CON IL NASTRO ROSSO

(favoletta romantica)

C’era una bimba, che amava sedersi in terra, incrociava le gambe e davanti a una libreria se ne stava per ore.
Non c’era poltrona,sedia, divano o trono che la attirassero, il suo luogo del benessere era la terra.
La mamma le cucì una gonna lunga e un po’ folk, aveva l’elastico in vita e gliela faceva indossare sopra gli indumenti, in modo tale che il freddo pavimento non la scalfisse nelle sue lunghe, terree sedute.
Starsene lì aveva il sapore della libertà per lei .
Crescendo continuò a mantenere questa abitudine tutte le volte che poteva.
Poi incontrò un uomo che le offrì un trono e lei lo scambiò per serenità e sicurezza.
Smise di sedere per terra, “non stava bene”, non si poteva più, appena poteva, però cedeva al suo vizio segreto e con una scusa qualsiasi trovava il modo di incrociare le gambe e accovacciarsi.
Il principe la redarguiva e lei si rialzava ubbidiente.
Passarono i giorni, passarono gli anni e lei non poté più resistere al divieto, prese le sue cose e andò a sedersi con un nastro rosso nella piazza principale del suo regno.
Narra la leggenda che se vuoi vederla devi guardare in basso, la troverai giù seduta in una strada, su un prato, in spiaggia.
I suoi occhi saranno sereni e sicuri, da quelli capirai che è lei, la bimba che vola standosene in terra.


IL BAGNO TURCO

Sono in vacanza in una località balneare della Turchia, è agosto fa caldo, dopo una mezza giornata di mare io e il mio compagno di viaggio decidiamo di concederci un po’ di tempo nell’hammam del paesino, dove oggi, con il bus locale, chiamato dolmus, ci siamo avventurati.

Il mio pedante, prepotente, arrogante accompagnatore vorrebbe scegliere un luogo elegante e patinato, stile spot per turisti da villaggio vacanze, io e il mio solito spirito contraddittorio insistiamo per cercare il bagno turco del luogo: “ siamo in Turchia e si fanno le cose turche”, mi sento uscire dalle labbra.

Dopo poco ci imbattiamo nell’hammam locale.

Entriamo, tutto sembra gradevole e dignitoso, ci informano che per pochi soldi possiamo fare il trattamento completo: sauna, bagno turco, bagno di sapone, scrub e massaggio con olio.
“Evviva” urla il mio ego, sono orgogliosa di me!

Una volta pagato, veniamo separati, uomini con uomini, donne con donne. La cosa non mi dispiace, mi piace star sola.
Qui comincia, comunque la mia avventura.

Mi assegnano uno spogliatoio e mi consegnano un paio di ciabatte di plastica, che nemmeno mia nonna nei momenti di solitudine senile avrebbe indossato.

Con il costume da bagno scendo delle scale buie in marmo, che mi portano in un ambiente fatto di varie stanze. Tutto, non solo le scale, è in marmo, ci sono delle specie di panche al muro, con dei lavatoi con eleganti rubinetti in ottone, vagamente retrò.

Dopo aver chiesto ad una ragazza spiegazioni e aver ricevuto poche, incerte parole in un inglese stentato, capisco che devo entrare nella sauna; devo starci, hanno detto, cinque minuti, ma ho lasciato l’orologio nello spogliatoio e non riesco a valutare lo scorrere del tempo. Non capisco perché mi sta montando un’ansia che somiglia a un serpente che lentamente striscia nelle mie viscere.

Dopo un po’, anche se a dire il vero, ci stavo bene, esco, ora mi hanno detto che mi devo rilassare.

E’ una parola rilassarsi a comando! Non so cosa devo fare, dove stare.

Dovrò andare ai lavatoi,”sciacquettarmi” un po’, oppure sdraiarmi su una piattaforma rotonda in marmo, sita nella stanza centrale?

Nel dubbio, faccio entrambe le cose, ovvero mi “sciacquetto” tipo tre secondi, poi vado a sdraiarmi.

Ma c’è una cosa che mi disturba: le altre donne sono turche, so che questo disturbo è sciocco: sono in Turchia, in un luogo frequentato dai locali, ma il fatto è che loro sanno cosa fare e io no.

Si muovono con tranquillità, probabilmente molte sono amiche fra loro, e si aggirano con indosso solamente enormi mutandoni bianchi o color carne bagnati, per i vari ambienti.

Vicino a me ce ne è una, vecchia, brutta e grassa e trascina con se’ due seni enormi simili a bisacce, somiglia a Ursula de “La Sirenetta”, mi guarda, “si lo so, sono secca, bianchiccia, capelli biondi, seno non pervenuto” mi sento come se avessi indosso un cartello con scritto “estranea che gioca a fare l’inserita”. Mi sdraio vicino a Ursula e altre sue amiche, loro ridono, parlano, ma soprattutto urlano sguaiatamente. Ma come posso rilassarmi con questo caos?

