VITE SPEZZATE
LA VALLE DEL BELICE

INTRODUZIONE
Fra le poche cose che ho potuto salvare dalla furia devastante del terremoto, ci sono i miei diari, in cui avevo annotato il succedersi degli avvenimenti tragici che hanno segnato la mia gioventù.
Nel vedere alla televisione le immagini del disastro causato dal terremoto in Abruzzo, nel sentire il grido di dolore di tanta gente che ha perso i suoi cari, la propria casa, ho sentito il bisogno di parlare della mia esperienza di terremotata.

14 Gennaio 1968

Il ricordo di quel giorno è ancora impresso nella mia mente.
Era una domenica, una domenica un po’ diversa dalle solite.
Da diversi giorni il paese era ammantato di neve.
Io quella mattina non uscii da casa. Avevo avuto la febbre tutta la settimana e ancora non ero guarita del tutto. Ero seduta dietro la porta finestra del salottino, al primo piano del mio appartamento e stavo realizzando un merletto con il tombolo per un lenzuolo.
I lavori manuali sono stati da sempre la mia passione. Da piccola osservavo le signore del vicinato che, ogni pomeriggio, si sedevano nel cortile e lavoravano. C’era chi lavorava ai ferri, chi all’uncinetto, chi al chiacchierino, altri ricamavano o lavoravano con quel rotolo cilindrico, i piombini e gli spilli, che costituisce il tombolo, per realizzare bellissimi merletti.
Osservavo e provavo anch’io a realizzare quei lavori artistici. Se incontravo difficoltà chiedevo aiuto alle signore, che pazientemente mi insegnavano ciò che dovevo fare.
Quella domenica, per non annoiarmi, avevo deciso di continuare il mio ricamo. Lavoravo e spesso lanciavo lo sguardo fuori.
Mia madre era salita in cucina, per pulire la ringhiera del balcone. Avevamo ristrutturato la casa e stava togliendo la calce rimasta. Finalmente avevamo una nuova sala da pranzo separata dal cucinino, al secondo piano dell’appartamento. Dove prima c’era una piccola finestra di non più di cinquanta centimetri, adesso c’era un lungo balcone con un’ampia porta a vetri che illuminava la stanza, rendendola più accogliente. Mi piaceva molto la nuova disposizione dei vani della casa. La sala da pranzo era molto ampia, avevamo comprato dei mobili nuovi e un lungo tavolo. Adesso potevamo invitare amici e parenti senza doverci stringere in un angusto ambiente.
Erano le ore 12:00 quando la terra cominciò a tremare.
Fu una scossa di lieve entità, che mise però in allerta la gente.
Provai una sensazione strana: tra incredulità e paura. Subito dopo vidi scendere mia madre, spaventata e stupita. Lei che si trovava sul balcone aveva percepito con maggiore intensità il movimento ondulatorio ed aveva temuto di veder crollare il balcone e di sfracellarsi sulla strada. Si era aggrappata alla ringhiera per non cadere e aveva sentito il ferro vibrare sotto le sue mani.
Ci affacciammo al balcone del soggiorno e vedemmo tutti i vicini per strada. Cominciò a girare di bocca in bocca una parola: il terremoto. E fu l’inizio di un incubo che si protrasse per anni e anni.
Infatti, quella avvertita da tutti gli abitanti del paese, era stata una scossa tellurica, durata una manciata di secondi, che era servita a mettere in allerta la gente e ad evitare un maggiore numero di morti.
