima delle sue ragazze da quattro soldi….

….

Da quelle parti, il funerale è una cosa informale.

Soprattutto quando il trapassato è un barbone senza identità, storia e famiglia, e il suo corpo è finito in fondo all’east River dilaniato da due “Alligatori Giganti”, come dicono quei tre tossici strafatti che sono tuttora convinti di aver assistito a tutto ciò.

La stanza era un salone di legno che dava direttamente sulla freeway, aperto 24 ore, a Vinegar Hill.

Era vuota.

A parte una decina di sedie macchiate e scomode, c’erano due piante di plastica che davano un tocco all’ambiente in situazioni come quella, quando non si presentava nessuno, e poi una bara chiusa.

E vuota, ovviamente.

Non c’era stato un cazzo da seppellire.

La bara era stata pagata da una certa Gill Dooper, e sopra di essa, oltre a una foto in bianco e nero del giovane che purtroppo era finito tra le fauci del destino prima del dovuto, c’era una bombetta nera.

Mentre aspettavo in silenzio che accadesse quella cosa per la quale avevo sfidato il cosmo, pensai che, in fondo , forse il Karma avrebbe capito.

Giasone aveva avuto bisogno di me, e io di lui.

Una volta gli avevo salvato la vita, prendendo a sassate quei quattro bastardi strafatti di crac e coperti di catenacci d’oro.

Mi sarebbe stato eternamente riconoscente.

Ma i malori, le analisi, la malattia.

Spese insostenibili per chiunque, figuriamoci per un barbone che ha perso la casa nel 1987, e da  allora vive sotto il ponte di Brooklyn.

Aveva tentato il suicidio decine di volte, invano.

Ora la malattia gli aveva annientato anche l’udito e il 90 per cento della vista.

Mi disse che l’unico momento in cui si era sentito libero, negli ultimi 25 anni, era stato quando, insieme a me, avevamo dato da mangiare a Jersy e Sandro, una notte d’estate in un’altra vita, gettando salmone fresco e patate dal molo, mentre i due bestioni saltavano fuori dall’acqua stando in equilibrio sulla coda come foche monache.

E così aveva deciso che, in loro presenza, sarebbe riuscito a farlo.

Era stato un professore di filosofia indiana, in una galassia lontana lontana.

Era tuttora convinto che quei lucertoloni giocherelloni fossero nati nel Gange,e che probabilmente fossero le reincarnazioni di Rama e Krishna.

Aveva voluto che si cibassero della luce racchiusa nella sua anima.

Anche perché del corpo c’era rimasto ben poco, oramai…

Travestimento e somiglianza a parte, Giasone era rimasto un sacco di ossa corrose dal cancro, e alla fine avevamo rispettato il suo volere.

Ora galleggiava nel cosmo, nello stomaco di due creature mitologiche.

Magari avevano anche una costellazione, chissà…

Mi feci il segno della croce davanti alla mia foto spiegazzata e sfocata, sussurrando un “Riposa in pace, vecchio pazzo vagabondo”, mentre con un cigolio secco la porta si aprì.

Io rimasi nell’ombra, dietro una corona di garofani appassiti e spiegazzati, marci, mentre la lampada asettica al neon ogni tanto ronzava un po’ troppo, perdendo tono e lasciando che delle scie scure ammiccassero in quel posto sacro, baciato dal silenzio.

Una ragazza dai lunghi capelli rossi entrò in punta di piedi, quasi per non disturbare.

Quasi come se si sentisse in colpa.

Si fece il segno della croce, mosse qualche passo incerto fino alla bara, e ci poggiò la mano sopra.

Poi, appena guardò il ragazzo grigio nei suoi grandi occhi scatenati e randagi, iniziò a piangere come una forsennata, con le braccia e la testa piegate sul feretro.

Mentre mi avvicinavo a passi felpati, capii che J probabilmente aveva fatto mettere un necrologio, da qualche parte.

Eravamo talmente a picco sulla strada che si sentiva la musica heavy metal del gommista all’angolo ,e i singhiozzi di Lidia erano continuamente intervallati dai colpi di clacson e i latrati dei cani.

Finalmente c’ero riuscito.

Ero morto.

Ero riuscito ad annientare quel poco che, burocraticamente parlando, restava di me nel mondo.

Ora ero sparito del tutto.

Un fantasma.

Un diavolo errante.

Un barbone felice.

E libero, libero come il vento.

Non avevo più obblighi, né moralità dettate dalle leggi di qualche bacata testa coronata.