Mi ripeto “smetti di essere tesa, qui funziona così”

Provo a usare la fantasia e far finta di essere tornata indietro ai tempi dell’antica Roma, il bagno turco, è nato allora, le persone si ritrovavano alle terme, dopo il lavoro, per socializzare, qui è ancora così; per loro rilassarsi ha i connotati del nostro “fare l’aperitivo” non è come noi lo intendiamo, stare in silenzio, meditare, sonnecchiare, ecc-

Ma nonostante continui a ripetermi tutte queste cose, il serpente nel mio stomaco continua a strisciare, leggero e soave, adesso mi sembra che sibili anche frasi del tipo: “ sciocca donna non lo vedi che ti stanno pure prendendo in giro”.

Effettivamente è già un po’ che sono qui ferma e avrei già dovuto fare lo scrub, invece la ragazza addetta a tale funzione, lo ha già eseguito a donne” mutandate ascellarmente” giunte dopo a me.

Lo so perche ogni tanto aprivo un occhietto e sbirciavo, ovviamente mi stanno facendo fessa, mi passano avanti, tanto in che lingua replico? In turco?
Ad un certo punto, dopo Ursula tocca a me, ora anche io devo togliermi il reggiseno sotto invito che dice:” bikini, off!”

Eccomi io e le mie “micropuppe” ci sentiamo enormemente a disagio.

Lo scrub, qui capisco dopo pochi secondi è inteso come uno strofinamento violento con un guanto di crine, che scopro non essere monouso, ma solo sciacquato sommariamente. Questo significa che la mia pelle verrà strofinata via insieme a quella di Ursula!

Il terrore si impadronisce di me, penso a tutti i miei nei, “ e se me li graffiano?”

Vorrei scappare, e penso seriamente di farlo, ma mi vergogno troppo, eccola la donna di mondo che mi spaccio di essere, che fugge in un hammam, no. Non lo farò, affronterò tutto stoicamente.

Beh, più o meno.

La ragazza che è addetta a me è carina, mi spiega alla meglio cosa devo fare, ma mi inquieta un po’, il mio sguardo si è posato involontariamente su un ciuffo di peli, abbastanza lunghi che le crescono fra i seni. Non riesco a guardare altrove, sono come in un sogno, ipnotizzata dal serpente dello stress che mi si muove dentro.

Si inizia.
fa male, fa tanto male, quando arrivo a voltarmi scorgo una goccia di sangue sotto al seno, perfetto! Adesso mi becco anche qualche infezione.
Poi si passa al bagno di sapone. Hanno una grande sacca di cotone piena di schiuma e te la passano addosso, questo sarebbe piacevole, a parte il fatto che un po’ brucia, anche perché credo mi abbiano tolto fino al quarto strato di pelle.

Ma ormai ogni incanto è rotto, non mi rilasserò più

L’idea sarebbe di tornare bambina, con mamma che mi lava, e mi accudisce, da allora nessuno lo ha più fatto, ma la magia è svanita, intorno vedo solo il decadimento fisico che ride di me.

Fra un po’ temo cominceranno a indicarmi sghignazzando.

Finalmente il servizio arriva al termine, vengo mandata a fare la doccia e mi si dice di salire al piano di sopra per il massaggio.

Corro su come se fossi ai cento metri, appena giunta, una donna mi invita ad entrare in una stanza con al centro un lettino , di quelli con il buco per la faccia, intorno al buco c’è arrotolato un asciugamano con una fantasia vagamente anni settanta, che temo sia lì da tal periodo.

Io dovrei mettere il mio faccino in quel ricettacolo di bacilli? Ovviamente si, e il bello è che mi sento anche provinciale, borghese e snob a pensare queste cose, io che avrei voluto girare il mondo.

La donna mi lascia sola, dicendo che tornerà presto.

Qui a parte il buco per il viso, sarebbe gradevole.

Nel soffitto ci sono due aperture che fanno passare l’aria, io sono sempre bagnata, con un telo di lino addosso e questo venticello e il richiamo alla preghiera che si sente venir da fuori, mi dovrebbero far star bene, ma non so che ore sono, temo che il mio compagno sia già pronto, spazientito là fuori, forse perderemo anche l’ultimo dolmus per rientrare e lui si arrabbierà perché sono io che ho voluto venir qui.

Dalle aperture, poi sono entrate alcune mosche, mi si posano addosso, mi sembra di essere Antony Perkins, nel finale di Psycho.