Restammo allibiti. Per noi abitanti di Santa Ninfa era un’esperienza insolita.
La gente cominciò a chiedersi se non fosse il caso di allontanarsi dal paese, di andare in campagna. Ma la giornata era fredda, il ghiaccio si era ammucchiato ai bordi delle strade e molti non se la sentirono di affrontare una giornata all’agghiaccio.
Passato il momento di panico, ciascuno ritornò nelle proprie case e la vita riprese il suo normale corso.
Io non ero tranquilla, l’idea di restare in casa mi terrorizzava. Ero ancora debole e quindi più incline ad ingigantire il pericolo.
Dopo dieci minuti vedemmo arrivare mio zio che ci invitò ad andare in località “Piana”, dove mia zia Giuseppa possedeva un appezzamento di terreno con una casetta. Sicuramente non sarebbe successo niente, ma era domenica e una giornata in campagna non ci avrebbe fatto male.
La località “Piana” distava dal paese non più di due chilometri.
Arrivammo, entrammo nella casetta e, dopo aver riscaldato il cibo che avevamo portato, ci sedemmo e iniziammo a pranzare.
Alle 13:20, mentre eravamo a tavola, una nuova scossa ci buttò nel panico.
Fu una scossa dell’intensità del sesto grado della scala Mercalli.
Noi avvertimmo soltanto un leggero dondolio, ma in paese la gente sentì tremare le loro case dalle fondamenta e cominciò a fuggire verso le zone di campagna.
Dopo un poco vedemmo arrivare una flotta di gente che, spaventata da quella nuova scossa, aveva preferito riversarsi in luoghi più sicuri. E con loro arrivarono le prime notizie: calcinacci e cornicioni erano caduti a Gibellina, il paese più vicino all’epicentro.
Ancora non si parlava di morti e di feriti, ma il panico aleggiava nell’aria e cominciava a serpeggiare fra la gente.
Passarono le ore, intanto erano arrivati amici e alcuni parenti che avevano una grande casa accanto al terreno di mia zia.
Il primo pomeriggio trascorse in piacevole compagnia.
Ma alle ore 17:00 la terra tornò a tremare.
La maggior parte degli abitanti che ancora si trovava in paese si riversò nelle campagne. Rimasero nelle loro case le persone anziane e gli invalidi, impossibilitati a muoversi. Il sole cominciò a tramontare, scese la sera con le sue ombre, rendendo più cupa la paura.
L’aria era gelida, la casetta troppo piccola per accoglierci tutti per la notte.
Dopo cena decidemmo di ritornare in paese. Io non volli salire nella mia camera, dissi che avrei dormito sulla brandina, nel negozio di zia, da lì sarei potuta uscire più velocemente ed evitare il pericolo delle scale.
Mia madre e mia zia, sia pure a malincuore, rimasero con me e si rassegnarono a trascorrere la notte su una brandina, riscaldate da un plaid.
Intanto la radio e la televisione davano le prime notizie.
Tutta l’Italia sentì parlare, forse per la prima volta, della Valle del Belice, dei paesi di Gibellina, Partanna, Salaparuta, Santa Ninfa, Montevago. La televisione trasmetteva notiziari ogni mezz’ora, per aggiornare le popolazioni dell’evolversi degli avvenimenti.
I giornalisti parlavano di lievi danni alle abitazioni.