È incredibile quello che puoi fare quando non sei più costretto a guardarti allo specchio….

Avrei potuto continuare a danzare nella notte, nei depositi di macchine da demolire.

Avrei potuto passare le serate a rubare frutta ai quattro cinesi dislessici di Chinatown, e lanciare patate e salmone essiccato a Sandro e Jersy.

Non c’erano limiti.

Deserto, montagna e giungla.

Presto sarei arrivato in Groenlandia.

A costo di attraversare tutto il Canada a piedi.

E l’avrei fatto, potete giurarci.

C’erano rimaste solo un paio di cose da fare.

Posai le mani sopra i suoi occhi umidi.

Il suo viso fu percorso da uno scatto febbrile, ma alla fine rimase immobile, senza voltarsi.

Restammo in silenzio una decina di secondi, mentre nella camera ardente risuonava solo l’eco soffusa dei nostri respiri.

Poi lei posò le sue mani sulle mie, respirando col naso, se le abbassò sulle guance e, aprendo gli occhi, le guardò.

“Lo sapevo..figlio di puttana.” Sibilò gelida e sbigottita, mentre uno tsunami di lacrime le precipitava giù dagli occhi, grondandomi sul palmo delle mani.

“Figlio di puttanaaa!!!” gridò voltandosi e saltandomi al collo, mentre mi rendevo conto che il mio corpo stava sprigionando un calore che non avevo mai avvertito neanche all’equatore.

“Buongiorno principessa!!” gracchiai mordendole le labbra con un bacio famelico, passionale e indispensabile.

Lei mi guardò nel profondo degli occhi, per un attimo, ma in realtà stava guardando oltre, molto, molto più lontano.

Poi il suo viso si dilatò in un sorriso maestoso e, dandomi un pugno fortissimo sullo sterno e infilandomi le nocche nella carne, mi accarezzò con forza e, stavolta sussurrando, mentre non riuscivamo a smettere di abbracciarci, con una dolcezza alla quale non ero abituato mi sussurrò “Perché l’hai fatto? Stavo impazzendo…”

Ci pensai su un attimo.

La libertà, la vita, la necessità di sparire e fondermi con l’universo, la via dello spaventapasseri errante…

“Perché era il solo modo di rivederti”, cincischiai facendo spallucce e alzando le mani al cielo, come per abbracciare l’intero porco mondo, “E se fosse stato necessario morire..beh, perché no? D’altronde cazzo, siamo sposati, giusto?!!”

Lei esplose in una risata elfica, sfavillante, bellissima.

I capelli rossi le dondolavano intorno alla nuca come raggi di sole azteco nelle incisioni maya.

Aveva un maglioncino verde che le faceva risaltare gli occhi in maniera oscena, e quei pantaloni di pelle nera che…

“Andiamo”, le dissi prendendola per mano, “abbiamo da fare, io e te..”

“Che cosa, pazzo furioso?” sbottò lei con un sorriso che le univa le orecchie, e sembrava non finire mai.

“Vivere. Sulla strada. Insieme. E quel che succede, succede”.

Lei mi saltò di nuovo al collo, e fu un bacio elettrico, spaventoso.

Rock allo stato puro, come non si vedeva più dai tempi di Jim Morrison.

Così, mentre le cingevo la vita, aprii la porta e mi trovai davanti J, con un ghigno da squalo bianco e la fedelissima pall mall rossa che gli pencolava dalle labbra.

Rimasi spiazzato.

Quella faccia voleva dire solo una cosa: aveva capito tutto sin dall’inizio.

“Niente da fare Zed-Boy”, sghignazzò scuotendo la testa,”Non basta morire per liberarsi di me…e poi da quando cazzo ce li hai, tu, gli occhi castani, eh??! Fanculo tu e i tuoi sosia di merda!! Ah ah ah!!”

“Hai ragione bello”, biascicai abbracciando quel fratello mancato come se avessi appena ritrovato i miei polmoni, e fino ad allora avessi respirato a fatica con le branchie, “prometto che non lo faccio più..O al limite spariremo insieme..”

E così da una parte, afferrai la mia pantera rossa per i fianchi, dall’altra abbracciai J e poi, mentre il sole arancione si sdraiava lungo le infinite highways americane come una leonessa pronta per la battuta di caccia notturna, iniziammo a scendere lungo la York Street, diretti alla stazione della metro e..al nostro appuntamento col destino.

Qualunque esso fosse…