Dopo un tempo interminabile giunge la mia massaggiatrice un donnone in bikini, mi dice di chiamarsi Minà, mi somiglia a Serra Yilmaz ha modi gentili e mi chiama lady, mi dice che ho un bel viso, adesso tutto sarebbe piacevole se il serpente non continuasse a strisciare facendo “tic tac tic tac, è tardi”

Finito il massaggio mi vesto alla velocità della luce senza sciacquarmi, sono unta come un acciuga fritta.

Il mio compagno è fuori, sta fumando una sigaretta in pace col mondo, appena lo vedo sogno un abbraccio, mi sento come appena svegliata da un incubo, uscita dal castello delle streghe.

Lui mi guarda, attentamente e dice: “ma non ti sei lavata, sei tutta unta, fai schifo, io mi vergogno a venire a giro con te” provo a spiegargli come è andata, che adesso ho paura di dover andare dal dermatologo, di avere dei nei graffiati, lui mi ascolta e poi dice “ così impari a non voler fare la turista, ma non lo vedi che nei buchi fra le scapole e il collo hai così tanto olio che sembrano laghetti?”

Salgo sul dolmus, fa caldo il sudore si mescola all’olio e forse anche a qualche lacrima di consapevolezza amara, essere nel posto sbagliato con la persona sbagliata, il serpente adesso è nella testa e sibila al mio orecchio:”Esiste la persona giusta?”

Di una cosa sono certa, se mi trovassi davanti Ozbetek lo prenderei per il collo, lui e i suoi bagni turchi!


LA FAMIGLIA SOLI

(parabola sulla solitudine)

Esisteva un tempo una famiglia infelice

Era la famiglia Soli

Non era un nome a caso, perché i componenti di questo bizzarro nucleo erano ognuno come un sole solo.

Padre, madre, figlia gravitavano ognuno nella propria orbita che non prevedeva l’incontro.

Se ne stavano lì sotto un tetto e ognuno custodiva il proprio mondo interiore fatto di sogni non realizzati.

Padre: viso grande, zigomi alti, occhi verdi, sempre seri.

Madre: faccia gioviale, risata rumorosa.

Figlia: tratti leggeri, come se un pittore impressionista avesse accennato con qualche pennellata fuggevole il suo volto, poi però c’erano gli occhi, quelli il suddetto impressionista li aveva lasciati a Corcos, incontrato per caso in un bistrot. Gli occhi grigio, celeste avevano qualcosa di magico, non sapevano mentire.

Con quegli occhi la figlia, che possiamo chiamare “Insomma” guardava il mondo e il mondo che vedeva le piaceva talmente tanto da farle schifo, rabbia e orrore.

Insomma non sapeva mai cosa voleva, pur sapendolo sempre, la sua riflessività la portava a perdere l’intuizione e la sfida del vivere.

Sapeva far tutto e niente veramente bene, studiare, parlare, amare, dipingere, cantare, recitare, lavorare, scrivere, leggere, spostarsi nel mondo, questi erano i suoi verbi e tutti quanti li declinava con correttezza e desiderio.

Il sogno nascosto, privato e talvolta peccaminoso di insomma era essere diretta, non retta, diretta.

Sognava la ribellione, il contraddittorio, la faccia tosta, il coraggio di essere fastidiosa e irriverente, ma agli occhi di tutti appariva solo come una gran brava bambina, educata e quadrata.

Fu così che vittima di un padre tutto immerso nel proprio egoistico io, pensò che la strada da seguire era smettere di essere un sole e cercarsi qualche astro per farle compagnia nelle notti di luna.

Ma non si può cambiare la propria essenza per compiacere chi non vuole essere compiaciuto.

Insomma incespicò, caracollò, franò, sopra una serie infinita di asteroidi, fino a che un giorno di nebbia, capì:
lei era una Soli, e tale doveva rimanere, la madre così sola da aver concentrato tutto il suo essere sulla figlia, annullandosi del tutto e investendo con i propri raggi il cammino degli altri, doveva fungere da esempio al contrario.

Insomma, insomma capì che per stare bene con gli altri bisogna essere orgogliosi di quel che siamo, che se vogliamo gli altri, dobbiamo per prima cosa volere noi stessi.
Banalità, ovvietà, ma verità.

Chi sta bene solo, deve stare solo, talvolta, ci possiamo avvicinare agli altri, ma a debita distanza, per non bruciarli e non esserne bruciati.
Insomma una sera rientrando a casa volse lo sguardo al cielo; c’era una luna quasi piena, che giocava a coprirsi con le nuvole, se le faceva passare davanti; ora c’era, ora spariva, ora si faceva scorgere velata, ora sembrava spogliata.

Un lampione illuminava le case vicine con una luce forte e accecante. Ma la luna, che non brilla di luce propria, vinceva comunque.
Sole e luna sono gli amanti perfetti, il loro è l’amore vero, puro e irraggiungibile.