15 Gennaio 1968

Alle 2:20 di quella tragica notte, sentii i cani abbaiare, gli asini ragliare nelle stalle dei vicini, i cavalli nitrire.
Sapevo che gli animali percepiscono prima degli esseri umani l’arrivo di una scossa tellurica, quindi mi alzai e pregai mamma di uscire, prima che succedesse l’irreparabile. Alle 2:30 la terra tornò a tremare.
Fu una scossa fortissima che fece cadere tutta la merce che era sistemata negli scaffali. Sembrava la fine del mondo, tutto ondeggiava attorno a noi. Temetti che il pavimento si aprisse e ci inghiottisse. Provai uno strano senso d’irrealtà, eppure il terrore che mi afferrò in quel momento era reale.
Mi misi sulle spalle il plaid e fuggii fuori. Mia madre cercò di fermarmi, ma io ero terrorizzata.
Uscirono anche loro, ma non sapevamo dove andare. La gente per le strade urlava, c’era il caos completo.
Dopo qualche minuto vedemmo arrivare la macchina di mio zio. Mi sentii salva. Non eravamo più tre donne sole, in quella notte d’inferno. Mio zio ci avrebbe portato in un posto sicuro. Salimmo e ci accompagnò in località la “Piana”, dove avevamo trascorso la domenica. Ma non andammo nella casetta di zia. Lì non c’era neanche la corrente elettrica.
Andammo a casa dei nostri parenti che sembrava più solida. Dentro la casa di campagna si stava bene. I padroni di casa avevano preparato del the caldo, latte e biscotti per grandi e piccoli.
Cominciammo a scherzare, a giocare a carte. Si parlava del più e del meno. Ma soprattutto si parlava del nostro domani.
Avremmo trovato le nostre case ancora in piedi, o ci attendevano soltanto cumuli di macerie? Avremmo ripreso una vita normale al sorgere del nuovo giorno, o ci aspettavano giorni di sofferenze e disagi? Il nostro futuro si presentava come un’incognita.
Di tanto in tanto arrivava qualche giornalista che, vedendo la casa illuminata, si fermava per riposarsi e per ristorarsi.
Portavano tristi notizie: le strade erano diventate un pantano, c’era fango ovunque. I collegamenti con i paesi colpiti erano impossibili a causa di frane che avevano ostruito le strade che collegavano i vari centri.
A Gibellina, uno dei centri più colpiti, c’erano stati i primi morti, i primi crolli e tanti, tanti feriti.
Alle tre di quella mattina la terra tornò a tremare.
Uscimmo tutti fuori, mentre dalla casa cominciavano a cadere calcinacci e cornicioni.
Sembrava che la terra ci dovesse inghiottire da un momento all’altro.
Il boato che precedette la scossa fu terrificante.
Un boato immenso, come se venisse dal ventre della terra, scosse gli animi degli abitanti della Valle del Belice e sconvolse la vita di migliaia di persone.
Subito dopo la terra tremò violentemente. Fu un movimento ondulatorio e sussultorio che travolse e distrusse tutto quello che la mano dell’uomo aveva pazientemente costruito nel corso degli anni.
La scossa durò circa sessanta secondi, un tempo che non passava mai.
In seguito ci raccontarono che, alle tre di quel 15 gennaio di quarantuno anni fa, le lancette degli orologi posti in alto sul palazzo del Municipio e sulla torre del campanile della Chiesa Madre si fermarono, come a voler imprimere nella mente di ciascuno quell’ora che segnò la morte di tante vite umane.
Il cuore di ciascuno fu stretto da una morsa, la morte ci sfiorò e passò oltre senza colpirci, ma presso altri si fermò, mettendo la parola fine alla loro esistenza terrena.
La terra sembrava impazzita; si aprirono voragini, crollarono palazzi che sembravano solidi, si sbriciolarono le case della povera gente.
Chi non ebbe lutti in famiglia, pianse gli amici rimasti sotto le macerie delle loro case e si vide privato di ogni bene terreno. Quel sisma tremendo, del 9° grado della scala Mercalli, durato un minuto, era stato avvertito da tutti gli abitanti della Valle del Belice. Il paese era devastato, tetti scoperchiati, le porte delle abitazioni spalancate, cornicioni che pendevano dall’alto, rovine e calcinacci ovunque.
In un minuto il terremoto aveva cancellato tanti paesi: Santa Ninfa, Poggioreale, Santa Margherita Belice, Gibellina, Montevago. Altri paesi erano stati distrutti parzialmente.
Si contarono decine e decine di morti.

16 Gennaio 1968

Alle prime luci dell’alba una processione di gente sconvolta passò davanti ai nostri occhi.
Tutti avevano l’orrore scolpito nei loro sguardi. Molti avevano visto morire i loro cari, senza poter far niente per salvarli.
Le strade erano ostruite dalle macerie. I volontari, guidati dal parroco, si organizzarono per portare i primi soccorsi. Sotto le macerie c’erano famiglie intere. I superstiti invocavano il loro aiuto, sperando di trovare qualche familiare ancora in vita.
Si scavò a mani nude fra le macerie, si ascoltò ogni minimo rumore, ogni minimo suono che proveniva dall’ammasso di rovine.
Tutti chiedevano notizie; i feriti invocavano aiuto; gli scampati, impazziti dal dolore, chiamavano i loro cari che non c’erano più.
Si sentiva incessantemente il suono stridulo e prolungato delle sirene delle ambulanze che trasportavano i feriti negli ospedali dei paesi meno colpiti.
Non potevamo spostarci per raggiungere amici o parenti perché il suolo era diventato un pantano, i piedi sprofondavano nel fango.
Restammo in macchina per molte ore. Ma i bambini avevano fame e piangevano. Non avevamo più acqua.
Verso le ore 10:00 arrivò un grosso furgone con delle provviste; pane ed acqua. Ci si affollò attorno per avere la nostra porzione.
Mai cibo mi sembrò più squisito di quel pezzo di pane che mangiai quella mattina.
Quel 15 gennaio la vita si fermò, rimasero soltanto distruzione e dolore, quel dolore che gli abitanti dei paesi distrutti si sentirono addosso per ben nove anni, perché soltanto dopo nove anni i bambini conobbero una vera casa.